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Buon compleanno Anna!

12 giugno. Anche quest’anno vorrei ricordare il tuo compleanno.
Quello di una bambina che non è mai potuta crescere, che non ha conosciuto la pienezza della maturità, che non ha avuto la ventura di sperimentare lo scorrere del tempo che graffia il corpo con i sospiri della vecchiaia.
Dei tuoi pochi compleanni Anna, perché così ti chiamavi, ve n’è uno speciale: quello del 1942, ottant’anni fa.
Era un venerdì, e ti trovavi ad Amsterdam. Mi piace pensare che vi fosse un tiepido sole ad accarezzare il respiro dell’estate che si affacciava timida alle porte del cielo. Anche in Olanda, dove i papaveri si inchinano lieti al vento che sfiora i campi con leggera tenerezza.
Quel giorno compivi tredici anni.
Tra i tanti doni hai ricevuto un diario, con la copertina a quadretti rossi. Per te era il regalo più bello, perché amavi scrivere parole che disegnavano emozioni in un ordito sapiente. Dicevi che “la carta è più paziente degli uomini”. Non immaginavi allora – e come avresti potuto? – che le tue pagine, un giorno, sarebbero divenute famose, lette da donne e uomini di ogni tempo e di ogni Paese.
Due giorni dopo il tuo compleanno hai inaugurato il nuovo diario con queste parole:
“Venerdì 12 giugno ero già sveglia alle sei: si capisce, era il mio compleanno! Ma alle sei non mi era consentito d’alzarmi, e così dovetti frenare la mia curiosità fino alle sei e tre quarti. Allora non potei più tenermi e andai in camera da pranzo, dove Moortje, il gatto, mi diede il benvenuto strusciandomi addosso la testolina. Subito dopo le sette andai da papà e mamma e poi nel salotto per spacchettare i miei regalucci. Il primo che mi apparve fosti tu, forse uno dei più belli fra i miei doni. Poi un mazzo di rose, una piantina, due rami di peonie; altri ancora ne giunsero durante il giorno. Da papà e mamma ebbi una quantità di cose, e anche i nostri numerosi conoscenti mi hanno veramente viziata. Fra l’altro ricevetti un gioco di società, molte ghiottonerie, cioccolata, un puzzle, una spilla, la Camera oscura, le Saghe e leggende olandesi di Joseph Cohen e un po’ di denaro, così che mi potrò comprare i Miti di Grecia e di Roma. Che bellezza!”
Come tutte le ragazze, desideravi un’amica del cuore, a cui confidare i tuoi innocenti segreti. Hai scritto sul diario qualche giorno dopo:
“Ho dei cari genitori e una sorella di sedici anni; conosco, tutto sommato, una trentina di ragazze di alcune delle quali potreste dire che sono mie amiche. Ho dei parenti, care zie e cari zii, un buon ambiente familiare; no, apparentemente non mi manca nulla, salvo l’amica. Con nessuno dei miei conoscenti posso far altro che chiacchiere, né parlar d’altro che dei piccoli fatti quotidiani. Non c’è modo di diventare più intimi, ecco il punto. Forse questa mancanza di confidenza è colpa mia; comunque è una realtà, ed è un peccato non poterci far nulla. Perciò questo diario. Allo scopo di dar maggior rilievo nella mia fantasia all’idea di un’amica lungamente attesa, non mi limiterò a scrivere i fatti del diario, come farebbe qualunque altro, ma farò del diario l’amica, e l’amica si chiamerà Kitty”.
Il mondo era difficile in quegli anni. C’era la guerra. E il nazismo. Le truppe tedesche avevano invaso l’Olanda. Eri ebrea. Purtroppo, per i nazisti, era maledettamente importante. Sai, Anna, sembra incredibile ma per troppi lo è ancora oggi!
Per sfuggire ai soldati sei stata costretta a nasconderti, con i tuoi genitori e un’altra famiglia, in due locali sopra gli uffici di una azienda. L’alloggio segreto, come lo chiamavi.
Hai trascorso due anni in quegli angusti locali, senza mai uscire neppure una volta.
Detestavi la matematica, la geometria e l’algebra, mentre adoravi la storia e le materie letterarie. Ti piaceva tanto la mitologia greca e romana e la storia dell’arte.
A Natale del 1943 hai scritto sul diario:
“Cara Kitty, credimi, quando sei stata rinchiusa per un anno e mezzo, ti capitano dei giorni in cui non ne puoi più. Sarò forse ingiusta e ingrata, ma i sentimenti non si possono reprimere. Vorrei andare in bicicletta, ballare, fischiettare, guardare il mondo, sentirmi giovane, sapere che sono libera, eppure non devo farlo notare perché, pensa un po’, se tutti e otto ci mettessimo a lagnarci e a far la faccia scontenta, dove andremo a finire? A volte mi domando: «Che non ci sia nessuno capace di comprendere che, ebrea o non ebrea, io sono soltanto una ragazzina con un gran bisogno di divertirmi e di stare allegra?»”.
