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Non scordiamo mai

2 agosto 1980. Chi visse quella giornata non la potrà mai scordare.
Era il primo sabato d’agosto. Allora, molto più di oggi, era quello del “grande esodo”. Le ferie si concentravano in quel mese, con la chiusura delle grandi fabbriche del Nord, trasformando le città in spettrali scenografie di case vuote e negozi chiusi.
A Bologna, quel giorno, faceva un caldo insopportabile, perché nella “bassa” l’umidità accentua la sensazione di disagio.
La stazione ferroviaria felsinea era affollata, con le famiglie che partivano per le ferie con l’aria felice di chi aveva consegnato a quei giorni di vacanza tutti i sogni tenuti chiusi per mesi nel cassetto della laboriosa quotidianità. Improvvisamente, alle 10 e 25, il tempo si fermò.
Un boato spazzò la spensieratezza e tantissime vite. Oltre venti chilogrammi di tritolo, contenuti in una valigia, esplosero nella sala d’aspetto di seconda classe. Le lancette del grande orologio della stazione segnano ancora oggi quell’ora terribile. La deflagrazione causò il crollo dell’ala sinistra dell’edificio. Della sala d’aspetto, del ristorante, degli uffici del primo piano non restò più nulla. Una valanga di macerie si abbatté anche sul treno “Adria Express Ancona-Basilea”, fermo sul primo binario. Uomini, donne e bambini persero la vita, dilaniati o schiacciati.
I morti furono 85, i feriti e mutilati oltre 200. Le vittime più piccole furono Angela Fresu, di appena 3 anni, Luca Mauri di 6 e Sonia Burri di 7. Le più anziane Maria Idria Avati di 80 anni e Antonio Montanari di 86.
La città di Bologna si mobilitò immediatamente: molti cittadini, insieme ai viaggiatori presenti, prestarono i primi soccorsi alle vittime e contribuirono ad estrarre le persone sepolte dalle macerie.
Per ore sanitari, vigili del fuoco, forze dell’ordine, militari e volontari lavorarono incessantemente alla ricerca di vite da soccorrere e da salvare. Una catena spontanea che in pochissimo tempo rimise in moto la città che stava ‘chiudendo per ferie’. Saltarono le linee telefoniche e i cronisti giunti sul posto, per poter raccontare l’inferno di quei momenti, utilizzarono la cabina dei controllori degli autobus sul piazzale, dove il telefono invece funzionava. Cellulari e internet ancora non esistevano, ma dagli ospedali giunse comunque l’invito a medici e infermieri di tornare in servizio. Un appello accolto da tutti. Un autobus urbano della linea 37 divenne il simbolo di quel terribile giorno, trasformandosi in un improvvisato carro funebre che trasportava le salme all’Istituto di Medicina legale.
La solidarietà fu immensa anche nel resto del Paese.
Migliaia di messaggi furono inviati al sindaco felsineo, Renato Zangheri, da ogni parte del mondo. Vi era molta fiducia nel sindaco e altrettanta nel Presidente della Repubblica, Sandro Pertini. Fu proprio Pertini, nel corso dei funerali celebrati nella Basilica di San Petronio, ad affermare in lacrime di fronte ai giornalisti di non avere parole, sopraffatto di fronte all’impresa più criminale mai avvenuta in Italia.
Per la strage, dopo anni di depistaggi, sono stati condannati cinque esecutori: in via definitiva Valerio Fioravanti, detto Giusva, Francesca Mambro, moglie di Fioravanti, Luigi Ciavardini, e – per concorso nel reato – Gilberto Cavallini, esponenti del gruppo terroristico di estrema destra denominato NAR, Nuclei Armati Rivoluzionari. Condannato lo scorso aprile in primo grado anche Paolo Bellini.
I due principali artefici furono proprio Valerio Fioravanti e Francesca Mambro.
Fioravanti, autore anche di numerosi altri omicidi e atti terroristici, fu condannato in tutto a 8 ergastoli, 134 anni e 8 mesi di reclusione. Ottenuta la libertà vigilata nel 2004, è un libero cittadino dal 2009.
