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Un’altra Italia

2 agosto 1980: Primo sabato d’agosto.
Allora, molto più di oggi, era quello del “grande esodo”. Le ferie si concentravano in quel mese, con la chiusura delle grandi fabbriche del Nord che trasformava le città in spettrali scenografie di case vuote e negozi chiusi.
A Bologna, quel giorno, faceva molto caldo, perché nella “bassa” l’umidità accentua la sensazione di disagio.
La stazione ferroviaria felsinea era affollata, con le famiglie che partivano per le vacanze.
L’atmosfera frizzante, densa di innocenti progetti.
Improvvisamente, alle 10 e 25, il tempo si fermò.
Un boato spazzò la spensieratezza e tantissime vite. Oltre venti chilogrammi di tritolo, contenuti in una valigia, esplosero nella sala d’aspetto di seconda classe. Le lancette del grande orologio della stazione segnano ancora oggi quell’ora terribile. La deflagrazione causò il crollo dell’ala sinistra dell’edificio. Della sala d’aspetto, del ristorante, degli uffici del primo piano non restò più nulla. Una valanga di macerie si abbatté anche sul treno “Adria Express Ancona-Basilea”, fermo sul primo binario. Uomini, donne e bambini persero la vita, dilaniati o schiacciati.
I morti furono 85, i feriti e mutilati oltre 200. Le vittime più piccole furono Angela Fresu, di appena 3 anni, Luca Mauri di 6 e Sonia Burri di 7. Le più anziane Maria Idria Avati di 80 anni e Antonio Montanari di 86.
I soccorsi vennero organizzati immediatamente e ancora prima dell’arrivo delle ambulanze e dei vigili del fuoco i sopravvissuti vennero aiutati da passanti, ferrovieri e tassisti. Anche le automobili private furono utilizzate per il trasporto dei feriti e fecero la spola fra stazione e ospedali.
Si composero lunghe catene umane, formate da volontari, vigili del fuoco, soldati di leva in cui
venivano passati i calcinacci e i mattoni nel tentativo di liberare la zona dell’esplosione, sperando di trovare persone vive, seppur ferite, sotto le macerie.
Da un cantiere vicino giunsero quasi immediatamente ruspe e scavatori, poi affiancati da altri
mezzi.
Un autobus urbano della linea 37 divenne il simbolo di quel terribile giorno, trasformandosi in un improvvisato carro funebre che trasportava le salme all’Istituto di Medicina legale.
La solidarietà fu immensa anche nel resto del Paese.
Per quella strage, dopo anni di depistaggi, sono stati condannati gli esecutori: in via definitiva Valerio Fioravanti, detto Giusva, Francesca Mambro, moglie di Fioravanti, Luigi Ciavardini, e – per concorso nel reato – Gilberto Cavallini, esponenti del gruppo terroristico denominato NAR, Nuclei Armati Rivoluzionari. Condannato lo scorso anno in primo grado anche Paolo Bellini.
I due principali artefici furono proprio Valerio Fioravanti e Francesca Mambro.
Fioravanti, autore anche di numerosi altri omicidi e atti terroristici, fu condannato in tutto a 8 ergastoli ai quali vanno aggiunti 134 anni e 8 mesi di reclusione. Ottenuta la libertà vigilata nel 2004, è un libero cittadino dal 2009. E’ stato condannato in via definitiva per l’uccisione di 93 persone e ha scontato in tutto 18 anni di reclusione. Ora scrive per il quotidiano “l’Unità” recentemente tornato in edicola.
Francesca Mambro, condannata complessivamente a 9 ergastoli, 84 anni e 8 mesi di reclusione, ha ottenuto la libertà vigilata nel 2008 ed è una libera cittadina dal 2013. E’ stata condannata in via definitiva per l’uccisione di 96 persone e ha scontato in tutto 16 anni di reclusione. Attualmente lavora con l’associazione “Nessuno tocchi Caino”, fondata nel 1993 dal Partito Radicale conto la pena di morte e che ora si batte contro il cosiddetto il “41-bis”, che prevede un regime carcerario più rigido e che è stato introdotto nel 1992, all’indomani delle stragi di Mafia di Capaci e via d’Amelio in cui persero la vita i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Dal 1982 l’iter giudiziario relativo alla strage di Bologna è stato costellato – come troppo spesso in Italia – da depistaggi, misteri e collusioni.
L’ultima sentenza, del 6 aprile 2022, avrebbe individuato i mandanti: il venerabile Licio Gelli (onnipresente nelle pagine più cupe della nostra storia), che avrebbe finanziato la strage con i fondi distratti dal fallimento dell’Ambrosiano. Il suo collaboratore e braccio destro Umberto Ortolani, l’ex capo dell’ufficio Affari Riservati del Ministero dell’Interno, Federico Umberto D’Amato e il direttore del settimanale “Borghese”, Mario Tedeschi.
Tutti, ovviamente, sono deceduti.
Quel terribile 2 agosto fu l’apice di un periodo tragico, funestato da attentati e stragi alternativamente compiuti dall’eversione nera – con la collaborazione di parti deviate dello stato – e dal terrorismo rosso delle BR, coadiuvato da complicità non ancora ben delineate.
Un’epoca terribile per il nostro Paese, che tuttavia seppe reagire difendendo strenuamente i valori della democrazia e sconfiggendo sia lo stragismo nero che il brigatismo rosso.
Si trattava però di un’Italia diversa da quella attuale, saldamente ancorata ai valori fondanti della convivenza civile nata con la Repubblica. Rappresentata da forze politiche che, indipendentemente dalle naturali e persino opportune differenze strategiche e prospettiche, si richiamavano al nocciolo duro e inviolabile dei valori espressi nella Costituzione Repubblicana. Quel due di agosto del 1980, spontaneamente, milioni di persone in tutta Italia scesero nelle piazze, senza bandiere di partito, per affermare con forza che non si sarebbero arrese, che non avrebbero ceduto agli architetti del terrore, agli stregoni dell’angoscia. Fu la manifestazione di una tenuta democratica che fece scudo alle istituzioni repubblicane contro il bieco disegno del terrore.
Oggi tale reazione sarebbe impensabile. Non ci sono più stragi, grazie a Dio. Forse perché non sono più necessarie a minare la stabilità complessiva di un Paese sempre meno indipendente e con ridotta potestà decisionale.
La caduta dei valori civici avvenuta in questi anni è mortificante, e fa da contraltare alla peggior classe politica che mai ha calpestato (e offeso) gli scenari delle istituzioni.
Fu un’epoca terribile, quella. Ma in un Paese certamente migliore.

