Si chiamava Marco Querini e aveva 64 anni. Stamane sulla strada Roma Fiumicino si è accorto che dall’auto che lo precedeva erano volate in strada, uscite dal finestrino, banconote per alcune migliaia di euro. Insieme ad altri automobilisti Marco si è fermato ed ì sceso dall’auto per raccoglierne un po’. Un imprudenza che gli è costata cara: infatti è stato investito da un auto che sopraggiungeva in quel momento. Una tragedia dovuta a imprudenza. Ma ciò che rende assurda questa vicenda è che, mentre i soccorritori cercavano di rianimare Marco, gli altri automobilisti, impassibili dinnanzi alla morte di un uomo, proseguivano tranquillamente e freneticamente a raccogliere il denaro, spintonandosi tra loro. In una scena il tramonto di un mondo.
Il 19 gennaio 1940 nasceva a Palermo Paolo Borsellino.
Borsellino era nato nella Kalsa, l’antico quartiere di origine araba di Palermo, zona di professori, commercianti ed esponenti della media borghesia.
Ancora ragazzo conobbe Giovanni Falcone, che abitava a poche decine di metri da lui e che gli fu compagno nella magistratura e, purtroppo, nella morte.
Si laureò in giurisprudenza a soli 22 anni, ma – sino al conseguimento della laurea in farmacia della sorella Rita – dovette occuparsi della farmacia del padre, scomparso improvvisamente a soli 52 anni.
Entrò quindi in magistratura, divenendo il più giovane magistrato d’Italia.
Dopo vari incarichi Borsellino, nel 1975, venne trasferito all’Ufficio istruzione del tribunale di Palermo. Fu allora che strinse un rapporto molto stretto con il suo superiore Rocco Chinnici, il quale, prima di essere ucciso nel 1983, istituì il cosiddetto “pool antimafia”, un gruppo di giudici istruttori che, lavorando in gruppo, si sarebbero occupati solo dei reati di stampo mafioso. Borsellino fu confermato nel pool anche dal successore di Chinnici, Antonino Caponnetto. A metà anni 80 Falcone e Borsellino istituirono il maxi-processo di Palermo, basato sulle dichiarazioni del pentito Tommaso Buscetta. Per ragioni di sicurezza furono costretti a trascorrere un periodo all’Asinara, insieme alle rispettive famiglie. Lo storico procedimento nell’aula bunker dell’Ucciardone portò, nel 1987, a 342 condanne.
La sua vita, a seguito delle condanne inflitte nel maxi-processo, divenne ogni giorno più a rischio, così come quella di Giovanni Falcone.
La mafia aveva ormai deciso la loro uccisione.
Anche il clima intorno ai magistrati antimafia cominciò a farsi pesante. Chiacchiere e critiche si insinuarono sempre più insidiose, giungendo anche da lidi insospettabili.
Leoluca Orlando accusò Giovanni Falcone di tenere nei cassetti prove contro i politici mafiosi. Lo stesso Orlando, sindaco di Palermo, nel corso di una puntata della trasmissione Sarmarcanda, condotta da Michele Santoro su Rai Tre, il 24 maggio 1990 lanciò un’accusa gravissima contro Orlando e Borsellino: “il pool ha una serie di omicidi eccellenti a Palermo e li tiene chiusi dentro il cassetto”.
Esasperato dalle insinuazioni, Falcone ebbe così a sfogarsi: “Non si può investire della cultura del sospetto tutto e tutti. La cultura del sospetto non è l’anticamera della verità, la cultura del sospetto è l’anticamera del komeinismo…Io sono in grado di resistere, ma altri colleghi un po’ meno. Io vorrei che vedeste che tipo di atmosfera c’è adesso a Palermo”.
Lo scrittore Leonardo Sciascia, dal canto suo, ebbe a scrivere, con riferimento ad una promozione ricevuta da Borsellino: “I lettori, comunque, prendano atto che nulla vale più, in Sicilia, per far carriera nella magistratura, del prender parte a processi di stampo mafioso”. L’intervento di Sciascia, pubblicato dal quotidiano “Corriere della Sera”, dette origine all’espressione “professionisti dell’antimafia”, che risultava essere il titolo dell’articolo.
