società

Il Massacro di Sand Creek

29 novembre 1864.

Quel giorno ebbe luogo in Colorado, negli Stati Uniti, il tristemente celebre “Massacro di Sand Creek”, nel corso del quale le truppe della milizia del Colorado, comandate dal colonnello John Chivington, attaccarono un villaggio di Cheyenne e Arapaho, massacrando donne e bambini.

In quel drammatico giorno il colonnello John Chivington e i suoi 800 uomini della Prima Cavalleria Colorado, della Terza Cavalleria Colorado e una compagnia di Primi Volontari del New Mexico marciarono verso i campi per massacrare gli Indiani. La mattina del 29 novembre 1864, l’armata attaccò i villaggi e macellò i loro abitanti. Tra 150 e 184 Cheyenne furono dichiarati morti, alcuni furono mutilati, e la maggior parte di questi erano donne, bambini e anziani. Chivington e i suoi uomini più tardi mostrarono gli scalpi e altre parti del corpo, soprattutto feti di donne incinte e genitali, nell’Apollo Theater di Denver.

L’organismo di vigilanza militare denominato Comitato di Condotta della Guerra indagò sull’episodio e scrisse nel rapporto finale:

“Per quanto riguarda il Colonnello Chivington, questo comitato può difficilmente trovare dei termini adeguati che descrivano la sua condotta. Indossando l’uniforme degli Stati Uniti, che dovrebbe rappresentare un emblema di giustizia e di umanità; occupando l’importante posizione di comandante di un distretto militare, che gli ha concesso l’onore di governare tutto ciò che rientra nei suoi poteri, ha deliberatamente organizzato ed eseguito un folle e vile massacro in cui numerose sono state le vittime della sua crudeltà. Egli conoscendo chiaramente la cordialità del loro carattere, avendo egli stesso in un certo senso tentato di porre le vittime in una condizione di fittizia sicurezza, ha sfruttato l’assenza di alcun tipo di difesa e la loro convinzione di sentirsi sicuri per potere gratificare la peggiore passione che abbia mai attraversato il cuore di un uomo. Qualunque peso tutto questo abbia avuto sul Colonnello Chivington, la verità è che ha sorpreso e assassinato, a sangue freddo, inaspettatamente uomini, donne e bambini, i quali avevano tutte le ragioni per credere di essere sotto la protezione delle autorità statunitensi, e poi ritornando a Denver si è vantato dell’azione coraggiosa che lui e gli uomini sotto il suo comando hanno eseguito”.

Sarebbe bello poter dire che è una orribile pagina di un passato ormai lontano.

Ma la barbarie umana non è cessata.

Basta aprire un qualunque quotidiano e ce ne accorgiamo. Guerre, barbarie, decapitazione, sterminio di donne e bambini inermi.

Un rosario infinito di atrocità, negli ultimi 150 anni, dal massacro di Sand Creek: guerre mondiali, shoa, genocidio armeno, i gulag, Pol Pot, i regimi sudamericani, il Biafra, il Ruanda, il massacro di Srebrenica. E, oggi, Iraq, Isis, Siria, Libia. Ma altri ancora potrebbero essere menzionati.

Capolavori drammatici di atrocità infinita. Ha ragione Quasimodo: sei ancora quello della pietra e della fionda, uomo del mio tempo!

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25 novembre: diamo concretezza allo sdegno

25 novembre: “Giornata mondiale contro la violenza sulle donne”.

La gran parte della stampa, nei suoi titoli, scrive che si “celebra” tale giornata. Forse un termine poco felice, se inteso nel suo significato di “festeggiare solennemente con cerimonie varie” (cfr. Treccani). Meglio sarebbe forse dire che si “ricorda” la violenza sulle donne, al limite che si “commemora”.

Perché la cosa davvero importante è riflettere, analizzare e diventare più consapevoli di questo gravissimo problema.Un dramma che, ben lontano dall’essere risolto, è addirittura peggiorato nel corso del 2020.

Partiamo dall’aspetto più efferato: il femminicidio. Nei primi dieci mesi del 2020 le donne vittime di femminicidio sono state 91, una ogni tre giorni, come ci dice il VII Rapporto Eures – Ricerche Economiche e Sociali. L’incidenza del contesto familiare nei femminicidi raggiunge nel 2020 il valore record dell’89%, superando il già elevatissimo 85,8% registrato nel 2019. La coppia continua a rappresentare il contesto relazionale più a rischio per le donne, con 1.628 vittime tra le coniugi, partner, amanti o ex partner negli ultimi 20 anni. Uccise da colui che dovrebbe declinare il proprio sentimento in gesti di protezione.

