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Ora e subito!

Tra meno di una settimana Giulia avrebbe ascoltato la commossa retorica della Giornata contro la violenza sulle donne. Probabilmente aveva già letto le locandine di qualche ente locale per la promozione delle iniziative organizzate per l’occasione.
Ma Giulia Cecchettin non avrà modo di assistervi: è stata uccisa con numerose coltellate alla testa e al collo, poi è stata fatta rotolare lungo un dirupo per 50 metri.
Anche Annalisa avrebbe voluto mostrare il suo sdegno per la violenza verso le donne. Ma anche per Annalisa D’Auria questo non sarà possibile: è stata uccisa a coltellate qualche giorno fa dal convivente.
Come non sarà possibile a tantissime altre donne, altre 103 per essere precisi, uccise dal primo gennaio di quest’anno insieme a Giulia e Annalisa.
Anch’io non voglio partecipare alla prosopopea degli officianti la liturgia del 25 novembre, con i vuoti atti di contrizione e l’auspicio di messianici cambiamenti.
Oggi, e non il 25 novembre, è ora di dire basta, unendo però la azioni alle parole.
Non è più sufficiente l’esecrazione, occorre agire.
Si è parlato in questi giorni dell’introduzione nelle scuole di appositi corsi.
Ecco, ancora una volta, che la scuola, trascurata e maltrattata da tutti i recenti governi, diviene d’incanto la panacea di ogni male.
Vi sembra forse che la soluzione possa essere semplicemente l’introduzione di una nuova materia di studio? A me pare piuttosto il desiderio di scaricare su una realtà già provata e priva di risorse responsabilità che – pare nessuno lo voglia ammettere – sono insite nella famiglia.
Certo, la scuola è importante. Ma quanto possibile per una formazione civile degli alunni già gli insegnanti tentano di farlo con il corso di educazione civica che, come da recente circolare del Ministero dell’Istruzione, è finalizzata a consolidare la consapevolezza dei diritti e dei doveri nella cittadinanza futura.
Anche perché, giova ricordarlo, sommando ai femminicidi gli atti di violenza sessuale sulle donne, scopriamo che oltre la metà degli autori ha meno di 35 anni.
Il vero problema sono le famiglie. Quando un genitore non coglie nel figlio i tratti tipici del violento o è complice o è un pessimo genitore. Forse era troppo impegnato a minacciare o picchiare l’insegnante per un brutto voto dato al figlio.
Genitori che umiliano o aggrediscono gli insegnanti, che insegnano che il rispetto è legato alla sopraffazione, che pontificano circa la necessità di arrivare primi a qualunque costo, beatificando la dea furbizia, sono una patologia sociale contro la quale nulla può nessun corso scolastico, pannicello caldo per coscienze inquiete e prive di idee.
Non so quanto tempo occorra per riuscire a modificare lo stato delle cose, ma non possiamo permettere che in tutto questo lasso di tempo centinaia di donne continuino a morire e altre migliaia a essere stuprate.
Occorre quindi accentuare gli strumenti repressivi.
A partire, perché no, proprio dalla famiglia. Quando un genitore aggredisce fisicamente un insegnante perché non dovrebbe essere sottoposto alla decadenza dalla responsabilità genitoriale?
Positivo, anche se non risolutivo, il contenuto del disegno di legge in discussione questa settimana al Senato, un pacchetto di norme che dovrebbero rendere più efficace il Codice Rosso attraverso nuove azioni normative per tenere lontani stalker e violenti dalle potenziali vittime. Dal rafforzamento degli strumenti di prevenzione (ammonimento, braccialetto elettronico, distanza minima di avvicinamento, vigilanza dinamica ecc.) e con la loro applicazione ai cosiddetti “reati spia”, in modo da evitare che la violenza venga del tutto perpetrata e che l’eventuale intervento maturi troppo tardi per bloccarne le conseguenze. E’ previsto anche l’arresto in flagranza differita, e vengono stabilite nuove regole per favorire la specializzazione sul campo dei magistrati e la formazione degli operatori che, a diverso titolo, sono chiamati per ragioni professionali ad entrare in contatto con le vittime.
Dalla magistratura ci si deve aspettare non solo una specializzazione, ma anche una sensibilità che escluda il ripetersi di alcuni recenti episodi.
Scalpore ha suscitato, pochi giorni fa, la concessione degli arresti domiciliari, dopo sei anni di detenzione, a un uomo condannato a trent’anni per l’omicidio della fidanzata. Il provvedimento è stato giustificato dalla sua obesità e dall’eccesso di fumo. Il detenuto, si legge, non segue le indicazioni dietetiche e non diminuisce le cento sigarette al giorno che fuma, con i conseguenti rischi di natura cardiovascolare. Non poteva essere trasferito in una struttura sanitaria in regime detentivo? Era necessario rimandarlo a casa, a pochi chilometri dalla residenza dei genitori della vittima?
Ancora più inquietante è la recente presa di posizione del pubblico ministero di Brescia, che ha chiesto l’assoluzione per l’ex marito di una donna, nata in Bangladesh ma cresciuta in Italia, che nel 2019 ha trovato il coraggio di denunciare i maltrattamenti subiti dall’uomo. Secondo il magistrato, i contegni di compressione delle libertà morali e materiali della parte offesa da parte dell’imputato sono il frutto dell’impianto culturale e non della sua coscienza e volontà di annichilire e svilire la coniuge per conseguire la supremazia sulla medesima, atteso che la disparità tra l’uomo e la donna è un portato della sua cultura che la medesima parte offesa aveva persino accettato in origine. Secondo questa teoria dovremmo accettare il sorgere nel nostro Paese di enclavi – principalmente islamiche – in cui i diritti e la dignità della donna sono “sospesi”, per rispetto alla “cultura” riferita a detta religione. Si tratta di una tesi assurda, che getta ombre oscure e foschi presagi. Peraltro in contrasto con la sentenza n. 13786/2023 della Cassazione.
Prevenzione e cambiamento di mentalità, dunque, ma anche – nel frattempo – una più efficace e, se del caso, severa repressione dei fatti. Anche verso i colpevoli obesi o islamici.
E’ l’unica risposta seria che si può dare a Giulia, ad Annalisa e a tutte le vittime di omicidio, di stupro e di violenza.
Senza questa risposta il prossimo 25 novembre si risolverà in un’ennesima passerella di cordoglio e di retorica.
L’ennesima.