Nel suo ultimo discorso pronunciato a Casa Professa, a Palermo, pochi giorni prima di essere ucciso, Borsellino, a proposito di quel testo di Sciascia, disse: “Dal momento in cui fu pubblicato, Giovanni Falcone cominciò a morire”.
E la morte di Falcone arrivò, il 23 maggio 1992, in quella che venne chiamata la strage di Capaci, nella quale, oltre al magistrato, persero la vita la moglie Francesca Morvillo e tre uomini della scorta.
Iniziarono, con la morte di Giovanni Falcone quelli che furono chiamati i 57 giorni di Paolo Borsellino, alludendo al periodo che intercorse dall’omicidio di Falcone al suo.
In quei 57 giorni Borsellino fu un “dead man walking”, un morto che cammina, e lo fu pubblicamente, alla luce del sole.
“Borsellino sapeva di essere ormai nel mirino”, disse Antonino Caponnetto in un’intervista con Gianni Minà nel 1996, “soprattutto lo seppe negli ultimi giorni prima della sua morte. Il giovedì ebbe la comunicazione indubitabile… la certezza assoluta che il tritolo per lui era già arrivato a Palermo. Per prima cosa si attaccò al telefono, chiamò il suo confessore. Disse: puoi farmi la cortesia di venire subito? E appena quello lo raggiunse nel suo studio, disse: senti, per cortesia, confessami e impartiscimi la comunione”.
Da venti giorni Paolo Borsellino aveva chiesto alla questura la rimozione degli autoveicoli dalla zona antistante l’abitazione della madre. Inutilmente. E proprio una vettura lì posteggiata determinò la sua morte.
Era il 19 luglio 1992. In via d’Amelio, proprio sotto la casa della mamma del magistrato, i killer mafiosi fecero esplodere una Fiat 126 contenente oltre 100 chilogrammi di Tritolo. Nell’attentato persero la vita, oltre a Paolo Borsellino, gli agenti di scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.
A Palermo tutti sapevano che Paolo Borsellino sarebbe stato ucciso. Ha scritto sul quotidiano “La Stampa” Francesco La Licata: “Lo sapevamo noi giornalisti che frequentavamo il “Palazzaccio”, lo sapevano i palermitani che ne parlavano liberamente nei bar e nei salotti (più o meno “buoni”). Lo sapeva anche Paolo Borsellino che ne parlò apertamente, ossessionato dal timore di non riuscire «a fare in tempo»”.
Ricordare Paolo Borsellino, così come Giovanni Falcone, è doveroso.
Per il loro sacrificio, per i loro successi che hanno reso la mafia più debole.
Ma soprattutto per il loro esempio.
A loro e a tutti coloro che ancora oggi sono in prima fila nella lotta alla mafia ben si addicono i versi della poetessa bulgara Blaga Dimitrova: “Nessuna paura che mi calpestino, calpestata l’erba diventa sentiero”.
Si chiamava Adriano Urso e aveva 41 anni. A molti di voi il suo nome dirà poco, ma tra gli amanti del jazz era molto noto. Non un comune pianista ma, come raccontano gli estimatori, “il” pianista. Un uomo dolce, di grande cultura, che parlava con una cordialità di altri tempi usando termini della lingua italiana a dir poco in disuso. Così lo descrivono i tanti suoi amici e appassionati di musica. La crisi provocata dall’epidemia di Covid, con le chiusure dei locali, lo aveva messo in ginocchio, come tanti altri suoi colleghi e operatori dello spettacolo. Adriano, per campare, si era messo a fare il cosiddetto “rider”: consegnava cene per conto del marchio Just Eat. L’altra sera Adriano stava effettuando una consegna con la sua auto, una Fiat 750 d’epoca. L’auto si è fermata, forse a causa del freddo, forse a causa degli anni. Il pianista è sceso a spingere la vettura, aiutato da due passanti. Improvvisamente un malore. Adriano si è accasciato ed è morto di infarto. Una vittima, indiretta, di questa maledetta epidemia. Della crisi economica che sta devastando il nostro Paese. Un segnale di quanto probabilmente ci attende tra poco, quando cesserà il blocco dei licenziamenti. Un monito a una classe politica sempre più distante dal Paese reale, dedita a una crisi di governo mentre la gente muore. Di covid o per la crisi economica dallo stesso causata.