Francesca Mambro, condannata complessivamente a 9 ergastoli, 84 anni e 8 mesi di reclusione, ha ottenuto la libertà vigilata nel 2008 ed è una libera cittadina dal 2013.
Dal 1982 l’iter giudiziario non si è ancora concluso, costellato – anche in questo caso – da depistaggi, misteri e collusioni.
L’ultima sentenza è quella del 6 aprile scorso, nell’ambito della quale, oltre all’ergastolo comminato a Paolo Bellini quale esecutore, la Corte di Assise di Bologna ha condannato anche l’ex ufficiale dell’Arma, Piergiorgio Segatel a sei anni per depistaggio e a quattro anni Domenico Catracchia, l’ex amministratore di condominio di via Gradoli a Roma, dove dimorarono prima le Br e poi i Nar, per aver raccontato il falso ai pubblici ministeri.
Quest’ultimo processo (il tredicesimo!) ha individuato anche i finanziatori e mandanti: il venerabile Licio Gelli (onnipresente nelle pagine più cupe della nostra storia), che avrebbe finanziato la strage con i fondi distratti dal fallimento dell’Ambrosiano. Il suo collaboratore e braccio destro Umberto Ortolani, l’ex capo dell’ufficio Affari Riservati del Ministero dell’Interno, Federico Umberto D’Amato e il direttore del settimanale “Borghese”, Mario Tedeschi.
Tutti, ovviamente, sono deceduti.
Dopo 42 anni, nonostante i colpevoli, mandanti e esecutori, siano tutti liberi o deceduti, quella insopportabile polvere che ha ricoperto i corpi martoriati delle vittime e che troppo a lungo ha celato le tante responsabilità si sta finalmente diradando, illuminando nuovi profili dell’accaduto.
Fu un’epoca terribile per il nostro Paese, che tuttavia seppe reagire difendendo strenuamente i valori della democrazia e sconfiggendo sia lo stragismo nero che il brigatismo rosso.
Si trattava però di un’Italia diversa da quella attuale, saldamente ancorata ai valori fondanti della convivenza civile nata con la Repubblica. Rappresentata da forze politiche che, indipendentemente dalle naturali e persino opportune differenze strategiche e prospettiche, si richiamavano al nocciolo duro e inviolabile dei valori espressi nella Costituzione Repubblicana. Quel due di agosto del 1980, spontaneamente, milioni di persone in tutta Italia scesero nelle piazze, senza bandiere di partito, per affermare con forza che non si sarebbero arrese, che non avrebbero ceduto agli architetti del terrore, agli stregoni dell’angoscia. Fu la manifestazione di una tenuta democratica che fece scudo alle istituzioni repubblicane contro il bieco disegno del terrore.
Temo che oggi tale reazione sarebbe impensabile.
La caduta dei valori civici diffusi è mortificante, e fa da contraltare alla peggior classe politica che mai ha calpestato (e offeso) gli scenari delle istituzioni.
Fu un’epoca terribile certamente. Ma con un Paese migliore.

Foto Istituto Nazionale Ferruccio Parri
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No, non siamo diventati migliori.

2 agosto 1980. Per molti di noi sembra soltanto ieri, perché fu una giornata che non potremo mai scordare.
Era il primo sabato d’agosto, che allora coincideva con quello che veniva chiamato il “grande esodo”. Si trattava di un’epoca diversa, in cui le ferie si concentravano in quel mese, con la chiusura delle grandi fabbriche del Nord, trasformando le città in spettrali fotogrammi di case vuote e negozi chiusi.
A Bologna, quel giorno, faceva molto caldo. Un caldo quasi insopportabile, perché nella “bassa” l’umidità accentua la sensazione di disagio: la famosa temperatura “percepita”.
La stazione ferroviaria felsinea era affollata, con tante famiglie che partivano per le ferie: valige, strepiti di bimbi, risate allegre di chi ha atteso a lungo un periodo di svago. Tutti con l’aria felice di chi aveva consegnato a quei giorni di vacanza tutti i sogni per un anno tenuti chiusi nel cassetto della laboriosa quotidianità. Improvvisamente, alle 10 e 25, il tempo si fermò.