Immagine tratta da sito della Diocesi Ambrosiana

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Ricordate questa foto!

Guardate questa foto. E ricordatela.

Rammentatela domani, quando l’onda retorica del 25 novembre vi sommergerà in un profluvio di immagini e di belle frasi erroneamente attribuite.

Ma soprattutto tenetela presente quando udirete le roboanti e indignate dichiarazioni dei partiti politici e dei loro leader, tutti affratellati dallo sdegno per la violenza sulle donne.

Perché quando si tratta di impegnarsi realmente in tale direzione la risposta è tutta in questa foto, scattata ier l’altro, il 22 novembre.

La Ministra per le Pari Opportunità Elena Bonetti, vestita di rosso, mascherina compresa, perché il rosso è il colore scelto per la Giornata contro la Violenza sulle donne, illustra alla Camera una mozione sull’argomento, enunciando alcune importanti misure a sostegno delle vittime, tra cui il microcredito di libertà e il reddito di libertà.

Peccato che su 630 deputati siano presenti in 8!

Un sintomo profondo del disinteresse della politica per un tema che è divenuto solo strumento di propaganda e palestra di retorica.

Quando Elena Bonetti ha scandito, ad alta voce, che sono 108 le donne vittime di femminicidio quest’anno, l’eco della sua voce nell’aula vuota è divenuta un “j’accuse” irrevocabile verso un’intera classe politica.

Non sto facendo del facile qualunquismo.

Non si tratta di porsi contro il sistema basato sulla democrazia parlamentare che, al contrario, è il miglior metodo di governo ad oggi conosciuto.

Non si tratta di criticare il metodo democratico, ma di bollare di incapacità, egoismo e inefficacia la classe politica che incarna questo sistema.

Non è il metodo da cambiare, ma le persone che lo incarnano oggi.

Per questo non dobbiamo scordare questa foto!

Foto “Il Messaggero”
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Non solo il 25 novembre!