Si chiama Gitanjali Rao, ha soli 15 anni ed entra nella storia come prima persona a finire sulla copertina della celebre rivista “Time” come “Kid of the year”. La storica pubblicazione americana ha infatti scelto lei per l’importante ed inedito riconoscimento.
Dal 1927 TIME dedica il suo ultimo numero alla Persona dell’anno (“Person of the Year”), cioè la persona considerata più significativa e influente dei 12 mesi passati. Quest’anno ha introdotto un nuovo riconoscimento, quello al “Kid of the Year”, che è dedicato ai più giovani
Rao, a cui è andato il premio, utilizza la ricerca scientifica e l’intelligenza artificiale per risolvere i problemi della vita quotidiana, dal bullismo online alla contaminazione dell’acqua.
Intervistata da Angelina Jolie, Rao ha dichiarato: “La nostra generazione sta affrontando così tanti problemi come non abbiamo mai visto prima. Ma allo stesso tempo dobbiamo affrontare vecchi problemi che ancora esistono. Ad esempio, siamo seduti qui nel mezzo di una nuova pandemia globale, e siamo ancora a dover affrontare i problemi dei diritti umani. Ci sono problematiche che non abbiamo creato ma che ora dobbiamo risolvere, come il cambiamento climatico e il cyberbullismo”.
Complimenti Rao: contribuisci a migliorare il mondo!
25 novembre: “Giornata mondiale contro la violenza sulle donne”.
La gran parte della stampa, nei suoi titoli, scrive che si “celebra” tale giornata. Forse un termine poco felice, se inteso nel suo significato di “festeggiare solennemente con cerimonie varie” (cfr. Treccani). Meglio sarebbe forse dire che si “ricorda” la violenza sulle donne, al limite che si “commemora”.
Perché la cosa davvero importante è riflettere, analizzare e diventare più consapevoli di questo gravissimo problema.Un dramma che, ben lontano dall’essere risolto, è addirittura peggiorato nel corso del 2020.
Partiamo dall’aspetto più efferato: il femminicidio. Nei primi dieci mesi del 2020 le donne vittime di femminicidio sono state 91, una ogni tre giorni, come ci dice il VII Rapporto Eures – Ricerche Economiche e Sociali. L’incidenza del contesto familiare nei femminicidi raggiunge nel 2020 il valore record dell’89%, superando il già elevatissimo 85,8% registrato nel 2019. La coppia continua a rappresentare il contesto relazionale più a rischio per le donne, con 1.628 vittime tra le coniugi, partner, amanti o ex partner negli ultimi 20 anni. Uccise da colui che dovrebbe declinare il proprio sentimento in gesti di protezione.
Ma le forme di violenza non si limitano all’uccisione. Una disanima in tal senso è stata recentemente illustrata in uno studio della facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università Politecnica delle Marche a cura del sociologo Alberto Pellegrino. Esiste la violenza domestica, esercitata soprattutto nell’ambito familiare o nella cerchia di conoscenti, attraverso minacce, maltrattamenti fisici e psicologici, atti persecutori, stalking, percosse, abusi sessuali, delitti d’onore, femminicidi passionali o premeditati. Una forma particolare di violenza familiare è la violenza economica, che consiste nel controllo del denaro da parte del partner, nel divieto d’intraprendere attività lavorative esterne all’ambiente domestico, nel controllo delle proprietà e nel divieto ad ogni iniziativa autonoma rispetto al patrimonio della donna.