Ma le forme di violenza non si limitano all’uccisione. Una disanima in tal senso è stata recentemente illustrata in uno studio della facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università Politecnica delle Marche a cura del sociologo Alberto Pellegrino. Esiste la violenza domestica, esercitata soprattutto nell’ambito familiare o nella cerchia di conoscenti, attraverso minacce, maltrattamenti fisici e psicologici, atti persecutori, stalking, percosse, abusi sessuali, delitti d’onore, femminicidi passionali o premeditati. Una forma particolare di violenza familiare è la violenza economica, che consiste nel controllo del denaro da parte del partner, nel divieto d’intraprendere attività lavorative esterne all’ambiente domestico, nel controllo delle proprietà e nel divieto ad ogni iniziativa autonoma rispetto al patrimonio della donna.

Esiste poi una violenza esercitata sul posto di lavoro, dove le donne sono esposte ad abusi e ricatti sessuali. Si tratta di una sopraffazione molto sottostimata nelle sue manifestazioni fisiche e sessuali, che va da una forma di maschilismo soft basato su battute, offerte di protezione e tentativi di seduzione per arrivare alle violenze fisiche e a tutti i tipi di molestie sessuali. Ci sono forme di maltrattamenti psicologici che entrano a far parte dei rapporti di lavoro e che finiscono per essere considerati come inevitabili, pur provocando uno stato d’insofferenza e di disagio nelle donne che sentono di essere considerate come un oggetto, caricate di eccessive responsabilità e di paure con minacce vaghe o palesi.

Vediamo ancora qualche cifra, fornita dall’ISTAT Istituto Nazionale di Statistica, per meglio cogliere la dimensione della situazione nel nostro Paese. Il 31,5% delle 16-70enni (6 milioni 788 mila) ha subìto nel corso della propria vita una qualche forma di violenza fisica o sessuale: il 20,2% (4 milioni 353 mila) ha subìto violenza fisica, il 21% (4 milioni 520 mila) violenza sessuale, il 5,4% (1 milione 157 mila) le forme più gravi della violenza sessuale come lo stupro (652 mila) e il tentato stupro (746 mila). Le donne subiscono minacce (12,3%), sono spintonate o strattonate (11,5%), sono oggetto di schiaffi, calci, pugni e morsi (7,3%). Altre volte sono colpite con oggetti che possono fare male (6,1%). Meno frequenti le forme più gravi come il tentato strangolamento, l’ustione, il soffocamento e la minaccia o l’uso di armi. Tra le donne che hanno subìto violenze sessuali, le più diffuse sono le molestie fisiche, cioè l’essere toccate o abbracciate o baciate contro la propria volontà (15,6%), i rapporti indesiderati vissuti come violenze (4,7%), gli stupri (3%) e i tentati stupri (3,5%).

Particolare allarme desta la nuova fattispecie di reato denominata “diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti” (chiamata spesso “revenge porn”), con 718 denunce nel corso del 2020 (oltre – ovviamente – al “sommerso” non denunciato per vergogna). Due video intimi di donne al giorno vengono diffusi illecitamente da fidanzati o ex fidanzati al fine di umiliarle o ricattarle. E’ di pochi giorni fa il caso di Torino, laddove un delinquente che aveva avuto una relazione con una maestra ne ha diffuso un video intimo. Con il risultato che la maestra è stata licenziata dalla preside, a suo dire per le pressioni dei genitori. Il che da un lato dimostra che talora i genitori sono i peggiori esempi per i figli e dall’altro che manca ancora un sistema scolastico adeguato, che avrebbe già provveduto a rimuovere dall’incarico la preside in questione, non foss’altro che per il “clamor fori” dei fatti.

E se tutto questo non bastasse le vicende legate al Covid hanno accentuato ancor più le situazioni difficili. La pandemia ha agito da amplificatore, aggiungendo isolamento a isolamento: la quarantena ha trasformato la casa di tante in una trappola. Le ha difese dal coronavirus, ma le ha lasciate in balia dei partner. Le chiamate al numero verde 1522, il centralino del Dipartimento Pari opportunità, nei primi 10 mesi dell’anno sono aumentate superando nel solo periodo considerato i livelli degli anni precedenti, con le vittime salite a quota 12.833 al 30 ottobre.