A Reggio Emilia Juana Cecilia Hazana Loayza, una donna di origini peruviane, è stata trovata morta in un parco pubblico. Sul collo aveva un’ampia ferita da arma da taglio. A infliggerla sarebbe stato Mirko Genco, ventiquattrenne di Parma, che da tempo perseguitava la donna.
A Sassuolo, poche ore prima, Nabil Dahir aveva barbaramente ucciso la sua ex compagna Elisa Mulas, la mamma della donna, Simonetta Fontana, e i due figli di 2 e 5 anni.
Lo stesso giorno Anna Bernardi è stata uccisa dal marito nella loro casa: dopo averle tagliato la gola l’uomo ha provato a togliersi la vita, Senza riuscirci.
Potrei proseguire per molte pagine. Quelle necessarie a contenere i nomi e le storie delle 108 vittime di femminicidio nei primi dieci mesi del 2021.
Sono consapevole che se parlerà a lungo tra pochissimi giorni, il 25 novembre, giornata contro la violenza delle donne.
Ma sono altresì convinto che proprio la pletora di commemorazioni e l’onda lunga di addolorato sdegno dettato dalla ricorrenza rendano il tema tanto solenne e liturgico quanto destinato a svanire il giorno dopo nell’oblio del quotidiano.
Per questo scrivo queste considerazioni oggi, in una data diversa da quella destinata alla commemorazione, nella speranza che la riflessione sia più attenta e meno scontata.
108 vittime in 11 mesi: una donna morta ogni tre giorni. Stando ai dati del Viminale 96 omicidi sono stati commessi in ambito familiare e 68 donne sono state uccisa da partner o ex partner.
Mentre il totale degli omicidi in Italia, nel corso degli ultimi 5 anni, è diminuito del 28%, il numero dei femminicidi è invece notevolmente aumentato. Questi ultimi, rispetto al totale delle uccisioni, sono infatti aumentati dal 35 al 44 per cento. Ormai quasi un omicidio su due, in Italia, è un femminicidio.
Nonostante le tante “panchine rosse” si rischia ormai, proprio per la frequenza del crimine e l’assuefazione allo stesso, di rendere invisibili le vittime, con un faro che ormai si accende solamente il 25 novembre, con una ritualità che si insinua stancamente nella rassegnazione.
Che fare per arginare questa tragedia?
Innanzitutto dobbiamo ragionare in termini di adeguamento giuridico.
E’ vero che, nel corso degli ultimi anni, alcune novazioni sono state introdotte, dalla legge del 2013 al cosiddetto codice rosso del 2019, ma i risultati ancora non si vedono.
Se è vero che – come risulta dai dati pubblicati dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla violenza sulle donne – il 63% delle vittime non aveva mai denunciato le violenze subite, è tuttavia triste che coloro che lo hanno fatto ne abbiano tratto ben poco beneficio.
Si tratta, in prima istanza, di una mancata “formazione” del personale deputato a raccogliere le denunce e ad assumere i provvedimenti conseguenti.
Leggendo la relazione della Commissione cogliamo perfettamente, in molti casi, un modo di ragionare che ci proietta indietro nel tempo. In molti piccoli centri, in cui dovrebbe essere proprio il fattore della conoscenza personale ad aiutare nella lettura della violenza e del rischio, alcune delle donne uccise hanno chiesto aiuto alle forze dell’ordine rappresentando la paura e la difficoltà di denunciare o la presenza di armi e sono state dissuase dal farlo, sono state rassicurate e rimandate a casa. In alcuni casi le forze di polizia, non distinguendo tra violenza domestica e lite familiare, nonostante il tangibile terrore della donna, si sono limitate a “calmare gli animi” (come si legge testualmente nei verbali).
Ai pubblici ministeri la Commissione rimprovera invece una difficoltà a riconoscere la violenza nelle relazioni intime e una non adeguata conoscenza dei fattori di rischio.
Anche qui si tratta di un problema di formazione. Un giudice deve cogliere segnali, decodificare comportamenti, inoltrarsi nei risvolti psicologici di chi agisce con violenza. Allora saprà valutare meglio il rischio che corre la donna e di conseguenza prendere provvedimenti adeguati. Il che non sempre significa affidarsi alla mera applicazione del diritto, perché agire secondo legge non sempre basta a scongiurare il peggio,
Dobbiamo a mio parere giungere, in caso di comportamenti persecutori verso la donna, al “braccialetto elettronico”, oggi impossibile in quanto serve il permesso dell’interessato e non esiste alcuna norma che indichi il carcere quale alternativa a tale strumento.
Ma aldilà dell’aspetto normativo è essenziale anche una svolta culturale. La relazione della Commissione Parlamentare ha rilevato alcune problematiche persino nel linguaggio usato nelle sentenze e nelle molte archiviazioni. Spesso la pregressa condotta violenta dell’uomo viene definita “relazione burrascosa, tumultuosa, turbolenta, instabile…”, anche a fronte di precedenti denunce della vittima per gravi maltrattamenti. Le vittime di femminicidio vengono spesso chiamate per nome, gli imputati per cognome, così generando una discriminazione anche linguistica, non giuridicamente giustificabile. Le vittime non sono descritte rispetto al loro contesto sociale e professionale, ma indicate come madri, mogli e figlie, cioè rispetto al loro ruolo familiare. Infine quando svolgono attività di prostituzione vengono chiamate prostitute e non con nome e cognome, così stigmatizzandole in partenza.
Ma il vero nucleo di cambiamento culturale è rappresentato dal binomio scuola e famiglia, laddove devono essere eradicati stereotipi arcaici ma pericolosi ancora presenti per creare una nuova visione di genere basata su rispetto e uguaglianza.
Molte scuole si stanno attivando per realizzare progetti promossi dal Dipartimento delle Pari Opportunità e finanziati dalla Commissione Europea per prevenire la violenza sulle donne. L’educazione alla parità tra i sessi e alla prevenzione della violenza di genere deve entrare a far parte del Piano dell’Offerta Formativa di ogni istituto e investire in maniera trasversale tutte le discipline, anche mediante la scelta oculata dei libri di testo.
Sono queste le iniziative necessarie a combattere la piaga del femminicidio.
Senz’altro più efficaci delle panchine rosse inaugurate ogni 25 novembre, in una giornata per molti sconfinata nella retorica.