Esiste poi una violenza esercitata sul posto di lavoro, dove le donne sono esposte ad abusi e ricatti sessuali. Si tratta di una sopraffazione molto sottostimata nelle sue manifestazioni fisiche e sessuali, che va da una forma di maschilismo soft basato su battute, offerte di protezione e tentativi di seduzione per arrivare alle violenze fisiche e a tutti i tipi di molestie sessuali. Ci sono forme di maltrattamenti psicologici che entrano a far parte dei rapporti di lavoro e che finiscono per essere considerati come inevitabili, pur provocando uno stato d’insofferenza e di disagio nelle donne che sentono di essere considerate come un oggetto, caricate di eccessive responsabilità e di paure con minacce vaghe o palesi.
Vediamo ancora qualche cifra, fornita dall’ISTAT Istituto Nazionale di Statistica, per meglio cogliere la dimensione della situazione nel nostro Paese. Il 31,5% delle 16-70enni (6 milioni 788 mila) ha subìto nel corso della propria vita una qualche forma di violenza fisica o sessuale: il 20,2% (4 milioni 353 mila) ha subìto violenza fisica, il 21% (4 milioni 520 mila) violenza sessuale, il 5,4% (1 milione 157 mila) le forme più gravi della violenza sessuale come lo stupro (652 mila) e il tentato stupro (746 mila). Le donne subiscono minacce (12,3%), sono spintonate o strattonate (11,5%), sono oggetto di schiaffi, calci, pugni e morsi (7,3%). Altre volte sono colpite con oggetti che possono fare male (6,1%). Meno frequenti le forme più gravi come il tentato strangolamento, l’ustione, il soffocamento e la minaccia o l’uso di armi. Tra le donne che hanno subìto violenze sessuali, le più diffuse sono le molestie fisiche, cioè l’essere toccate o abbracciate o baciate contro la propria volontà (15,6%), i rapporti indesiderati vissuti come violenze (4,7%), gli stupri (3%) e i tentati stupri (3,5%).
Particolare allarme desta la nuova fattispecie di reato denominata “diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti” (chiamata spesso “revenge porn”), con 718 denunce nel corso del 2020 (oltre – ovviamente – al “sommerso” non denunciato per vergogna). Due video intimi di donne al giorno vengono diffusi illecitamente da fidanzati o ex fidanzati al fine di umiliarle o ricattarle. E’ di pochi giorni fa il caso di Torino, laddove un delinquente che aveva avuto una relazione con una maestra ne ha diffuso un video intimo. Con il risultato che la maestra è stata licenziata dalla preside, a suo dire per le pressioni dei genitori. Il che da un lato dimostra che talora i genitori sono i peggiori esempi per i figli e dall’altro che manca ancora un sistema scolastico adeguato, che avrebbe già provveduto a rimuovere dall’incarico la preside in questione, non foss’altro che per il “clamor fori” dei fatti.
E se tutto questo non bastasse le vicende legate al Covid hanno accentuato ancor più le situazioni difficili. La pandemia ha agito da amplificatore, aggiungendo isolamento a isolamento: la quarantena ha trasformato la casa di tante in una trappola. Le ha difese dal coronavirus, ma le ha lasciate in balia dei partner. Le chiamate al numero verde 1522, il centralino del Dipartimento Pari opportunità, nei primi 10 mesi dell’anno sono aumentate superando nel solo periodo considerato i livelli degli anni precedenti, con le vittime salite a quota 12.833 al 30 ottobre.
Che cosa possiamo fare dinnanzi a tale stato delle cose?
Qualcosa, certamente, dovrà essere fatto a livello istituzionale. Non a caso nello scorso mese di ottobre il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa ha bocciato nuovamente l’Italia, responsabile di ostacolare l’accesso alla giustizia alle donne vittime di violenza. Per questo resterà sotto vigilanza rafforzata e dovrà fornire, entro il 31 marzo del 2021, le informazioni sulle misure adottate per garantire un’adeguata ed efficace valutazione del rischio che corrono le donne che denunciano violenza e dimostrare la concreta applicazione delle leggi. L’Italia è stata anche sollecitata a fare di più per la prevenzione della violenza e per garantire la presenza dei Centri antiviolenza e delle risorse a loro disposizione.
