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Eppure…

“Tutti gli anni sono stupidi. È una volta passati, che diventano interessanti”. Così diceva Cesare Pavese.
Questa massima, talora veritiera in passato, si palesa del tutto fuori luogo nelle attuali circostanze.
Gli ultimi due anni, lungi dall’apparire interessanti, si sono mostrati dolorosi, angoscianti e faticosi.
Ci hanno introdotto in una nuova dimensione, in una modalità di vita sin qui sconosciuta.
Ci è parso di avviarci verso un cupo Ragnarök, popolati di forze ataviche in preda a cieca furia.
Una pandemia, che sino a due anni fa sarebbe stata la trama di un b-movie, ha sconvolto il mondo con il suo sudario di morte e paura.
Gli oltre 144 mila contagi registrati oggi, ancorché mitigati da una diminuita letalità legata alla preziosa campagna vaccinale, ci rammentano che siamo ancora lontani dalla auspicata conclusione.
In molti hanno perso i loro cari e tutti siamo stati toccati dal dolore.
Abbiamo compreso come d’ora in poi il mondo non sarà più lo stesso e come il nostro stesso stile di vita diverrà inevitabilmente diverso.
La retorica pilotata e un po’ patetica dei primi giorni, con i suoi cori dai balconi, ci ha raccontato che ne saremmo usciti migliori. Così non è stato, ovviamente.
Ho talora la convinzione che questo periodo abbia, al contrario, evocato il peggio che è in noi.
L’egoismo più becero si è accompagnato al più esasperato individualismo in una pessima cacofonia morale. L’ignoranza ha urlato, l’insipienza si è fatta spettacolo e il livore è divenuto ordinario.
Vittima, come sempre, la ragione.
Eppure…
Ebbene sì, c’è un eppure.
Nonostante questo scenario il nostro Paese ha anche motivi di sussurrato orgoglio.
La reazione alla pandemia, con una organizzazione nella gestione dei vaccini che, a parte una minoranza di no vax a cui è stato dato anche troppo spazio mediatico, ci ha fatto diventare un modello a livello globale. Per la Germania, come ha riconosciuto Angela Merkel nel suo addio alla politica, e per tanti altri Paesi, tra cui gli Stati Uniti, dove la gestione pandemica è stata fallimentare.
Una ripresa economica in cui eravamo i primi a non credere.
Una credibilità internazionale di governo dopo anni di facili bisbigli contro di noi.
E’ significativo il fatto che il settimanale “The Economist” abbia nominato l’Italia il Paese dell’anno.
Un dettaglio: lunedì a New York – mentre la curva dei contagi spaventava i mercati – Zegna, con lo sbarco a Wall Street, convinceva il mondo. Lo stesso giorno, a pochi chilometri dalla Borsa americana, una biotech italiana, Genenta Science, chiudeva le contrattazioni al Nasdaq con la cerimonia della campanella. Prima quotazione di una start up italiana al listino tecnologico newyorkese. Due realtà che hanno entusiasmato gli Stati Uniti. E che forse ci rappresentano molto più di quanto riusciamo a percepire.
Dobbiamo partire da questo per costruire il futuro.
Accompagnando tuttavia una eccellenza sistemica con una nuova etica diffusa.
Ritrovando a livello individuale valori che si impongano sulla sbandierata povertà morale che ha reso irrespirabile l’aria del nostro quotidiano.
Costruendo una nuova educazione, etica e civica, che sappia vincere la volgarità e sconfigga il latrato insopportabile di un ormai tracotante egocentrismo.
Affidandoci al dono del dubbio e abbracciando la ragione che – come amava dire Norberto Bobbio – non è un lume ma soltanto un lumicino. Unico strumento, tuttavia, per procedere in mezzo alle tenebre.
Così sarà possibile ritrovare la sobrietà di pensiero, opposta alle grida stridule delle paure scomposte, e superare il penoso riflettersi soltanto nei propri bisogni.
Abbiate un barlume di fiducia. Non nella natura, che è dolce e affettuosa solo nei film di Disney. Non nell’indole umana, capace dell’egoismo più atroce.
Ma in un oscuro disegno tracciato per ciascuno di noi e che sapremo cogliere nel silenzio, assecondandone il respiro.
Lo comprenderemo strada facendo, amando e proteggendo.
Lo vivremo ogni giorno facendo nostro il pensiero stoico di Lucio Anneo Seneca, secondo cui ogni giorno è l’inizio di un nuovo anno, da propiziare con buoni pensieri che liberano l’animo dalle meschinità.
E allora, di nuovo, ci scopriremo a sorridere. Perché la fine, a volte, sa farsi migliore inizio.
Buon anno.