Un boato spazzò la spensieratezza e tantissime vite. 23 kg di tritolo, contenuti in una valigia, esplosero nella sala d’aspetto di seconda classe. Le lancette del grande orologio della stazione segnano ancora oggi quell’ora terribile. La deflagrazione causò il crollo dell’ala sinistra dell’edificio. Della sala d’aspetto, del ristorante, degli uffici del primo piano non restò più nulla. Una valanga di macerie si abbatté anche sul treno “Adria Express Ancona-Basilea”, fermo sul primo binario. Pochi istanti per un’apocalisse: uomini, donne e bambini persero la vita, dilaniati o schiacciati.
I morti furono 85, i feriti e mutilati oltre 200. La vittima più piccola fu Angela Fresu, di appena 3 anni; e poi Luca Mauri, di 6, Sonia Burri, di 7. Fino ai più anziani: Maria Idria Avati, 80 anni, e ad Antonio Montanari, di 86.
La città di Bologna si mobilitò immediatamente: molti cittadini, insieme ai viaggiatori presenti, prestarono i primi soccorsi alle vittime e contribuirono ad estrarre le persone sepolte dalle macerie.
Per ore sanitari, vigili del fuoco, forze dell’ordine, Esercito e volontari lavorarono incessantemente alla ricerca di vite da soccorrere e da salvare. Una catena spontanea che in pochissimo tempo rimise in moto la città che stava ‘chiudendo per ferie’. Saltarono le linee telefoniche e i cronisti giunti sul posto, per poter raccontare l’inferno di quei momenti, utilizzarono la cabina dei controllori degli autobus sul piazzale, dove il telefono invece funzionava. Cellulari e internet ancora non esistevano, ma dagli ospedali giunse comunque l’appello a medici e infermieri di tornare in servizio. Un appello accolto da tutti. Un autobus urbano della linea 37 divenne il simbolo di quel terribile giorno, trasformandosi in un improvvisato carro funebre che trasportava le salme all’Istituto di Medicina legale. Alla guida vi era Agide Melloni, allora autista trentunenne. Raccontò alla stampa: ”Mi chiesero di portare via i cadaveri con il bus. Dal mattino alle tre di notte, con i lenzuoli bianchi appesi ai finestrini. Ma in ogni viaggio c’era qualche soccorritore con me, per sostenermi”.
La solidarietà fu immensa anche nel resto del Paese.
Migliaia di messaggi furono inviati al Sindaco dell’epoca, Renato Zangheri, da ogni parte del mondo. Vi era molta fiducia nel sindaco e altrettanta nel Presidente della Repubblica, Sandro Pertini. Fu proprio Pertini, nel corso dei funerali celebrati nella Basilica di San Petronio, ad affermare in lacrime di fronte ai giornalisti: “non ho parole, siamo di fronte all’impresa più criminale che sia avvenuta in Italia”.
Per la strage, dopo anni di depistaggi, sono stati condannati in via definitiva tre esecutori: Valerio Fioravanti, detto Giusva, Francesca Mambro, moglie di Fioravanti, e Luigi Ciavardini, esponenti del gruppo terroristico di estrema destra denominato NAR, Nuclei Armati Rivoluzionari.
Oggi tutti in libertà.
Fioravanti, autore anche di numerosi altri omicidi e atti terroristici, fu condannato in tutto a 8 ergastoli, 134 anni e 8 mesi di reclusione. Ottenuta la libertà vigilata nel 2004, è un libero cittadino dal 2009.
Francesca Mambro, condannata complessivamente a 9 ergastoli, 84 anni e 8 mesi di reclusione, ha ottenuto la libertà vigilata nel 2008 ed è una libera cittadina dal 2013.
Molto diversa è invece la situazione per quanto riguarda i mandanti. I loro nomi stanno emergendo soltanto ora, nell’ambito del processo che la Procura Generale ha avocato a sé nel 2017, nell’ambito di un’inchiesta sull’orlo della archiviazione.