Un giorno un infame, mai identificato, ha segnalato l’alloggio segreto alla Gestapo. Il 4 agosto 1944 le Schutzstaffel – le SS – hanno fatto irruzione nei locali e vi hanno condotto tutti al campo di smistamento di Westerbork. Il 2 settembre foste deportati ad Auschwitz.
Dopo un mese sei stata trasferita con tua sorella Margot a Bergen-Belsen, un campo di concentramento nella bassa Sassonia.
Nel marzo del 1945, neppure conosciamo il giorno preciso, ti sei ammalata di tifo, per le terribili condizioni di vita nel lager
Sei morta a 15 anni e gettata in una fossa comune.
Alla fine della guerra fu ritrovato, nell’alloggio segreto, il tuo diario con le tue ultime parole:
“È un gran miracolo che io non abbia rinunciato a tutte le mie speranze perché esse sembrano assurde e inattuabili. Le conservo ancora, nonostante tutto, perché continuo a credere nell’intima bontà dell’uomo. Mi è impossibile costruire tutto sulla base della morte, della miseria, della confusione. Vedo il mondo mutarsi lentamente in un deserto, odo sempre più forte l’avvicinarsi del rombo che ucciderà noi pure, partecipo al dolore di milioni di uomini, eppure, quando guardo il cielo, penso che tutto volgerà nuovamente al bene, che anche questa spietata durezza cesserà, che ritorneranno l’ordine, la pace e la serenità. Intanto debbo conservare intatti i miei ideali; verrà un tempo in cui forse saranno ancora attuabili”.
Che sia così, lo speriamo anche noi.
Buon compleanno Anna Frank.

Foto Città Nuova Editrice
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10 maggio 1933: il rogo di Opernplatz

10 maggio 1933. Una data da non dimenticare.
Quella sera, a Berlino, nella piazza del Teatro dell’Opera, la “Opernplatz”, i nazisti organizzarono un gigantesco rogo nel quale bruciarono oltre 25.000 libri.
Altri analoghi eventi si svolsero in numerose città tedesche, ma quello di Berlino fu il più grande, poiché doveva essere un esempio per l’intero Reich. Una cerimonia sontuosa, con una coreografia quasi liturgica. Si prestò attenzione agli aspetti scenografici, alle musiche, ai canti. I libri da bruciare furono accompagnati al fuoco da una marcia alla quale presero parte i professori in toga, gli studenti e i soldati delle SA e delle SS. Una lugubre processione, una celebrazione del più becero oscurantismo.
La Germania hitleriana, dopo quella sera, divenne un deserto culturale. I pochissimi intellettuali che non espatriarono, come il filosofo Martin Heidegger, dovettero rassegnarsi al silenzio. Ma la gran pare di loro abbandonò il Paese.
Con i roghi di maggio Goebbels, da poco nominato ministro della propaganda, lanciò la sua campagna contro i libri “non tedeschi” e contro la cosiddetta “arte degenerata”. Fu l’avvio dell’imbarbarimento della vita culturale tedesca dopo l’avvento del regime nazista. L’intento dichiarato era quello di cancellare qualunque testimonianza degli intellettuali che nel XIX e XX secolo avevano dato sviluppo alla moderna cultura europea.
Durante il rogo Goebbels declamò alla folla isterica parole tragiche e ridicole al tempo stesso: “L’era dell’esagerato intellettualismo ebraico è giunto alla fine. Il trionfo della rivoluzione tedesca ha chiarito quale sia la strada della Germania e il futuro uomo tedesco non sarà un uomo di libri, ma piuttosto un uomo di carattere ed è in tale prospettiva e con tale scopo che vogliamo educarvi… pertanto fate bene, in quest’ora solenne, a gettare nelle fiamme la spazzatura intellettuale del passato”.
Nei roghi finirono migliaia di opere letterarie e artistiche di autori che, secondo il nazismo, avevano “corrotto” e “giudaizzato” una presunta “cultura tedesca” pura: gli scrittori Thomas Mann, Heinrich Mann, Bertolt Brecht e Joseph Roth. I filosofi Theodor W. Adorno, Herbert Marcuse ed Ernst Bloch. L’architetto Walter Gropius. I pittori Paul Klee, Wassili Kandinsky e Piet Mondrian. Gli scienziati Albert Einstein e Sigmund Freud. I musicisti Arnold Schönberg e Alban Berg. I registi cinematografici Georg Pabst, Fritz Lang e Franz Murnau. Insieme a centinaia di altri artisti e pensatori che avevano gettato le basi intellettuali dell’intera cultura del Novecento.