Foto: TAG24

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Il lavoro e il valore della vita

8 agosto del 1956. In Belgio, nella miniera di carbone Bois du Cazier di Marcinelle, scoppiò un incendio causato dalla combustione d’olio ad alta pressione innescata da una scintilla elettrica. Le fiamme, sviluppatesi inizialmente nel condotto d’entrata d’aria principale, riempirono di fumo tutto l’impianto sotterraneo, provocando la morte di 262 persone delle 275 presenti. Di questi 136 erano emigrati italiani, metà dei quali abruzzesi. Ben 22 originari del comune di Manoppello.
Quella mattina le gabbie degli ascensori avevano distribuito le squadre nei vari piani, fino a 1.035 metri sottoterra. Alle 8,10 un carrello uscì dalle guide e andò a sbattere contro un fascio di cavi elettrici ad alta tensione che, con criminale negligenza, risultava privo della rete di protezione. L’incendio divampò subito e si propagò con grande velocità. Ci volle un intero giorno per spegnere le fiamme e per cominciare a recuperare le vittime.
Potete immaginare l’angoscia e, con il passare delle ore, la disperazione dei familiari dei minatori accorsi alla miniera. A portar loro conforto arrivò anche il Patriarca di Venezia, Giovanni Battista Roncalli, futuro Papa Giovanni XXIII.
Quando le squadre di salvataggio cominciarono a recuperare i corpi non fu neppure possibile procedere al riconoscimento, in quanto i cadaveri erano anneriti e gonfi, spesso mutilati.
Moltissimi minatori italiani, abbiamo visto. Non solo a Marcinelle. Nel 1956, fra i 142 000 minatori impiegati in Belgio, .44 000 erano italiani.
Tutto ebbe inizio nel 1946.
In quell’anno il governo italiano e quello belga sottoscrissero un accordo in forza del quale l’Italia avrebbe mandato i propri disoccupati a lavorare nelle miniere belghe e, in contropartita, il Belgio avrebbe venduto al nostro Paese un certo numero di tonnellate di carbone a basso costo.
Erano anni difficili per l’Italia, uscita distrutta dalla guerra. Agevolare l’emigrazione era un modo – ancorché sbrigativo – per diminuire il numero dei disoccupati.
In Belgio era difficile trovare lavoratori disposti a lavorare nelle miniere, anche tra gli stranieri. Si trattava di un lavoro pesante e mal retribuito. Non a caso, negli anni precedenti, a tale attività erano stati destinati i prigionieri di guerra.
Lo “Statuto del minatore”, approvato dal governo belga nel febbraio 1945, da un lato prevedeva miglioramenti dei salari, pensioni, un periodo di ferie e case operaie, ma dall’altro anche multe e prigione per chi, essendo già stato minatore nel passato, rifiutasse di scendere ancora in miniera.
In tutti i nostri comuni vennero affissi manifesti in cui si parlava di questa opportunità di lavoro in Belgio. Naturalmente non venivano forniti dettagli, ma si magnificava il salario sicuro e le ferie garantite.
La realtà che trovarono i lavoratori italiani in Belgio fu ben altra cosa rispetto alle promesse dei manifesti: un lavoro durissimo e pericoloso, da affrontare senza alcuna preparazione specifica.
I candidati minatori vennero avviati da tutta Italia verso Milano, con tappa alla Stazione Centrale. Dopo aver superato le visite mediche e dopo un viaggio di 72 ore, venivano scaricati nelle stazioni del Belgio: non tra i viaggiatori, ma nelle zone destinate alle merci. Un altro trauma fu quello dell’alloggio: infatti la sistemazione avveniva in baracche di legno che erano state utilizzate per i prigionieri russi durante l’occupazione nazista. Campi di concentramento, insomma.
I lavoratori italiani dovevano fermarsi almeno un anno; qualora non avessero rispettato questi accordi sarebbero stati rinchiusi in campi di prigionia e, infine, rimpatriati.