Foto di Canal de Denúncias

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8 marzo: nulla da festeggiare, molto su cui riflettere

8 marzo: Giornata internazionale della Donna.
Una ricorrenza, anche quest’anno, diversa dal solito.
Una giornata priva di quella pletora di orpelli e banalità che ne offuscavano il reale significato: nessuna mimosa, niente cene, nessun evento ludico.
L’assenza di questi paludamenti ci permette però di cogliere meglio i reali problemi sui quali occorre soffermarci, perché quella odierna è la Giornata della Donna, non la Festa, come vorrebbero esigenze commerciali.
Il primo di questi problemi è certamente la violenza che quotidianamente le donne subiscono. Undici vittime di femminicidio dall’inizio dell’anno. Una tendenza apparentemente inarrestabile: a partire dal 2000 le donne uccise in Italia sono state 3.344.
Oltre a quella estrema del femminicidio permangono molte altre forme di violenza sulle donne. Secondo un recente studio dell’Università di Padova, in Italia il 31,5% delle donne tra i 16 e i 70 anni ha subito una qualche forma di violenza fisica o sessuale nel corso della propria vita. Significa che sono circa 7 milioni le donne che, almeno una volta nella vita, sono state vittime di qualche tipo di violenza. 4 milioni e 353 mila donne hanno subito violenza fisica, 4 milioni 520 mila violenza sessuale, 1 milione 157 mila le forme più gravi della violenza sessuale come lo stupro (652 mila) e il tentato stupro (746 mila).
Dobbiamo anche riflettere sul rapporto tra la donna e il mondo del lavoro.
L’Eu Gender Equality Index ha certificato come il nostro rimanga “l’ultimo Paese in termini di divari nel campo del lavoro”. Lo scorso anno il tasso di occupazione femminile risultava ancora inchiodato al 50,1% (e con la pandemia è sceso di nuovo sotto questa soglia), marcando una distanza di ben 17,9 punti percentuali da quello maschile. I divari territoriali sono molto ampi: il tasso di occupazione delle donne è pari al 60,2% al Nord e al 33,2% al Sud.
In Italia, inoltre, il calo dell’occupazione femminile durante l’emergenza Covid è stato il doppio rispetto alla media Ue, con 402mila posti di lavoro persi tra aprile e settembre 2020.
Nel solo mese di dicembre dello scorso anno si sono persi 101 mila posti di lavoro: 99 mila di questi erano occupati da donne.
Rimane insopportabile anche la differenza di reddito tra generi: “L’Italia presenta oggi uno dei peggiori gap salariali tra generi in Europa”. Sono parole del premier Mario Draghi, il quale è stato chiaro nel suo discorso programmatico al Senato: il divario di genere in Italia deve essere una priorità e, fra le azioni da intraprendere, c’è quella di colmare la differenza di salario fra uomini e donne.
Vi è ancora quell’odioso e strisciante fenomeno del sessismo volgare e intimidatorio. Un atteggiamento pericolosamente diffuso e, purtroppo, non limitato a fasce limitate e marginali del mondo maschile.
Da quanto detto appare chiaro che non occorrono mimose o frasi melense che durino lo spazio di una giornata. E’ necessario un sostanziale cambiamento di mentalità ma soprattutto, nelle more di questo, occorrono precisi provvedimenti legislativi idonei a governare e accelerare questa trasformazione.
Per quanto riguarda il contrasto alla violenza si impone lo stanziamento in via prioritaria di finanziamenti adeguati per il contrasto alla violenza e l’elaborazione di soluzioni che permettano di fornire una risposta coordinata: i centri anti violenza e le case rifugio nel nostro paese sono poche e senza fondi. Uno studio dell’organizzazione WAVE (Women Against Violence Europe) ha mostrato come nonostante la Convenzione di Istanbul del Consiglio d’Europa prescriva che ogni Stato disponga di un posto letto in casa rifugio ogni 10.000 abitanti, nel nostro paese manchi l’87% del numero previsto.