Che cosa possiamo fare dinnanzi a tale stato delle cose?

Qualcosa, certamente, dovrà essere fatto a livello istituzionale. Non a caso nello scorso mese di ottobre il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa ha bocciato nuovamente l’Italia, responsabile di ostacolare l’accesso alla giustizia alle donne vittime di violenza. Per questo resterà sotto vigilanza rafforzata e dovrà fornire, entro il 31 marzo del 2021, le informazioni sulle misure adottate per garantire un’adeguata ed efficace valutazione del rischio che corrono le donne che denunciano violenza e dimostrare la concreta applicazione delle leggi. L’Italia è stata anche sollecitata a fare di più per la prevenzione della violenza e per garantire la presenza dei Centri antiviolenza e delle risorse a loro disposizione.

Ma un compito importante spetta a tutti noi: quello di combattere quotidianamente gli stereotipi di genere ancora così diffusi. Quelli secondo i quali un italiano su tre, anche tra i giovani, ritiene accettabile la violenza contro la donna tramite soli schiaffi, pensa che le donne che non vogliono un rapporto sessuale riescano a evitarlo e che le donne possano provocare la violenza sessuale con il loro modo di vestire. Come emerso in una audizione presso la Camera dei Deputati. Dobbiamo controbattere ogni qualvolta ci capita di ascoltare simili scempiaggini.

Analoga attenzione deve essere rivolta alla stampa. Alcuni quotidiani fanno della minimizzazione della violenza una costante editoriale. Si veda, ad esempio, l’articolo di Vittorio Feltri di ieri su Libero. Ma anche quotidiani ben più attendibili spesso si esibiscono in cadute di stile magari involontarie ma non per questo meno pericolose. Un esempio? Il Sole 24 Ore, quotidiano certamente molto serio e che oggi pubblica un ottimo servizio in tema di violenza sulle donne, l’altro giorno, nel commentare lo stupro operato da un noto imprenditore napoletano che ha fondato il famoso sito di “facile.it”, ha scritto: “Un vulcano di idee che, al momento, è stato spento” e proseguiva descrivendo i successi di studio e professionali dell’uomo accusato di aver drogato e stuprato una ragazza ad una “festa” in casa sua. Sbagliato! Avrebbe dovuto definirlo, molto più sinteticamente, un autentico stronzo consumatore abituale di droga. Punto. Bisogna dire, a onor del vero, che, di fronte alla reazione indignata di molte persone e delle stesse giornaliste del quotidiano, il Sole 24 Ore ha modificato sulla rete l’articolo e si è pubblicamente scusato. Questa è una reazione che dobbiamo avere ogni giorno: non comprare quotidiani misogini e – nel caso di incaute espressioni da parte di quelli seri – esprimere protesta e indignazione. Una piccola cosa? Non credo. Un passo importante nella lotta agli stereotipi di genere.

Molto ci sarebbe ancora da dire, ma mi sono già dilungato abbastanza. Oggi assisteremo, soprattutto sui social, a un florilegio di belle foto, di intriganti citazioni, di slogan accattivanti. Bene, ma poco. Superficialità autoassolutoria. Caliamo il nostro rifiuto nel quotidiano, nella vita di ogni giorno. Con piccoli ma importanti gesti che combattano ogni ancor minima giustificazione alla violenza.La battaglia culturale contro la violenza sessuale deve passare attraverso un’educazione alla sessualità e all’amore, per valorizzare l’incontro tra i sessi come un incontro tra differenze. Questo tipo di formazione non può prescindere da un’educazione al rispetto dell’altro, dalla convinzione che la domanda d’amore non può mai coincidere con il sopruso. La forma più alta d’amore è anche amare la differenza, di cui la donna è il simbolo.

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Una intitolazione davvero sbagliata.