Gli storici ricordano come, insieme ai centri di emigrazione, si sviluppò in quegli anni anche la rete dei trafficanti di migranti: individui privi di scrupoli, cooperative, società di spregiudicati che illegalmente reclutavano nelle campagne braccia e famiglie da destinare al fruttuoso business dell’immigrazione.
Nihil sub sole novum, come affermò Qoèlet duemilatrecento anni fa.
Nel dicembre del 1953, allorché i minatori italiani uccisi nelle miniere erano già più di 200, il governo italiano spinse quello belga ad aprire un’inchiesta sul lavoro in tali strutture. Ma le miniere erano già sul punto di chiudere per la crisi del settore e l’avvento del petrolio e le leggi del profitto volevano che si continuasse, per il poco tempo restante, a lavorare nella stessa maniera.
Così si giunse a quella mattina dell’8 agosto del 1956.
Scrisse il Corriere delle Sera in un editoriale del giorno seguente: “L’Italia può esportare dei lavoratori, ma non degli schiavi. Se il contegno dei datori di lavoro stranieri e l’atteggiamento egoistico degli stessi sindacati di quei Paesi costringono i nostri uomini a lavorare in condizioni di estremo e continuo pericolo, è doveroso intervenire in loro difesa anche sul piano politico e diplomatico”.
Il processo che seguì alla strage di Marcinelle si concluse, naturalmente, con l’assoluzione dei dirigenti della società mineraria. La responsabilità fu attribuita all’addetto alla manovra del carrello, un italiano morto nel disastro. Da Marcinelle alla Thyssen il percorso è sempre quello.
La tragedia ebbe una vastissima eco, facendo conoscere a tutti le condizioni proibitive del lavoro nelle miniere. Il governo italiano, incalzato dalle opposizioni, fu costretto a bloccare l’emigrazione verso il Belgio che iniziò a sostituire i minatori italiani con quelli spagnoli e greci.
Nel 1990 la miniera di Marcinelle venne classificata monumento storico, grazie alla pressione di un vasto movimento di opinione pubblica composto da associazioni di ex minatori e cittadini. Un memoriale in ricordo delle vittime fu inaugurato nel 2002, grazie ai finanziamenti della Comunità Europea.
Ricordare oggi la tragedia di Marcinelle significa non soltanto onorare la memoria delle vittime, ma sottolineare la necessità della sicurezza sul lavoro. Tema sul quale, occorre dirlo, molto resta da fare. Anzi: moltissimo.
Franco Bettoni, Presidente dell’Inail, ha presentato lo scorso 19 luglio a Montecitorio la relazione annuale dell’Istituto, affermando che “non è sufficiente indignarsi ma occorre agire. Le norme ci sono e vanno rispettate. È necessario un impegno forte e deciso di tutti per realizzare un vero e proprio ‘patto per la sicurezza’ tra istituzioni e parti sociali”.
Nei primi cinque mesi di quest’anno le denunce per infortunio sono già arrivate a quota 219.262 (erano 207.472 nello stesso periodo del 2020), le morti a 434 (432): significa che se la tendenza media dovesse confermarsi, a fine anno avremo quasi mille decessi e più di mezzo milione di infortuni.
Per questo ricordare oggi Marcinelle significa rendere omaggio a coloro che hanno abbandonato le loro case in cerca di una vita più dignitosa trovando, invece, la morte.
Ma significa anche rilanciare l’attenzione sul tema più generale delle vittime del lavoro.
Vuol dire auspicare nuovi modelli di sviluppo e di crescita, pur senza demonizzare il progresso e migliori stili di vita. Evitando patetici luddismi e pauperismi da salotto. Non dobbiamo auspicare la decrescita, ma una crescita qualitativa.
Significa, infine e soprattutto, ribadire che la vita umana vale più di ogni cosa.
Di un pugno di carbone ieri, del risparmio sulle misure di sicurezza oggi.