E’ altresì necessario riformare profondamente la normativa del cosiddetto “codice rosso”, che si sperava potesse intervenire efficacemente sul tema e che, invece, si è rivelata un fallimento. Il problema è che si è fatta una mera enunciazione di principi, senza la necessaria copertura finanziaria. La legge, infatti, è a “invarianza finanziaria”, ossia non prevede ulteriori fondi. Va fatto tutto con le risorse che già ci sono – e che, la realtà ha dimostrato, non bastano. Non sono previste disponibilità per permettere alle procure di fare fronte ai tempi e ai numeri; non ci sono fondi per potenziare i Centri anti violenza, né per la formazione del personale che si ritrova a raccogliere la denuncia delle donna.
Così accade che, poche settimane fa, Clara Ceccarelli, una donna minacciata da tempo dal proprio ex compagno, si sia pagata il proprio funerale nella certezza di finire assassinata, cosa effettivamente avvenuta pochi giorni dopo.
Per quanto attiene la discriminazione in campo economico e del lavoro possiamo e dobbiamo far nostre le proposte provenienti dall’Europa, ben più lungimirante dell’Italia su questo tema. L’uguaglianza di genere e le pari opportunità per tutti, secondo le direttive UE, dovranno essere tenuti in considerazione nella preparazione e attuazione dei piani per la ripresa e la resilienza, che saranno presentati dagli Stati membri al fine di beneficiare delle risorse del Dispositivo per la ripresa e la resilienza Next generation EU con una dotazione finanziaria di 672,5 miliardi di euro, di cui circa 209 miliardi per l’Italia. Secondo quanto prevede il nuovo regolamento istitutivo del dispositivo, recentemente approvato in via definitiva da Parlamento europeo e Consiglio, i piani dovranno esplicitare le modalità con cui le misure dovrebbero contribuire alla parità di genere. Il Presidente Draghi ne è ben consapevole e l’ha posto tra gli obiettivi del governo nel suo intervento al Senato. Così deve essere.
Per quanto concerne l’ingiuria sessista occorre passare dal biasimo all’azione, anche legale. Occorre che tutti i protagonisti vengano perseguiti in sede penale. Così come è necessario che, laddove l’apparato pubblico possa intervenire direttamente, lo faccia. Per cui se un professore universitario si rivolge a una donna impegnata in politica non già dicendo che le sue tesi sono sbagliate e incompetenti (tesi peraltro condivisibile) ma apostrofando questa donna come “vacca” e “scrofa” deve subito essere subito sospeso dall’insegnamento, come fortunatamente avvenuto: non deve essere per lui possibile interfacciarsi con la platea studentesca, affinché non possa trasmettere la volgarità e lo squallore che alberga nel suo pensiero. Se un cosiddetto opinionista, peraltro straniero, non trova pensiero più intelligente che definire “escort” la moglie di un presidente sulla base di un pregiudizio (o – forse – di becera invidia) ci troviamo dinnanzi a un piccolo e insignificante uomo, che non deve più apparire alla televisione pubblica.
Più in generale qualunque soggetto insulti una donna con frasi sessiste, nella vita o sui social, deve essere perseguito penalmente e rispondere adeguatamente della sua meschinità.
Tutto questo in attesa di un nuovo pensiero diffuso, in cui la donna sia non già eguale ma naturalmente sinergica all’uomo, in un processo di armonioso sviluppo basato sulla eguaglianza e sul rispetto.
Che non è cosa di un giorno, ma conquista definitiva.
Dice un proverbio cinese che le donne sostengono la metà del cielo.
Ma io aggiungo che così facendo rendono migliore anche l’altra metà.