Auguste Renoir – Dance at Le Moulin de la Galette – Musée d’Orsay
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La festa di tutti gli italiani

25 aprile.
Una data fondamentale per il nostro Paese.
Non solo per “qualcuno”, non per “una parte” dell’Italia. Ma una festa di tutti gli italiani, nessuno escluso; qualunque siano le proprie convinzioni.
In questo giorno non si festeggia una vittoria militare: la guerra, in Italia, terminò infatti il 3 maggio. Si festeggia una riscossa civile. Come disse Piero Calamandrei “il carattere che distingue la Resistenza da tutte le altre guerre, anche da quelle fatte da volontari, anche dall’epoca garibaldina, è stato quello di essere più che un movimento militare, un movimento civile”.
Troppo spesso, infatti, rammentiamo la Resistenza armata a scapito di quella “disarmata”, disconoscendo la dignità, la forza, la caparbietà di tanti “civili” – in gran parte donne, vecchi e bambini – che dall’entrata in guerra dell’Italia fino alla Liberazione dovettero convivere con la disoccupazione e la fame mai saziata dai razionamenti. Furono eroiche soprattutto le donne che per tanti mesi lavorarono per un salario di fame, fecero lunghe ed estenuanti code per comprare qualcosa per i propri figli a casa, sempre con la paura del successivo bombardamento notturno e con il pensiero costante al figlio o al marito in qualche lontano fronte di guerra.
Il 25 aprile si ricorda la vittoria della democrazia sull’oppressione, della dignità umana contro la barbarie della guerra, dell’occupazione e dell’odio.
Lasciatemi usare le parole di Norberto Bobbio: “eravamo ridiventati uomini con un volto solo e un’anima sola. Eravamo di nuovo completamente noi stessi. Ci sentivamo di nuovo uomini civili. Da oppressi eravamo ridiventati uomini liberi. Quel giorno, o amici, abbiamo vissuto una tra le esperienze più belle che all’uomo sia dato di provare: il miracolo della libertà”.
La libertà. Ecco il valore prezioso per tutti gli italiani che si festeggia il 25 aprile!
Per questo il significato di questa ricorrenza è oggi così attuale. Perché le vittorie sbiadiscono, i successi militari si appannano. Ma la libertà è il respiro più vero della civiltà.
Non dobbiamo imbalsamare questa Festa riferendola a un preciso momento storico. Guai a cadere nella trappola della memoria fine a se stessa, della retorica scontata.
Dobbiamo fare del 25 aprile un fondamento sul quale costruire una società rinnovata, nella quale i popoli non si debbano mai più chiudere in una belligerante autarchia, ma abbiano in sé il respiro dell’universalità e della ormai inevitabile interconnessione globale. Un mondo nel quale il concetto ottocentesco di “indipendenza” si schiuda al nuovo valore dell’interdipendenza. Questa è la parola nuova in cui, se non si vuole che il domani ripeta e aggravi gli orrori di ieri, si dovrà riassumere il nuovo senso della libertà, quello da cui potrà nascere un avvenire diverso dal passato: una libertà che unisca gli individui e i popoli, che scandisca la loro dipendenza scambievole; che rivendichi una giustizia da difendere prima negli altri che in noi.
Senza giustizia la libertà è mutilata, ma senza libertà la giustizia è vuoto egualitarismo tirannico.
Resistere non è un grido contro qualcuno. È chiedere unità. È ricominciare la speranza.
Se faremo nostro questo pensiero il 25 aprile non sarà più soltanto rievocazione, ma fertile base verso rinnovati orizzonti.
Sarà, come deve essere e come è, la festa di tutti gli italiani. Nessuno escluso.
Buon 25 aprile!