Fra pochi giorni celebreremo la Giornata Internazionale per l’eliminazione della Violenza contro le Donne. Ovviamente sarà un’onda inarrestabile di sdegnati commenti, di unanime condanne. Altrimenti non potrebbe essere, ci mancherebbe! Ma forse – ancora una volta – ci scorderemo come la violenza verso le donne nasce da un humus che viene quotidianamente irrigato da fatti all’apparenza minori, che paiono secondari, ma che di fatto creano involontaria semenza a comportamenti più gravi. Vi sono atteggiamenti che a volte vogliono apparire stupidamente scherzosi, magari falsamente goliardici e che, invece, sono solo battute scontate e di cattivo gusto, volte inconsapevolmente a consolidare e a fomentare comportamenti violenti. Alludo per esempio a frequenti post sessisti sui social, spesso pubblicati, addirittura, da personaggi politici. Lo stupore degli autori dinnanzi alle reazioni suscitate sono triste segnale di una considerazione subalterna della donna consolidata nel pensiero. Se su questo molto c’è da fare, a partire dall’educazione in famiglia e dalla scuola, ci sono comunque, sin da subito, gesti che si potrebbero evitare, soprattutto se compiuti da pubbliche amministrazioni.

Il comune di Cinisello Balsamo, in questi giorni, ha intitolato una piazza centrale del paese al rapper Sfera Ebbasta, al secolo Gionata Boschetti, originario di quel paese. E’ stata quindi affissa una targa che – per fortuna – dovrebbe restare in loco solo per tre mesi. Ha detto il sindaco, nel corso della cerimonia, che “quello che Sfera dice ai giovani è che con la costanza, la passione e l’impegno, il rispetto per le persone e per il bene comune, si possono realizzare i propri sogni senza rinnegare chi sei”.

Ma cosa ha detto di così educativo il rapper nelle sue canzoni?

Qualcosa sulla droga, come: “Me ne fumo cinque all’ora si, per davvero / E farò una rapina, rrrrahh, per davvero / I frà fanno le bustine, mh, per davvero / E poi le vendono in cortile, mh, per davvero / Scippiamo una puttana, sì, per davvero / Io lo faccio per davvero” (XDVR, 2015).

Ma soprattutto molto sulle donne: “Quanto sei porca dopo una vodka / Me ne vado e lascio un post-it sulla porta / Le more, le bionde, le rosse, le mechesate / vestite da suore o con le braccia tatuate / Le alternative, le snob pettinate, spettinate sotto le lenzuola ubriache” (Hey tipa). Oppure “Scelgo una tipa, nessuna dice di no / Me la portano in camera con una Vodka. La tipa che mi scopo si ammazza di squot / Sciroppo all’amarena, c’ho la gola secca / Lei è rimasta a bocca aperta” (Rockstar, 2018).

Non invoco censure, non intendo bandire nessuno. Ma era proprio necessario dedicare una piazza a costui? Mi rendo contro che probabilmente, a Cinisello Balsamo, non vi fosse un personaggio tale da meritare un simile onore. Ma intitolare una piazza non è obbligatorio per nessun sindaco. Ha detto Giacomo Ghilardi, primo cittadino di Cinisello Balsamo, nel suo discorso di insediamento: “Apparteniamo tutti alla famiglia umana e siamo chiamati a vivere insieme. Da qui occorre ripartire per non rimanere ancorati ai nostri particolarismi e per essere in grado, come comunità cittadina, di formulare una proposta coraggiosa all’altezza delle sfide del tempo presente”. Mi pare che, con questa scelta, i buoni propositi siano già deragliati. Se proprio il sindaco ardeva dal desiderio di intitolare una piazza avrebbe potuto optare per un operatore sanitario che avesse lavorato nel reparto Covid dell’Ospedale Bassini di Cinisello. Non avrebbe goduto della fama di un rapper, ma certamente la scelta avrebbe trasmesso un contenuto molto più educativo ai giovani.

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La pandemia e il futuro.