Era infatti la cultura occidentale quella che bruciava in quei roghi, in un’Europa divenuta impotente a difendere le sue opere e, negli anni successivi, i suoi cittadini.
Come si giunse a una simile declamazione di odio verso la cultura?
La principale ragione, come spesso accade, è da ricercarsi nell’economia, più precisamente nella grave crisi economica che aveva investito la Germania negli anni successivi alla conclusione della Prima Guerra Mondiale.
L’intero mondo si trovò in grave difficoltà alla fine degli anni ’20 del secolo scorso: un periodo culminato nel celebre “giovedì nero”, il 24 ottobre 1929, con il crollo della Borsa di Wall Street.
In Germania la debole Repubblica di Weimar attuò politiche deflazionistiche che portarono ad un aumento indiscriminato delle imposte e ad un aumento incredibile degli interessi. L’economia del paese andò al collasso. Il nazismo, una volta conquistato il potere sfruttando il malcontento dilagante, attuò una politica economica basata su di un forte incremento di spesa pubblica e su politiche monetarie espansive, ottenendo l’entusiastico e fanatico consenso di milioni di tedeschi. Hitler capì che l’utilizzo di strumenti tipicamente keynesiani, apparentemente paradossali per la sua visione, avrebbe determinato una crescita nel breve periodo e un forte consenso sociale. Un consenso che sarebbe aumentato se si fossero “divise” tra loro le persone più svantaggiate, creando miti e pericoli, veri o presunti, capaci di far sorgere nemici comuni ai quali attribuire ogni nefandezza possibile e dando vita a un clima di egoismo, di odio, di chiusura mentale e morale.
Odio ed egoismo: ecco l’humus ideale per cementare un consenso patologico.
Perché colpire i libri e la cultura?
Perché la cultura, e con essa i libri che la nutrono, rappresentano un’oasi di dubbio, il respiro del nuovo, una fonte di civiltà e tolleranza.
I libri sono i silos nei quali custodire le idee che possono germogliare e attecchire nella coscienza e nell’intelligenza degli esseri umani. Da loro fiorisce il senso critico e lo spirito di libertà, che è l’impulso creatore dell’intelligenza. I libri rendono fertile la ragione che, come diceva Norberto Bobbio, sarà solo un lumicino, ma è tutto quanto abbiamo per procedere nelle tenebre da cui siamo venuti alle tenebre verso le quali andiamo. Ecco perché la cultura è sempre considerata pericolosa da parte dei tiranni e dei demagoghi di ogni genere.
L’avversione verso la cultura è un denominatore comune per i regimi autoritari. Non a caso analoghe politiche di repressione culturale furono applicate dal regime staliniano nei decenni successivi. O dal regime dei khmer rossi di Pol Pot in Cambogia, dove i primi tra i milioni di cittadini sterminati furono proprio gli intellettuali, considerati parassiti irrimediabilmente contaminati dalla vecchia cultura e potenziali controrivoluzionari. Bastava possedere libri, oppure il semplice fatto di portare gli occhiali, per essere etichettati come insegnanti o studiosi e quindi essere fucilati. Oggi, non a caso, assistiamo ad analoghi atteggiamenti nella Turchia di Erdogan, dopo averli visti applicati dai terroristi dell’ISIS che, anch’essi, bruciavano libri e monumenti della cultura.
Dobbiamo ricordare tutto questo, in quanto viviamo giorni di profonda crisi economica, di diffuso impoverimento. Un periodo nel quale una insidiosa cultura dell’odio si diffonde nel mondo, ammorbando il comune sentire e coinvolgendo ogni dibattito, che diviene manifestazione di rancorosa polemica, complice anche una classe politica del tutto inadeguata e intenta solo a cavalcare un presunto consenso fatto di astiosa contrapposizione.
Un terreno propizio a tutti coloro che vogliono attaccare la democrazia e la libertà di pensiero e di critica, additando soluzioni semplicistiche.
Non dobbiamo delegare fiducia a boriosi capipopolo, né a presuntuosi soloni, latori di una verità specchio di narcisismo.
Bertrand de Saint-Vincent, in un suo editoriale sul quotidiano parigino “Le Figaro”, ha definito la cultura come “quel nutrimento per l’anima che la pandemia non deve cancellare”.
Sono d’accordo con lui, perché la prospettiva di essere lasciati, in futuro, senza cibo per la mente pare un incubo. Anche se, a qualcuno, potrà apparire un sogno.

Foto: Biblioteca del Tempo