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Le radici della violenza

Ogni qual volta ci troviamo a condannare la violenza sulle donne ribadiamo che fertile humus di questa piaga sono i luoghi comuni e le offese sessiste verso di loro.

Quando queste offese avvengono addirittura sulle reti pubbliche televisive lo sconforto ci dovrebbe sgomentare.

L’ennesimo triste esempio è di pochi giorni fa, allorquando nel corso della trasmissione “Unomattina”, su RAI 1, l’opinionista Alan Friedman, collegato via Skype per commentare l’addio di Trump alla Casa Bianca, aveva definito la moglie Melania come una “escort”.

Affermazione, purtroppo accompagnata da qualche risatina in studio.

Non si possono più tollerare questi atteggiamenti, così come non è accettabile che la differenza di opinioni e di pensiero possa in alcun modo costituire un’attenuante alla volgarità.

Un insulto sessista è una canagliata, che sia diretto a Melania Trump, a Teresa Bellanova, a Laura Boldrini, a Giorgia Meloni o alla cassiera del bar sotto casa!

Concordo pienamente con quanto scritto da Mara Carfagna: “Garbo e rispetto sono, innanzitutto, un obbligo dell’educazione, quella che ci hanno insegnato le nostre madri e le nostre nonne: la cosa più tradizionale e identitaria che io possa immaginare, la più popolare che mi venga in mente. Ma, oggi, il rifiuto interiore del sessismo – quello che dovrebbe impedire di far commenti sulle donne come i vecchi pappagalli a bordo strada – dovrebbe essere anche precondizione di ogni impegno politico e giornalistico”.

Mi aspetto che la RAI, in ossequio al suo ruolo di servizio pubblico, si astenga per un lungo periodo dall’invitare tale presunto opinionista nelle proprie trasmissioni.

Melania Trump non è una “escort”, ma più semplicemente la moglie di Donald Trump.

Così come Friedman non è un opinionista, ma più semplicemente un poveraccio.

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25 novembre: diamo concretezza allo sdegno

25 novembre: “Giornata mondiale contro la violenza sulle donne”.

La gran parte della stampa, nei suoi titoli, scrive che si “celebra” tale giornata. Forse un termine poco felice, se inteso nel suo significato di “festeggiare solennemente con cerimonie varie” (cfr. Treccani). Meglio sarebbe forse dire che si “ricorda” la violenza sulle donne, al limite che si “commemora”.

Perché la cosa davvero importante è riflettere, analizzare e diventare più consapevoli di questo gravissimo problema.Un dramma che, ben lontano dall’essere risolto, è addirittura peggiorato nel corso del 2020.

Partiamo dall’aspetto più efferato: il femminicidio. Nei primi dieci mesi del 2020 le donne vittime di femminicidio sono state 91, una ogni tre giorni, come ci dice il VII Rapporto Eures – Ricerche Economiche e Sociali. L’incidenza del contesto familiare nei femminicidi raggiunge nel 2020 il valore record dell’89%, superando il già elevatissimo 85,8% registrato nel 2019. La coppia continua a rappresentare il contesto relazionale più a rischio per le donne, con 1.628 vittime tra le coniugi, partner, amanti o ex partner negli ultimi 20 anni. Uccise da colui che dovrebbe declinare il proprio sentimento in gesti di protezione.

Ma le forme di violenza non si limitano all’uccisione. Una disanima in tal senso è stata recentemente illustrata in uno studio della facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università Politecnica delle Marche a cura del sociologo Alberto Pellegrino. Esiste la violenza domestica, esercitata soprattutto nell’ambito familiare o nella cerchia di conoscenti, attraverso minacce, maltrattamenti fisici e psicologici, atti persecutori, stalking, percosse, abusi sessuali, delitti d’onore, femminicidi passionali o premeditati. Una forma particolare di violenza familiare è la violenza economica, che consiste nel controllo del denaro da parte del partner, nel divieto d’intraprendere attività lavorative esterne all’ambiente domestico, nel controllo delle proprietà e nel divieto ad ogni iniziativa autonoma rispetto al patrimonio della donna.

Esiste poi una violenza esercitata sul posto di lavoro, dove le donne sono esposte ad abusi e ricatti sessuali. Si tratta di una sopraffazione molto sottostimata nelle sue manifestazioni fisiche e sessuali, che va da una forma di maschilismo soft basato su battute, offerte di protezione e tentativi di seduzione per arrivare alle violenze fisiche e a tutti i tipi di molestie sessuali. Ci sono forme di maltrattamenti psicologici che entrano a far parte dei rapporti di lavoro e che finiscono per essere considerati come inevitabili, pur provocando uno stato d’insofferenza e di disagio nelle donne che sentono di essere considerate come un oggetto, caricate di eccessive responsabilità e di paure con minacce vaghe o palesi.

Vediamo ancora qualche cifra, fornita dall’ISTAT Istituto Nazionale di Statistica, per meglio cogliere la dimensione della situazione nel nostro Paese. Il 31,5% delle 16-70enni (6 milioni 788 mila) ha subìto nel corso della propria vita una qualche forma di violenza fisica o sessuale: il 20,2% (4 milioni 353 mila) ha subìto violenza fisica, il 21% (4 milioni 520 mila) violenza sessuale, il 5,4% (1 milione 157 mila) le forme più gravi della violenza sessuale come lo stupro (652 mila) e il tentato stupro (746 mila). Le donne subiscono minacce (12,3%), sono spintonate o strattonate (11,5%), sono oggetto di schiaffi, calci, pugni e morsi (7,3%). Altre volte sono colpite con oggetti che possono fare male (6,1%). Meno frequenti le forme più gravi come il tentato strangolamento, l’ustione, il soffocamento e la minaccia o l’uso di armi. Tra le donne che hanno subìto violenze sessuali, le più diffuse sono le molestie fisiche, cioè l’essere toccate o abbracciate o baciate contro la propria volontà (15,6%), i rapporti indesiderati vissuti come violenze (4,7%), gli stupri (3%) e i tentati stupri (3,5%).