“El padre abandonava el figliuolo, la moglie el marito, e l’uno fratello l’altro: e gnuno fugiva e abandonava l’uno, inperoché questo morbo s’attachava coll’alito e co’ la vista pareva, e così morivano, e non si trovava chi seppellisse né per denaro né per amicitia e quelli de la casa propria li portava meglio che potea a la fossa senza prete, né uffitio alcuno, né si suonava campana; e in molti luoghi in Siena si fe’ grandi fosse e cupe per la moltitudine de’ morti. E non era alcuno che piangesse alcuno morto, inperochè ognuno aspettava la morte; e morivane tanti, che ognuno credea che fusse finemondo, e non valea né medicina né altro riparo” (Agnolo di Tura del Grasso, Cronaca senese, a cura di A. Lisini e F. Iacometti, in Rerum Italicorum Scriptores, XV, VI, pp. 555-556).
Siamo a Siena, nel 1348, e Agnolo di Tura del Grasso ci offre un terribile quadro della peste che imperversava. Il tratto dominante della descrizione è la paura che ha colpito tutti, come sempre è accaduto nel corso delle numerose epidemie che hanno attraversato la storia. Il terrore è spesso un male non meno grave del morbo stesso, in grado di intaccare il tessuto sociale.
Anche i nostri giorni, con l’espansione della pandemia di Covid, sono caratterizzati dallo sconcerto e dall’incertezza.
Al timore, ovvio, per la salute si aggiunge la nuova paura della povertà, di non poter mantenere il proprio lavoro, di veder vanificati gli sforzi di una vita. Nuova, certo, perché ai tempi della peste la povertà era la norma per la quasi totalità della popolazione.
Una paura che per molti è purtroppo fondata. Un rapporto della Caritas, pubblicato pochi giorni fa in tema di povertà, ci fornisce dati inquietanti. Analizzando il periodo maggio-settembre del 2019 e confrontandolo con lo stesso periodo del 2020 emerge infatti che l’incidenza dei “nuovi poveri” passa dal 31% al 45%: quasi una persona su due che si rivolge alla Caritas lo fa per la prima volta. Aumenta in particolare il peso delle famiglie con minori, delle donne, dei giovani, dei nuclei di italiani che risultano in mag-gioranza e delle persone in età lavorativa.
In uno scenario di questo tipo gli scontri tra dimostranti e polizia di queste ultime sere – ovviamente sempre da condannare – devono essere analizzati con una certa attenzione. Non trovo particolarmente preoccupante quanto accaduto a Milano e Torino, laddove non più di un centinaio di persone, equamente suddivise tra estremisti di destra e di sinistra, antagonisti dei centri sociali e ultrà del tifo hanno causato incidenti con la unanime condanna della popolazione, prontamente scesa in strada a ripulire e a sistemare.
Più preoccupante quanto occorso in alcune città del sud, Napoli in primis, laddove è parso di cogliere una saldatura tra facinorosi e alcune aree, ancorché limitate, di popolazione. Il che, peraltro, pare ampiamente comprensibile. Non sempre concordo con le tesi di Roberto Saviano, anzi, ultimamente direi di rado. In questo caso ritengo tuttavia corretta la sua analisi, laddove afferma “si è scatenata la rabbia quando si è visto che i soldi mancano, i locali chiudono, il lavoro nero diventa l’unico possibile. Napoli è stato l’inizio… C’è una parte violenta che è abituata a vivere di disagio. Gli ultras, i disoccupati organizzati, gente che vuole l’obolo. Ma anche tantissime persone che sono disperate. I commercianti che hanno messo i locali a norma. I soldi che mancano sono l’ossessione”.
La situazione economica, peraltro, presenta scenari foschi, che potrebbero addirittura peggiorare nel caso di ulteriori limitazioni future. Un documento dello scorso mese di luglio predisposto dalla Commissione Covid-19 della “Accademia Nazionale dei Lincei”, dopo aver rammentato che in Italia “a una lunga fase di ristagno dell’economia ha corrisposto una altrettanto lunga deriva di aumento della disuguaglianza”, prosegue ricordando che “9,8 milioni d’italiani saranno poveri assoluti (persone e famiglie che non riescono a raggiungere un livello di spesa per un minimo di vita decente). Il rapporto Istat 2020 sugli obiettivi di sviluppo sostenibile stima al 27% le persone a rischio povertà o esclusione sociale”.