Foto de “Il Corriere del Ticino”
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Piazza Fontana e la “intentona” di Borghese

12 dicembre 1969. Un venerdì pomeriggio. A Milano faceva freddo. Una tipica giornata dell’inverno meneghino di allora, con un’umidità che stringeva le ossa e una luce smarrita nel plumbeo di un cielo disadorno. Con l’aria inquinata e gelida che mordeva la gola.

A dispetto del grigiore del cielo l’atmosfera si ovattava di sensazioni dolci. Sant’Ambrogio era da poco trascorso e Natale si avvicinava in punta di piedi. In Piazza del Duomo i bambini passeggiavano avvolti in colorate sciarpe di lana, amorevolmente sferruzzate dalle nonne. Il profumo dei panettoni stuzzicava l’attesa.

Un Natale ancora semplice, pervaso dall’emozione della povertà che si avventurava in un benessere sobrio e non urlato. Con meno luminarie ma più aspettative. Con la semplicità dei piccoli presepi accovacciati nel muschio.

Nella adiacente Piazza Fontana la sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura era ancora aperta e gremita di clienti, molti dei quali – a ragione del mercato del venerdì – provenivano da fuori Milano.

Verso le 16 e 30 i dipendenti osservavano l’orologio con il desiderio di chiudere la banca. Li attendeva il sabato durante il quale acquistare qualche piccolo regalo. Con la parsimonia di quegli anni, nei quali si pensava al futuro dei figli che dovevano studiare.

Ma per molti il futuro non arrivò.

Alle 16 e 37 un potente ordigno esplose nel salone centrale della banca. Si trattava di sette chili di tritolo, chiusi in una valigetta sistemata sotto un ampio tavolo al centro del locale. Gli effetti furono devastanti: il pavimento fu squarciato, formando un’autentica voragine: diciassette persone restarono uccise e altre ottantotto furono ferite. La fossa creatasi, secondo i testimoni, era piena di corpi mutilati che bruciavano.

Non fu l’unico attentato di quella giornata. Qualche minuto prima, infatti, un altro ordigno era stato rinvenuto nella vicina sede della Banca Commerciale Italiana, in piazza della Scala. Tra le 16 e 55 e le 17 e 30, inoltre, altre tre esplosioni si verificarono a Roma: una, all’interno della Banca Nazionale del Lavoro di via San Basilio; altre due sull’Altare della Patria di piazza Venezia.

Una giornata terribile, che colpì al cuore il Paese, smarrito ed incredulo dinnanzi ad eventi che mai aveva sperimentato dalla fine della guerra.

Quel maledetto 12 dicembre prese il via il periodo più oscuro della storia italiana, caratterizzato da quella che venne definita “strategia della tensione”. Anni nei quali fu attaccata alle sue radici la democrazia, investita da una violenza mai sperimentata.

Quella di Piazza Fontana fu solo la prima di una infinita serie di stragi e attentati volti a scardinare l’ordinamento democratico: Piazza della Loggia, l’Italicus, la Questura di Milano, Peteano…. Sino all’orrore della Stazione ferroviaria di Bologna nel 1980.

