cultura · politica · società

Paolo Borsellino è vivo

19 luglio 1992.
Una data scolpita in modo indelebile nella storia del nostro Paese.
Quel giorno, a Palermo, in via d’Amelio, l’esplosione di una Fiat 126 imbottita con oltre cento chilogrammi di tritolo uccise il giudice Paolo Borsellino e gli agenti di scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cusina, e Claudio Traina.
Era domenica. Il magistrato aveva trascorso alcune ore al mare con la moglie Agnese. Alle 16,30, con la sua immancabile borsa di pelle contenente anche la celeberrima agenda rossa mai più ritrovata, il magistrato salutò i suoi cari per andare a trovare la madre.
Alle 16 e 58 minuti, mentre Borsellino aveva appena suonato al citofono della mamma in via d’Amelio, l’autobomba esplose.
Alle 17,16 il primo lancio dell’agenzia ANSA. Solo dopo le 18 arriverà la conferma della morte di Borsellino.
Il quale, peraltro, aveva sollecitato la questura da oltre venti giorni affinché provvedesse alla rimozione delle auto in sosta dalla zona antistante l’abitazione della madre. Ma la sua richiesta non fu presa in considerazione.
Quel 19 luglio rappresentò un vulnus terribile alla credibilità dello Stato. Le generazioni che si affacciavano allora alla vita, ma non solo loro, videro annichilita quella fiducia nelle istituzioni che la scuola, la televisione e, per i più fortunati, la famiglia avevano provato a inculcare.
A noi pare impossibile, ma anche prima delle stragi del novantadue i magistrati Falcone e Borsellino erano stati vittime di veleni, sospetti e maldicenze tali da alimentare l’intreccio che portò alla loro fine. Vennero accusati di protagonismo, vanità, scarso senso dello stato. Anche da persone insospettabili, quali Leonardo Sciascia e Leoluca Orlando. Borsellino, non a caso, affermò che Falcone iniziò a morire dopo l’articolo di Sciascia sui “professionisti dell’antimafia”.
Nel dicembre 1987, alla chiusura del maxi-processo contro Cosa Nostra che portò a 360 condanne, il clima intorno ai magistrati si fece pesante. Il ministro della Giustizia dell’epoca, Giuliano Vassalli, il 19 gennaio 1988, nominò Antonino Meli capo dell’Ufficio istruzione di Palermo, ignorando la candidatura di Falcone.
Meli cominciò subito ad assegnare a magistrati esterni al pool le inchieste di mafia, e sul tavolo di Falcone e dei suoi colleghi piovvero invece indagini per borseggi, scippi, assegni a vuoto. Borsellino parlò allora di grandi manovre per smantellare il pool antimafia.
Fu così che si giunse alle stragi di Capaci e di via Amelio del 1992.
Ormai tutti a Palermo sapevano che Paolo Borsellino sarebbe stato ucciso: i palermitani ne chiacchieravano liberamente nei bar. Lo sapeva anche Paolo Borsellino che aveva intuito il senso di tutta l’operazione stragista, ordita da qualcuno un po’ più raffinato e intelligente di Totò Riina. Un’operazione solamente appaltata ai macellai di Cosa nostra.
La sua, come hanno raccontato alcuni pentiti, era una morte programmata da tempo, ma anticipata con una incredibile premura.
Borsellino era perfettamente consapevole di andare incontro alla morte.
Il 13 luglio, sconsolato, affermò di aver appreso dell’arrivo del tritolo a lui destinato. Il 17, due giorni prima della morte, salutò singolarmente i colleghi, abbracciandoli. Quindi chiamò l’amico don Cesare Rattoballi e chiese di confessarsi, convinto che il suo momento stesse arrivando.
La decisione di uccidere Borsellino, come detto, fu “accelerata” da personaggi esterni alla mafia. Del resto, come affermato dal Procuratore di Palermo Francesco Lo Voi, la mafia uccide raramente solo per vendetta. Borsellino, che lo aveva capito, disse a sua moglie che sarebbe stata la mafia a ucciderlo, ma quando altri lo avessero deciso. Lo stesso Riina, intercettato durante un’ora d’aria mentre era detenuto, raccontò a un altro detenuto mafioso che l’omicidio del magistrato fu una cosa decisa alla giornata, perché arrivò “quello” e disse di farlo subito. Chi era “quello”? Uno dei tanti misteri della storia italiana, uno dei più inquietanti.
Oggi molto è cambiato nel volto delle mafie e dei metodi dalle stesse utilizzati.
Secondo l’art. 416bis del Codice penale, la mafia si configura innanzitutto come una forma di criminalità organizzata, segreta, composta di persone, dotata di armi, di eserciti privati e di capitali. Ma le mafie sono anche imprese che possono gestire appalti, servizi e forniture. Sono inoltre delle banche: in un momento in cui a molti i soldi mancano, i mafiosi li hanno e li danno a chi ne ha bisogno e non li trova nel circuito economico legale; si fanno soci di imprenditori che diventano così complici e conniventi con le organizzazioni mafiose. Infine, le mafie possono influenzare il voto, in maniera diretta o indiretta, per ottenere benefici ai loro traffici.