Questo è il rischio maggiore per il futuro: una crescita esponenziale del disagio e della povertà, in un contesto sempre più caratterizzato dalle diseguaglianze.
Perché se c’è una cosa che il Covid-19 non ha fermato è la crescita della ricchezza dei pochissimi a scapito della maggioranza della popolazione. Solo negli Stati Uniti, dal 18 marzo al 15 settembre, la ricchezza di 643 persone è cresciuta complessivamente di 845 miliardi di dollari. Contemporaneamente 50 milioni di lavoratori hanno perso il lavoro. Il patrimonio personale di Jeff Bezos (Amazon) è cresciuto del 70 per cento, arrivando a 192 miliardi di dollari, quello di Bill Gates del 20 per cento, giungendo a 118 miliardi. Qualcuno dirà che è aumentata anche l’attività filantropica di questi multimiliardari. Il tema è più delicato di quanto possa sembrare in apparenza. Non è tutto oro quanto luccica! Lungi da me ogni sorta di ridicolo complottismo: lasciamo pur perdere i microchip, i controlli di massa e altre amenità. La realtà è molto più semplice e, se vogliamo, banale. Una mera questione di affari e di interesse: una generosità calcolatrice e non certo un amore per l’umanità. Pensate che gli imprenditori che hanno versato almeno un milione in attività filantropiche hanno ammassato molti più profitti dei loro pari. Grazie innanzitutto agli incentivi fiscali, molto aumentati grazie a Trump. In sostanza la beneficenza viene fatta con fondi sottratti allo Stato, con un minor controllo democratico sull’utilizzo degli stessi. Ma certamente con la creazione di nuovi mercati nei quali i beneficiati, riconoscenti, divengano fedeli consumatori.
Il tema sarebbe lungo da affrontare e meriterebbe di essere descritto nella sua interezza. Per ora suggerisco a chi fosse interessato la lettura del libro di Nicoletta Dentico “Ricchi e buoni? Le trame oscure del turbocapitalismo”, pubblicato dalla casa editrice cattolica EMI – Editrice Missionaria Italiana.
Tornando al nostro Paese appare chiaro che un futuro così complesso sia meritevole di una politica adeguata e di un progetto all’altezza. Di un senso di unitarietà nell’ambito di un disegno globale. Con una maggioranza meno incline ai bisticci e una opposizione che non si perda in banali e contraddittorie contrapposizioni fittizie e meramente strumentali. Con le Regioni che sappiano essere ancillari a un progetto di respiro nazionale e non già laboratori di inefficienza o teatrini per Presidenti da operetta.
La posta in gioco è – mai come questa volta – fondamentale. Dagli indirizzi che verranno presi dipende il riassetto del Paese. Non solo per evitare l’insorgere di scontri sociali dagli esiti incerti, ma per garantire ai giovani un futuro in un’Italia credibile e non devastata dai debiti. In gioco, lasciatemi dire, vi è la sopravvivenza della stessa democrazia. Uno studio pubblicato dall’Università di Cambridge nel gennaio di quest’anno (prima della pandemia) ha mostrato che nei paesi sviluppati coloro che si dichiarano insoddisfatti del sistema democratico sono ormai in maggioranza, il 57%. Percentuale che sale ancora prendendo in considerazione la fascia dei cosiddetti “millennial”, ossia i nati tra il 1981 e il 1996.
Capite quindi l’importanza delle scelte da compiere.
Occorre una progettualità che sappia coniugare gli irrinunciabili principi del pensiero liberale e dei diritti individuali – dei quali mai come ora percepiamo la vitale importanza – con le necessarie spinte di eguaglianza e di giustizia. Quello che potremmo definire un pensiero liberal-socialista, una scuola che in Italia è sempre stata, purtroppo, esigua minoranza.
Vorrei chiudere con una citazione di Valdo Spini che può essere spunto per i giorni a venire: “L’esigenza di una politica socialista -liberale si ripresenta oggi in tutta evidenza proprio con la crisi dell’epidemia… La crisi costringe al non lavoro masse molto ingenti di persone e punisce in particolare i lavoratori autonomi, i precari, i lavoratori in nero. Crea nuove povertà che si affiancano alle vecchie. Un tempo la protezione sociale si esercitava nei confronti dei lavoratori, oggi si deve estendere a chi non ha lavoro” (Valdo Spini – Attualità del socialismo liberale – Quaderni del Circolo Rosselli 2/2020).