Eventi terribili, ai quali si affiancò la defatigante serie di agguati e omicidi, con cadenza quasi quotidiana, commessi dalle Brigate Rosse e dai gruppi che le fiancheggiavano.

C’è un’altra data tuttavia che vorrei ricordare.

Si tratta del 7 dicembre 1970. Cinquant’anni fa.

Quella notte ebbe luogo il tentato colpo di stato organizzato da Junio Valerio Borghese. Un evento ormai scordato da tutti.

I pochi che ancora ricordano tendono a ritenerla una farsa da operetta messa in atto da quattro vecchi rimbambiti. Una versione simile a quella descritta da Mario Monicelli nel film satirico del 1973 “Vogliamo i colonnelli”, con Ugo Tognazzi maschera grottesca e ridicola.

In effetti un golpe organizzato con l’ausilio di 187 forestali ed alcune decine di estremisti poco credibile lo sembra davvero. Ma così non è.

La possibilità di un colpo di stato in Italia era stata telegrafata a Washington il 7 agosto 1970 dall’ambasciatore statunitense a Roma, Graham Martin. Martin non considerò l’operazione “Tora-Tora” (come venne definita in codice) un’iniziativa di vecchi idealisti.

Il Fronte Nazionale, organizzazione di estrema destra diretta dal Valerio Borghese, ricevette cospicui finanziamenti, nell’ordine di milardi di lire (che allora erano cifre impressionanti). Da chi? Non è mai stato accertato.

Il piano del golpe prevedeva l’occupazione del Ministero degli Interni, di quello della Difesa e della sede della Rai, insieme al rapimento del presidente della Repubblica Giuseppe Saragat e all’omicidio del capo della Polizia Angelo Vicari.

Al Viminale già dal pomeriggio, si erano insediati alcuni golpisti vestiti da operai.

Alle 22 e 30 giunsero davanti al ministero una cinquantina di estremisti di destra che entrarono nell’armeria, asportando i circa duecento mitra che vi erano custoditi. L’operazione fu favorita da alcuni emissari interni al ministero. Tra questi Salvatore Drago, uomo di Avanguardia nazionale, ma al tempo stesso legato al servizio segreto civile, alla mafia e alla loggia segreta P2, altrettanto attiva nel progetto eversivo. Le plurime appartenenze di Salvatore Drago sono lo specchio dell’articolazione nella quale si mosse questo tentativo.

Il colpo di Stato non fu portato a termine, perché Borghese ricevette una telefonata da qualcuno, sempre rimasto sconosciuto, che gli diede l’ordine di sospendere l’operazione.

Lo storico Aldo Giannuli dell’università di Milano ha recentemente dichiarato al Corriere della Sera: “il golpe Borghese non è stato capito e inquadrato correttamente: o è stato visto come una buffonata di quattro rimbambiti, oppure come un vero colpo di Stato fallito. La verità sta nel mezzo: le persone coinvolte erano tante, ma non bastavano per instaurare un regime militare. Ma è anche vero che fu determinante l’abilità politica di Giulio Andreotti nell’utilizzare il progetto di golpe per disfarsi di un fantasma, quello del colpo di Stato imminente, che aleggiava da tempo. Questo spettro servì anche ad ammansire il Pci e i sindacati su una serie di questioni, con una moral suasion del tipo «se non veniamo a patti non è detto che non ci riescano la prossima volta». Non a caso il Pci non chiese mai una inchiesta parlamentare sul golpe Borghese”. Gianuli sottolinea che comunque non fu una vicenda di poco conto: il rischio che si sparasse sulle strade e che ci scappasse qualche centinaio di morti è stato reale.

Furono in molti a individuare in Giulio Andreotti l’ispiratore del tentato colpo di stato, ma la cosa pare decisamente poco credibile. Andreotti fu solo abile, con la sua immensa e talora mefistofelica intelligenza, ad approfittarne. Del resto fu lui stesso a ricordare come in democrazia si fosse sempre trovato bene, al punto da essere presidente del Consiglio per sette volte e ministro di tutto. Perché quindi caldeggiare un colpo di Stato che avrebbe ridimensionato il suo potere?

Esiste un termine spagnolo per definire quanto accadde la notte del 7 dicembre 1970: è la parola “intentona”, ossia una specie di colpo di stato virtuale che serva da avvertimento.