Ma un compito importante spetta a tutti noi: quello di combattere quotidianamente gli stereotipi di genere ancora così diffusi. Quelli secondo i quali un italiano su tre, anche tra i giovani, ritiene accettabile la violenza contro la donna tramite soli schiaffi, pensa che le donne che non vogliono un rapporto sessuale riescano a evitarlo e che le donne possano provocare la violenza sessuale con il loro modo di vestire. Come emerso in una audizione presso la Camera dei Deputati. Dobbiamo controbattere ogni qualvolta ci capita di ascoltare simili scempiaggini.
Analoga attenzione deve essere rivolta alla stampa. Alcuni quotidiani fanno della minimizzazione della violenza una costante editoriale. Si veda, ad esempio, l’articolo di Vittorio Feltri di ieri su Libero. Ma anche quotidiani ben più attendibili spesso si esibiscono in cadute di stile magari involontarie ma non per questo meno pericolose. Un esempio? Il Sole 24 Ore, quotidiano certamente molto serio e che oggi pubblica un ottimo servizio in tema di violenza sulle donne, l’altro giorno, nel commentare lo stupro operato da un noto imprenditore napoletano che ha fondato il famoso sito di “facile.it”, ha scritto: “Un vulcano di idee che, al momento, è stato spento” e proseguiva descrivendo i successi di studio e professionali dell’uomo accusato di aver drogato e stuprato una ragazza ad una “festa” in casa sua. Sbagliato! Avrebbe dovuto definirlo, molto più sinteticamente, un autentico stronzo consumatore abituale di droga. Punto. Bisogna dire, a onor del vero, che, di fronte alla reazione indignata di molte persone e delle stesse giornaliste del quotidiano, il Sole 24 Ore ha modificato sulla rete l’articolo e si è pubblicamente scusato. Questa è una reazione che dobbiamo avere ogni giorno: non comprare quotidiani misogini e – nel caso di incaute espressioni da parte di quelli seri – esprimere protesta e indignazione. Una piccola cosa? Non credo. Un passo importante nella lotta agli stereotipi di genere.
Molto ci sarebbe ancora da dire, ma mi sono già dilungato abbastanza. Oggi assisteremo, soprattutto sui social, a un florilegio di belle foto, di intriganti citazioni, di slogan accattivanti. Bene, ma poco. Superficialità autoassolutoria. Caliamo il nostro rifiuto nel quotidiano, nella vita di ogni giorno. Con piccoli ma importanti gesti che combattano ogni ancor minima giustificazione alla violenza.La battaglia culturale contro la violenza sessuale deve passare attraverso un’educazione alla sessualità e all’amore, per valorizzare l’incontro tra i sessi come un incontro tra differenze. Questo tipo di formazione non può prescindere da un’educazione al rispetto dell’altro, dalla convinzione che la domanda d’amore non può mai coincidere con il sopruso. La forma più alta d’amore è anche amare la differenza, di cui la donna è il simbolo.