Particolare allarme desta la nuova fattispecie di reato denominata “diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti” (chiamata spesso “revenge porn”), con 718 denunce nel corso del 2020 (oltre – ovviamente – al “sommerso” non denunciato per vergogna). Due video intimi di donne al giorno vengono diffusi illecitamente da fidanzati o ex fidanzati al fine di umiliarle o ricattarle. E’ di pochi giorni fa il caso di Torino, laddove un delinquente che aveva avuto una relazione con una maestra ne ha diffuso un video intimo. Con il risultato che la maestra è stata licenziata dalla preside, a suo dire per le pressioni dei genitori. Il che da un lato dimostra che talora i genitori sono i peggiori esempi per i figli e dall’altro che manca ancora un sistema scolastico adeguato, che avrebbe già provveduto a rimuovere dall’incarico la preside in questione, non foss’altro che per il “clamor fori” dei fatti.

E se tutto questo non bastasse le vicende legate al Covid hanno accentuato ancor più le situazioni difficili. La pandemia ha agito da amplificatore, aggiungendo isolamento a isolamento: la quarantena ha trasformato la casa di tante in una trappola. Le ha difese dal coronavirus, ma le ha lasciate in balia dei partner. Le chiamate al numero verde 1522, il centralino del Dipartimento Pari opportunità, nei primi 10 mesi dell’anno sono aumentate superando nel solo periodo considerato i livelli degli anni precedenti, con le vittime salite a quota 12.833 al 30 ottobre.

Che cosa possiamo fare dinnanzi a tale stato delle cose?

Qualcosa, certamente, dovrà essere fatto a livello istituzionale. Non a caso nello scorso mese di ottobre il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa ha bocciato nuovamente l’Italia, responsabile di ostacolare l’accesso alla giustizia alle donne vittime di violenza. Per questo resterà sotto vigilanza rafforzata e dovrà fornire, entro il 31 marzo del 2021, le informazioni sulle misure adottate per garantire un’adeguata ed efficace valutazione del rischio che corrono le donne che denunciano violenza e dimostrare la concreta applicazione delle leggi. L’Italia è stata anche sollecitata a fare di più per la prevenzione della violenza e per garantire la presenza dei Centri antiviolenza e delle risorse a loro disposizione.

Ma un compito importante spetta a tutti noi: quello di combattere quotidianamente gli stereotipi di genere ancora così diffusi. Quelli secondo i quali un italiano su tre, anche tra i giovani, ritiene accettabile la violenza contro la donna tramite soli schiaffi, pensa che le donne che non vogliono un rapporto sessuale riescano a evitarlo e che le donne possano provocare la violenza sessuale con il loro modo di vestire. Come emerso in una audizione presso la Camera dei Deputati. Dobbiamo controbattere ogni qualvolta ci capita di ascoltare simili scempiaggini.

Analoga attenzione deve essere rivolta alla stampa. Alcuni quotidiani fanno della minimizzazione della violenza una costante editoriale. Si veda, ad esempio, l’articolo di Vittorio Feltri di ieri su Libero. Ma anche quotidiani ben più attendibili spesso si esibiscono in cadute di stile magari involontarie ma non per questo meno pericolose. Un esempio? Il Sole 24 Ore, quotidiano certamente molto serio e che oggi pubblica un ottimo servizio in tema di violenza sulle donne, l’altro giorno, nel commentare lo stupro operato da un noto imprenditore napoletano che ha fondato il famoso sito di “facile.it”, ha scritto: “Un vulcano di idee che, al momento, è stato spento” e proseguiva descrivendo i successi di studio e professionali dell’uomo accusato di aver drogato e stuprato una ragazza ad una “festa” in casa sua. Sbagliato! Avrebbe dovuto definirlo, molto più sinteticamente, un autentico stronzo consumatore abituale di droga. Punto. Bisogna dire, a onor del vero, che, di fronte alla reazione indignata di molte persone e delle stesse giornaliste del quotidiano, il Sole 24 Ore ha modificato sulla rete l’articolo e si è pubblicamente scusato. Questa è una reazione che dobbiamo avere ogni giorno: non comprare quotidiani misogini e – nel caso di incaute espressioni da parte di quelli seri – esprimere protesta e indignazione. Una piccola cosa? Non credo. Un passo importante nella lotta agli stereotipi di genere.