Una notte, quella del 7 dicembre del 1970, rimasta avvolta dal mistero e ormai dimenticata.

Liquidata anche dalla Cassazione nel 1986, con una sentenza secondo la quale “La Corte ritiene che i clamorosi eventi della notte in argomento si siano concretati in un conciliabolo di quattro o cinque sessantenni”.

Ben diverso il parere della CIA. Nei documenti recentemente desecretati si legge che il Dipartimento di Stato statunitense era perfettamente a conoscenza del tentativo di colpo di stato, ritenendo che il fallimento fu imputabile essenzialmente al rifiuto dei Carabinieri di aderire al progetto.

La CIA attribuì al Vaticano il ruolo decisivo nel bloccare l’operazione eversiva.

E’ importante oggi ricordare la strage di Piazza Fontana, per la sua efferatezza.

Ma altrettanto importante è rammentare la notte del 7 dicembre di cinquant’anni fa.

Per tener ben a mente quanto sia fragile la democrazia e come quella dell’uomo forte sia una tragica evocazione, dal cui pertugio si materializzano ogni sorta di mostri in grado di annientare la libertà.

società

Il Massacro di Sand Creek

29 novembre 1864.

Quel giorno ebbe luogo in Colorado, negli Stati Uniti, il tristemente celebre “Massacro di Sand Creek”, nel corso del quale le truppe della milizia del Colorado, comandate dal colonnello John Chivington, attaccarono un villaggio di Cheyenne e Arapaho, massacrando donne e bambini.

In quel drammatico giorno il colonnello John Chivington e i suoi 800 uomini della Prima Cavalleria Colorado, della Terza Cavalleria Colorado e una compagnia di Primi Volontari del New Mexico marciarono verso i campi per massacrare gli Indiani. La mattina del 29 novembre 1864, l’armata attaccò i villaggi e macellò i loro abitanti. Tra 150 e 184 Cheyenne furono dichiarati morti, alcuni furono mutilati, e la maggior parte di questi erano donne, bambini e anziani. Chivington e i suoi uomini più tardi mostrarono gli scalpi e altre parti del corpo, soprattutto feti di donne incinte e genitali, nell’Apollo Theater di Denver.

L’organismo di vigilanza militare denominato Comitato di Condotta della Guerra indagò sull’episodio e scrisse nel rapporto finale:

“Per quanto riguarda il Colonnello Chivington, questo comitato può difficilmente trovare dei termini adeguati che descrivano la sua condotta. Indossando l’uniforme degli Stati Uniti, che dovrebbe rappresentare un emblema di giustizia e di umanità; occupando l’importante posizione di comandante di un distretto militare, che gli ha concesso l’onore di governare tutto ciò che rientra nei suoi poteri, ha deliberatamente organizzato ed eseguito un folle e vile massacro in cui numerose sono state le vittime della sua crudeltà. Egli conoscendo chiaramente la cordialità del loro carattere, avendo egli stesso in un certo senso tentato di porre le vittime in una condizione di fittizia sicurezza, ha sfruttato l’assenza di alcun tipo di difesa e la loro convinzione di sentirsi sicuri per potere gratificare la peggiore passione che abbia mai attraversato il cuore di un uomo. Qualunque peso tutto questo abbia avuto sul Colonnello Chivington, la verità è che ha sorpreso e assassinato, a sangue freddo, inaspettatamente uomini, donne e bambini, i quali avevano tutte le ragioni per credere di essere sotto la protezione delle autorità statunitensi, e poi ritornando a Denver si è vantato dell’azione coraggiosa che lui e gli uomini sotto il suo comando hanno eseguito”.

Sarebbe bello poter dire che è una orribile pagina di un passato ormai lontano.

Ma la barbarie umana non è cessata.

Basta aprire un qualunque quotidiano e ce ne accorgiamo. Guerre, barbarie, decapitazione, sterminio di donne e bambini inermi.

Un rosario infinito di atrocità, negli ultimi 150 anni, dal massacro di Sand Creek: guerre mondiali, shoa, genocidio armeno, i gulag, Pol Pot, i regimi sudamericani, il Biafra, il Ruanda, il massacro di Srebrenica. E, oggi, Iraq, Isis, Siria, Libia. Ma altri ancora potrebbero essere menzionati.

Capolavori drammatici di atrocità infinita. Ha ragione Quasimodo: sei ancora quello della pietra e della fionda, uomo del mio tempo!