“El padre abandonava el figliuolo, la moglie el marito, e l’uno fratello l’altro: e gnuno fugiva e abandonava l’uno, inperoché questo morbo s’attachava coll’alito e co’ la vista pareva, e così morivano, e non si trovava chi seppellisse né per denaro né per amicitia e quelli de la casa propria li portava meglio che potea a la fossa senza prete, né uffitio alcuno, né si suonava campana; e in molti luoghi in Siena si fe’ grandi fosse e cupe per la moltitudine de’ morti. E non era alcuno che piangesse alcuno morto, inperochè ognuno aspettava la morte; e morivane tanti, che ognuno credea che fusse finemondo, e non valea né medicina né altro riparo” (Agnolo di Tura del Grasso, Cronaca senese, a cura di A. Lisini e F. Iacometti, in Rerum Italicorum Scriptores, XV, VI, pp. 555-556). Siamo a Siena, nel 1348, e Agnolo di Tura del Grasso ci offre un terribile quadro della peste che imperversava. Il tratto dominante della descrizione è la paura che ha colpito tutti, come sempre è accaduto nel corso delle numerose epidemie che hanno attraversato la storia. Il terrore è spesso un male non meno grave del morbo stesso, in grado di intaccare il tessuto sociale. Anche i nostri giorni, con l’espansione della pandemia di Covid, sono caratterizzati dallo sconcerto e dall’incertezza. Al timore, ovvio, per la salute si aggiunge la nuova paura della povertà, di non poter mantenere il proprio lavoro, di veder vanificati gli sforzi di una vita. Nuova, certo, perché ai tempi della peste la povertà era la norma per la quasi totalità della popolazione. Una paura che per molti è purtroppo fondata. Un rapporto della Caritas, pubblicato pochi giorni fa in tema di povertà, ci fornisce dati inquietanti. Analizzando il periodo maggio-settembre del 2019 e confrontandolo con lo stesso periodo del 2020 emerge infatti che l’incidenza dei “nuovi poveri” passa dal 31% al 45%: quasi una persona su due che si rivolge alla Caritas lo fa per la prima volta. Aumenta in particolare il peso delle famiglie con minori, delle donne, dei giovani, dei nuclei di italiani che risultano in mag-gioranza e delle persone in età lavorativa. In uno scenario di questo tipo gli scontri tra dimostranti e polizia di queste ultime sere – ovviamente sempre da condannare – devono essere analizzati con una certa attenzione. Non trovo particolarmente preoccupante quanto accaduto a Milano e Torino, laddove non più di un centinaio di persone, equamente suddivise tra estremisti di destra e di sinistra, antagonisti dei centri sociali e ultrà del tifo hanno causato incidenti con la unanime condanna della popolazione, prontamente scesa in strada a ripulire e a sistemare. Più preoccupante quanto occorso in alcune città del sud, Napoli in primis, laddove è parso di cogliere una saldatura tra facinorosi e alcune aree, ancorché limitate, di popolazione. Il che, peraltro, pare ampiamente comprensibile. Non sempre concordo con le tesi di Roberto Saviano, anzi, ultimamente direi di rado. In questo caso ritengo tuttavia corretta la sua analisi, laddove afferma “si è scatenata la rabbia quando si è visto che i soldi mancano, i locali chiudono, il lavoro nero diventa l’unico possibile. Napoli è stato l’inizio… C’è una parte violenta che è abituata a vivere di disagio. Gli ultras, i disoccupati organizzati, gente che vuole l’obolo. Ma anche tantissime persone che sono disperate. I commercianti che hanno messo i locali a norma. I soldi che mancano sono l’ossessione”. La situazione economica, peraltro, presenta scenari foschi, che potrebbero addirittura peggiorare nel caso di ulteriori limitazioni future. Un documento dello scorso mese di luglio predisposto dalla Commissione Covid-19 della “Accademia Nazionale dei Lincei”, dopo aver rammentato che in Italia “a una lunga fase di ristagno dell’economia ha corrisposto una altrettanto lunga deriva di aumento della disuguaglianza”, prosegue ricordando che “9,8 milioni d’italiani saranno poveri assoluti (persone e famiglie che non riescono a raggiungere un livello di spesa per un minimo di vita decente). Il rapporto Istat 2020 sugli obiettivi di sviluppo sostenibile stima al 27% le persone a rischio povertà o esclusione sociale”. Questo è il rischio maggiore per il futuro: una crescita