Molto ci sarebbe ancora da dire, ma mi sono già dilungato abbastanza. Oggi assisteremo, soprattutto sui social, a un florilegio di belle foto, di intriganti citazioni, di slogan accattivanti. Bene, ma poco. Superficialità autoassolutoria. Caliamo il nostro rifiuto nel quotidiano, nella vita di ogni giorno. Con piccoli ma importanti gesti che combattano ogni ancor minima giustificazione alla violenza.La battaglia culturale contro la violenza sessuale deve passare attraverso un’educazione alla sessualità e all’amore, per valorizzare l’incontro tra i sessi come un incontro tra differenze. Questo tipo di formazione non può prescindere da un’educazione al rispetto dell’altro, dalla convinzione che la domanda d’amore non può mai coincidere con il sopruso. La forma più alta d’amore è anche amare la differenza, di cui la donna è il simbolo.

società

Una intitolazione davvero sbagliata.

Fra pochi giorni celebreremo la Giornata Internazionale per l’eliminazione della Violenza contro le Donne. Ovviamente sarà un’onda inarrestabile di sdegnati commenti, di unanime condanne. Altrimenti non potrebbe essere, ci mancherebbe! Ma forse – ancora una volta – ci scorderemo come la violenza verso le donne nasce da un humus che viene quotidianamente irrigato da fatti all’apparenza minori, che paiono secondari, ma che di fatto creano involontaria semenza a comportamenti più gravi. Vi sono atteggiamenti che a volte vogliono apparire stupidamente scherzosi, magari falsamente goliardici e che, invece, sono solo battute scontate e di cattivo gusto, volte inconsapevolmente a consolidare e a fomentare comportamenti violenti. Alludo per esempio a frequenti post sessisti sui social, spesso pubblicati, addirittura, da personaggi politici. Lo stupore degli autori dinnanzi alle reazioni suscitate sono triste segnale di una considerazione subalterna della donna consolidata nel pensiero. Se su questo molto c’è da fare, a partire dall’educazione in famiglia e dalla scuola, ci sono comunque, sin da subito, gesti che si potrebbero evitare, soprattutto se compiuti da pubbliche amministrazioni.

Il comune di Cinisello Balsamo, in questi giorni, ha intitolato una piazza centrale del paese al rapper Sfera Ebbasta, al secolo Gionata Boschetti, originario di quel paese. E’ stata quindi affissa una targa che – per fortuna – dovrebbe restare in loco solo per tre mesi. Ha detto il sindaco, nel corso della cerimonia, che “quello che Sfera dice ai giovani è che con la costanza, la passione e l’impegno, il rispetto per le persone e per il bene comune, si possono realizzare i propri sogni senza rinnegare chi sei”.

Ma cosa ha detto di così educativo il rapper nelle sue canzoni?

Qualcosa sulla droga, come: “Me ne fumo cinque all’ora si, per davvero / E farò una rapina, rrrrahh, per davvero / I frà fanno le bustine, mh, per davvero / E poi le vendono in cortile, mh, per davvero / Scippiamo una puttana, sì, per davvero / Io lo faccio per davvero” (XDVR, 2015).

Ma soprattutto molto sulle donne: “Quanto sei porca dopo una vodka / Me ne vado e lascio un post-it sulla porta / Le more, le bionde, le rosse, le mechesate / vestite da suore o con le braccia tatuate / Le alternative, le snob pettinate, spettinate sotto le lenzuola ubriache” (Hey tipa). Oppure “Scelgo una tipa, nessuna dice di no / Me la portano in camera con una Vodka. La tipa che mi scopo si ammazza di squot / Sciroppo all’amarena, c’ho la gola secca / Lei è rimasta a bocca aperta” (Rockstar, 2018).

Non invoco censure, non intendo bandire nessuno. Ma era proprio necessario dedicare una piazza a costui? Mi rendo contro che probabilmente, a Cinisello Balsamo, non vi fosse un personaggio tale da meritare un simile onore. Ma intitolare una piazza non è obbligatorio per nessun sindaco. Ha detto Giacomo Ghilardi, primo cittadino di Cinisello Balsamo, nel suo discorso di insediamento: “Apparteniamo tutti alla famiglia umana e siamo chiamati a vivere insieme. Da qui occorre ripartire per non rimanere ancorati ai nostri particolarismi e per essere in grado, come comunità cittadina, di formulare una proposta coraggiosa all’altezza delle sfide del tempo presente”. Mi pare che, con questa scelta, i buoni propositi siano già deragliati. Se proprio il sindaco ardeva dal desiderio di intitolare una piazza avrebbe potuto optare per un operatore sanitario che avesse lavorato nel reparto Covid dell’Ospedale Bassini di Cinisello. Non avrebbe goduto della fama di un rapper, ma certamente la scelta avrebbe trasmesso un contenuto molto più educativo ai giovani.