Il Trionfo della Morte, Pieter Brueghel il Vecchio, 1562
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Cent’anni di Gianni Rodari

Ha senso, in questi giorni difficili, parlare di cultura? Io credo fermamente di sì. Forse ancor più in questo periodo. Perché, come diceva Aristotele, la cultura è un ornamento nella buona sorte e un rifugio nell’avversa.
L’anniversario odierno, inoltre, costituisce un evento che sarebbe imperdonabile non ricordare.
E’ passato un secolo esatto, infatti, dalla nascita di Gianni Rodari.
Lo scrittore, pedagogista e giornalista, il cui vero nome era Giovanni Francesco Rodari, nacque a Omegna, sul lago d’Orta, proprio cent’anni fa, il 23 ottobre 1920.
In questa cittadina Gianni, un bambino con una corporatura minuta e un carattere piuttosto schivo, frequentò le scuole elementari.
All’età di dieci anni, a seguito dell’improvvisa morte del padre, si trasferì in provincia di Varese, zona della quale la mamma era originaria.
Gianni si iscrisse al ginnasio presso il seminario di Seveso, mettendosi in luce per le ottime capacità che lo portarono ad essere il migliore della classe, e conseguì il diploma nelle scuole Magistrali nel 1937, a soli diciassette anni.
Nel frattempo abbinò allo studio un corposo impegno sociale, militando nell’Azione Cattolica dove svolse le funzioni di presidente nell’ambito della sua zona di residenza. A tale attività si aggiunse la passione per la scrittura. Ancora sedicenne pubblicò alcuni racconti sul settimanale cattolico “L’azione giovanile” e iniziò una collaborazione con il periodico “Luce”.
Nel 1941 Rodari, giudicato rivedibile alla visita medica per il servizio militare a causa della sua corporatura eccessivamente minuta, vinse il concorso per maestro e incominciò ad insegnare nei paesi della provincia di Varese.
Gli orrori della guerra e, soprattutto, la morte del fratello Cesare in un campo di concentramento nazista avvicinarono Rodari alla Resistenza e, quindi, al Partito Comunista, a cui si iscrisse nel 1944.
Dopo la Liberazione venne assunto al quotidiano l’Unità. Fu proprio in questo periodo che Rodari incominciò a scrivere racconti per bambini, tra i quali “Il libro delle filastrocche” e “Il Romanzo di Cipollino”. Nella redazione del quotidiano Rodari era visto con una certa sufficienza, per il suo continuo narrare – a detta dei redattori – storie per bambini. Ma le critiche peggiori giunsero dai vertici del PCI. Anche perché Rodari inventò le storie di Cipollino, pubblicate nell’edizione domenicale, in forma di fumetto, con le tavole disegnate da Raul Verdini e i suoi testi. Tuttavia il pensiero del PCI circa i fumetti era stato espresso chiaramente da Nilde Iotti in Parlamento nella seduta del 7 dicembre 1951: “Oggi, nei giornali a fumetti troviamo soprattutto la esaltazione dello spirito di violenza, degli istinti di aggressione in quanto tali, lʼesaltazione dellʼuccisione per il piacere dellʼuccisione stessa, in un modo che non può non preoccupare coloro che sono pensosi della educazione dei nostri giovani; vi è insomma lʼesaltazione dellʼistinto della lotta fra gli uomini. […] Io arriverei perfino ad affermare che il fumetto, così come viene presentato, porta al dissolvimento della personalità del ragazzo che in un tempo successivo può avere delle serie conseguenze nello sviluppo completo della personalità dellʼuomo” (Iotti 1951, 49-51). Posizione identica a quella espressa cinque giorni prima, il 2 dicembre del 1951, da “L’Osservatore Romano” in un articolo ampiamente citato, nel suo intervento, dalla stessa Iotti.
Rodari passò al quotidiano “Paese sera” di Roma, riuscendo a realizzare il suo obiettivo di affiancare al lavoro di scrittore per l’infanzia quello di un giornalismo libero, non più alle dipendenze dirette di un partito.
Nel 1960 incominciò a pubblicare per Einaudi. Il primo libro che uscì con la nuova casa editrice fu “Filastrocche in cielo ed in terra”. Anche in questa prestigiosa casa editrice Rodari incontrò qualche difficoltà. L’Einaudi era il regno di Natalia Ginzburg, di Primo Levi e di altre firme nobili delle lettere italiane. Era presente anche Italo Calvino, il quale pure scriveva (anche) racconti per ragazzi. Ecco quindi, come ci ricorda Dario Ceccarelli su “Il Sole 24 Ore”, che proprio Calvino, temendo forse una invasione di campo, all’inizio tenne verso Rodari un atteggiamento cordiale nella forma ma freddo nella sostanza.
La morte lo colse a soli sessant’anni, a seguito di un intervento chirurgico risultato più complesso del previsto.