Si tratta di Licio Gelli, accusato di aver distratto milioni di dollari dal crac Ambrosiano e di averne usato una parte per finanziare la strage. Del suo braccio destro Umberto Ortolani, dell’ex capo dell’ufficio Affari Riservati, Federico Umberto D’Amato e del direttore del settimanale Borghese, Mario Tedeschi. Tutti ormai defunti. A loro si è aggiunto Paolo Bellini, il killer di Alceste Campanile, accusato oggi dalla Procura generale di Bologna di avere avuto un ruolo attivo nell’orrore. Braccio della destra eversiva negli anni 70, latitante tra Brasile ed Europa con il falso nome di Roberto Da Silva negli anni ’80, negoziatore per conto dello Stato con Cosa nostra nei primi anni ’90 e sicario di ‘Ndrangheta qualche anno più tardi, il nome di Bellini attraversa in un modo o nell’altro mezzo secolo di storia e di segreti del nostro Paese.
Alla sbarra ci sono anche l’ex ufficiale dell’Arma, Piergiorgio Segatel e Domenico Catracchia, amministratore di condominio di via Gradoli a Roma, covo prima delle Br e poi dei Nar. Ed è curiosa questa contiguità tra terrorismo “nero” e “rosso”.
La speranza è che ora – finalmente – anche le caselle dei mandanti si riempiano con nomi e cognomi.
Anche se si tratta di una giustizia parziale, con gli esecutori liberi e i mandanti quasi tutti deceduti.
Resta tuttavia la consolazione ben rappresentata dalle parole del ministro della Giustizia, Marta Cartabia: “La polvere che rivestiva i corpi martoriati, quella polvere che troppo a lungo ha coperti molteplici responsabilità oggi quella polvere si sta diradando e lascia nuovi contorni e nuovi profili dell’accaduto”.
Il 2 agosto 1980 rappresentò il punto peggiore di un periodo di stragi che insanguinarono il Paese, mettendo a repentaglio gli ordinamenti della nostra democrazia, investita da una violenza del tutto nuova per modalità, tensione e durata.
Tra due giorni, non a caso, ricorre un altro anniversario, quello della strage dell’Italicus. La notte del 4 agosto 1974 una bomba esplose sul treno proveniente da Roma e diretto a Monaco di Baviera, provocando la morte di 12 persone. In realtà avrebbero dovuto essere molte di più: il convoglio, infatti, viaggiava in ritardo. Se fosse stato puntuale l’esplosione sarebbe avvenuta in una galleria lunga diciotto chilometri, senza possibilità di salvezza per tutti i mille passeggeri.
Tuttavia il Paese sconfisse la paura innescata dai terroristi.
Si trattava tuttavia di un’Italia diversa da quella attuale, saldamente ancorata ai valori fondanti della convivenza civile nata con la Repubblica. Rappresentata da forze politiche che, indipendentemente dalle naturali e persino opportune differenze strategiche e prospettiche, si richiamavano tutte al nocciolo duro e inviolabile dei valori espressi nella Costituzione Repubblicana. Il tanto vituperato, a torto, “arco costituzionale”.
Le schegge occulte dei poteri deviati, mai fino in fondo individuate e perseguite, fallirono nel loro insano tentativo di condurre la nazione nel baratro dell’angoscia a motivo del senso di unità del Paese. Quel valore che, negli anni successivi, è stato scientificamente distrutto da un interessato disegno di alcune forze politiche e dall’insipiente negligenza di altre.
Quel due di agosto del 1980, spontaneamente, milioni di persone in tutta Italia, e io tra loro, scesero nelle piazze, senza bandiere di partito, per affermare con forza: “noi non ci arrendiamo!”, non cederemo agli architetti del terrore, agli stregoni dell’angoscia. Fu la manifestazione di un ardore democratico che fece scudo alle istituzioni repubblicane contro il bieco becerume del terrore.
Temo che oggi tale reazione sarebbe impensabile.
No, non siamo diventati migliori.

Foto Corriere della Sera