esponenziale del disagio e della povertà, in un contesto sempre più caratterizzato dalle diseguaglianze. Perché se c’è una cosa che il Covid-19 non ha fermato è la crescita della ricchezza dei pochissimi a scapito della maggioranza della popolazione. Solo negli Stati Uniti, dal 18 marzo al 15 settembre, la ricchezza di 643 persone è cresciuta complessivamente di 845 miliardi di dollari. Contemporaneamente 50 milioni di lavoratori hanno perso il lavoro. Il patrimonio personale di Jeff Bezos (Amazon) è cresciuto del 70 per cento, arrivando a 192 miliardi di dollari, quello di Bill Gates del 20 per cento, giungendo a 118 miliardi. Qualcuno dirà che è aumentata anche l’attività filantropica di questi multimiliardari. Il tema è più delicato di quanto possa sembrare in apparenza. Non è tutto oro quanto luccica! Lungi da me ogni sorta di ridicolo complottismo: lasciamo pur perdere i microchip, i controlli di massa e altre amenità. La realtà è molto più semplice e, se vogliamo, banale. Una mera questione di affari e di interesse: una generosità calcolatrice e non certo un amore per l’umanità. Pensate che gli imprenditori che hanno versato almeno un milione in attività filantropiche hanno ammassato molti più profitti dei loro pari. Grazie innanzitutto agli incentivi fiscali, molto aumentati grazie a Trump. In sostanza la beneficenza viene fatta con fondi sottratti allo Stato, con un minor controllo democratico sull’utilizzo degli stessi. Ma certamente con la creazione di nuovi mercati nei quali i beneficiati, riconoscenti, divengano fedeli consumatori. Il tema sarebbe lungo da affrontare e meriterebbe di essere descritto nella sua interezza. Per ora suggerisco a chi fosse interessato la lettura del libro di Nicoletta Dentico “Ricchi e buoni? Le trame oscure del turbocapitalismo”, pubblicato dalla casa editrice cattolica EMI – Editrice Missionaria Italiana. Tornando al nostro Paese appare chiaro che un futuro così complesso sia meritevole di una politica adeguata e di un progetto all’altezza. Di un senso di unitarietà nell’ambito di un disegno globale. Con una maggioranza meno incline ai bisticci e una opposizione che non si perda in banali e contraddittorie contrapposizioni fittizie e meramente strumentali. Con le Regioni che sappiano essere ancillari a un progetto di respiro nazionale e non già laboratori di inefficienza o teatrini per Presidenti da operetta. La posta in gioco è – mai come questa volta – fondamentale. Dagli indirizzi che verranno presi dipende il riassetto del Paese. Non solo per evitare l’insorgere di scontri sociali dagli esiti incerti, ma per garantire ai giovani un futuro in un’Italia credibile e non devastata dai debiti. In gioco, lasciatemi dire, vi è la sopravvivenza della stessa democrazia. Uno studio pubblicato dall’Università di Cambridge nel gennaio di quest’anno (prima della pandemia) ha mostrato che nei paesi sviluppati coloro che si dichiarano insoddisfatti del sistema democratico sono ormai in maggioranza, il 57%. Percentuale che sale ancora prendendo in considerazione la fascia dei cosiddetti “millennial”, ossia i nati tra il 1981 e il 1996. Capite quindi l’importanza delle scelte da compiere. Occorre una progettualità che sappia coniugare gli irrinunciabili principi del pensiero liberale e dei diritti individuali – dei quali mai come ora percepiamo la vitale importanza – con le necessarie spinte di eguaglianza e di giustizia. Quello che potremmo definire un pensiero liberal-socialista, una scuola che in Italia è sempre stata, purtroppo, esigua minoranza. Vorrei chiudere con una citazione di Valdo Spini che può essere spunto per i giorni a venire: “L’esigenza di una politica socialista -liberale si ripresenta oggi in tutta evidenza proprio con la crisi dell’epidemia… La crisi costringe al non lavoro masse molto ingenti di persone e punisce in particolare i lavoratori autonomi, i precari, i lavoratori in nero. Crea nuove povertà che si affiancano alle vecchie. Un tempo la protezione sociale si esercitava nei confronti dei lavoratori, oggi si deve estendere a chi non ha lavoro” (Valdo Spini – Attualità del socialismo liberale – Quaderni del Circolo Rosselli 2/2020).
Il Trionfo della Morte, Pieter Brueghel il Vecchio, 1562