Certamente Rodari fu un grande scrittore per l’infanzia. Ma considerare questo autore solamente come creatore di fiabe e filastrocche sarebbe estremamente limitativo.
Dopo tanti studi critici, convegni, saggi e riflessioni sulla sua figura, oggi resta da dire soltanto che si tratta di un vero e proprio protagonista della letteratura, che ha vissuto le inquietudini del suo tempo e che ha lasciato una traccia indelebile nella memoria di tante generazioni di bambini e scolari: quasi ogni testo scolastico o antologia riporta un suo racconto o una filastrocca.
Come ha scritto in un saggio Lodovica Cima, “per un insegnante, un testo di Rodari è una garanzia e un riferimento, come per un legislatore il codice”.
Il suo ruolo nella trasformazione della letteratura per l’infanzia fu assolutamente fondamentale. Nel secondo dopoguerra i libri per ragazzi venivano scritti sulla scia di De Amicis, con obiettivi educativi palesati attraverso descrizioni lacrimose e forzatamente edificanti. Si trattava di pubblicazioni noiose e molto distanti dalla realtà di una nazione in piena rinascita e ricostruzione. In un Paese annientato dalla guerra, pochi si potevano permettere di comprare libri che non fossero testi scolastici e altrettanto pochi erano attenti alle esigenze quotidiane dei bambini. Molti pedagogisti ed educatori teorizzavano i libri come strumenti di crescita, da costruire su obiettivi di istruzione specifica, ma non c’era ancora spazio per la fantasia e il gioco. Fu appunto Rodari che seppe dare la vera svolta alla letteratura italiana per ragazzi, mantenendo un legame con la tradizione educativa ma rinnovandola profondamente e rendendola vera letteratura, libera da intenti pedagogici troppo specifici e condizionanti.
Tutto sembra semplice, in Rodari. Ma in realtà alla base del suo lavoro vi è una grande attività di studio ed elaborazione. La sua opera “Grammatica della fantasia”, nella sua parte conclusiva, contiene una bibliografia di oltre quaranta titoli di opere di linguistica, letteratura, pedagogia e psicologia. Rodari è un autore solo in apparenza facile, ma in realtà è un intellettuale che vive in pieno le contraddizioni e le speranze, la realtà e l’utopia del Novecento. Uno scrittore sempre attento alle nuove forme di comunicazione: abbiamo detto del fumetto, ma apprezzò i cartoni animati (disse di “stare dalla parte di Goldrake”), le nuove forme radiotelevisive e persino la pubblicità, nell’ambito della quale scrisse alcuni testi per la British Petroleum.
Non scordiamo, inoltre, l’influenza del surrealismo, movimento al quale Rodari si era avvicinato da giovane. Alcuni passi della “Grammatica della fantasia” sono ripresi dal primo Manifesto del Surrealismo del 1924 di Andrè Breton: si pensi al cosiddetto “binomio fantastico”, palesemente mutuato dal “sistema del fortuito incontro” di Breton.
E’ stato scritto che le sue invenzioni linguistiche sono state pari a quelle di Raymond Queneau. Che la sua raffinatezza di intellettuale è stata la stessa di Roland Barthes. Che la sua disponibilità al fantastico è stata molto simile a quella di J.M. Barrie, di Lewis Carroll.
Uno scrittore, soprattutto, di grande attualità. Che ha declinato il suo lavoro su due valori portanti: speranza e comunità. Il celebre paradigma gramsciano dell’ottimismo della volontà e del pessimismo della ragione è risolto in modo brillante da Rodari: nei momenti di crisi questa contraddizione ci deve servire per immaginare il futuro. “L’utopia non è meno educativa dello spirito critico. Basta trasferirla dal mondo dell’intelligenza a quello della volontà”.
Sempre, tuttavia, nell’ambito della comunità. Perché quando il momento è difficile occorre appellarsi
allo spirito solidale della comunità. Infatti, afferma Rodari citando una frase di Don Milani, “il problema degli altri è sempre uguale al mio, uscirne da soli è avarizia, uscirne insieme è la politica”. Quella vera, quella nobile. Quella ormai pressoché sconosciuta.
Per tutto questo credo sia importante, oggi, celebrare il centesimo compleanno di Gianni Rodari.