E’ vero che oggi le mafie hanno ridotto la violenza, anche perché ciò che è successo in Sicilia negli anni Novanta – con lo scontro frontale fra Cosa Nostra gestita dai Corleonesi di Riina e lo Stato – ha portato alla sconfitta di quel pezzo di Cosa Nostra: sono stati tutti arrestati, sono morti in carcere, gli hanno portato via buona parte dei loro beni. Oggi la mafia si presenta soprattutto col volto dell’impresa e agisce nei mercati.
In Italia le operazioni finanziarie sospette, di cui periodicamente ci informa la Banca d’Italia, sono in sensibile aumento. Questo indicatore ci dice che la mafia va dove si possono fare affari, dove il denaro circola. Quando i mafiosi arrivano in un mercato, e quindi in un territorio, il loro obiettivo è di monopolizzarlo, di farla da padroni e non di mettersi in un’ottica concorrenziale.
Si rileva inoltre che oggi la mafia dominante non è più Cosa Nostra, bensì la ‘ndrangheta.
Quest’ultima risulta oggi l’associazione mafiosa italiana più pericolosa, caratterizzata da un profondo radicamento, potenza finanziaria e capacità di essere anti-Stato senza sfidarlo apertamente, ma infiltrandosi nei suoi gangli vitali” grazie ad un “rapporto con gli uomini delle istituzioni decisamente meno conflittuale rispetto alla mafia. La forza della ‘ndrangheta risiede soprattutto nella sua struttura familiare, nei legami di sangue che assicurano la continuità delle cosche e l’assenza fino a tempi recenti di casi significativi di collaboratori di giustizia, nonché nel forte consenso nei territori di origine, dove è fortemente radicata.
Va anche notato che Cosa nostra non rappresenta l’unica matrice criminale di tipo mafioso operante nella Sicilia. La DIA, Direzione Investigativa Antimafia, ha recentemente osservato in uno studio che se nel versante occidentale Cosa Nostra conserva un’immutata egemonia, benché si registri la presenza molto attiva di gruppi criminali di etnia nigeriana operanti soprattutto nel capoluogo, nell’area orientale sono invece tuttora attive compagini storicamente radicate, quali la ”stidda’,’ e altre numerose organizzazioni mafiose non inquadrabili nella struttura di Cosa Nostra. Anche in questo quadrante, inoltre, la mafia nigeriana è ben radicata e particolarmente attiva in diversi settori criminali.
Meno morti non significa minor pericolo, anzi!
Le stragi e gli omicidi accendono i riflettori, suscitano sdegno, invocano indagini e punizioni. Operare nei mercati, esercitare corruzione (attività tipicamente italica anche al di fuori del contesto mafioso), condizionare l’impresa è muoversi sottotraccia, in modo sfuggente, suscitando un minor allarme sociale. E’ attività che sconfina nell’indifferenza dei più.
Le mafie rappresentano una grande holding finanziaria, in grado di operare, seppur in misura differente, sull’intero territorio nazionale e nella quasi totalità dei settori economici e finanziari del Sistema Paese, con un giro d’affari complessivo stimato dall’Eurispes in circa 220 miliardi di euro l’anno. La stessa cifra del tanto richiamato Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza dell’Italia.
Ma non dobbiamo arrenderci.
Non dobbiamo dimenticare che la mafia è anche un modo di pensare e di comportarsi che si fonda sul privilegio e sul favore piuttosto che sul diritto, sull’omertà piuttosto che sulla trasparenza, sull’avere piuttosto che sull’essere. Una delle forze storiche delle mafie è il consenso sociale, un’altra è l’indifferenza. È importante vedere le mafie non solo nell’ambito delle leggi del Codice penale o civile. Le mafie sono una grande questione culturale, politica, economica. Non possiamo delegare questa battaglia solo alle forze di polizia e alla magistratura, agli organi di controllo. Loro devono fare la loro parte, e la fanno anche bene. Dobbiamo però considerare un principio base: la mafia è una forma di criminalità organizzata. Se vogliamo prevenirla, oltre che contrastarla e sconfiggerla, dobbiamo essere organizzati anche noi.
Inoltre non si deve pensare che la mafia sia un affare italiano. Abbiamo avuto arresti e stragi mafiose in Germania, Olanda, Spagna, Francia, repubbliche dell’Est; sono chiari segni che la mafia è già in Europa, oltre che in altre nazioni del mondo. È una realtà da non sottovalutare.
Possiamo fare tutte le leggi che vogliamo, ma i principi e la responsabilità le persone devono sentirli dentro di sé. Tutto ciò si coltiva con l’educazione e la formazione, che scacciano l’indifferenza.
Dobbiamo credere, così come credeva lo stesso Borsellino, che la lotta alla mafia deve essere un movimento culturale e morale, in grado di coinvolgere tutti, specialmente le giovani generazioni, le più pronte a rifiutare il puzzo del compromesso morale e dell’indifferenza.
Le battaglie in cui si crede non sono mai perse.
Per questo, ancora oggi, Paolo Borsellino è vivo tra noi.

Foto Corriere della Sera

cultura · politica · società

Paolo Borsellino: trant’anni con noi.

Vi sono date scolpite in modo indelebile nella storia del nostro Paese.
Una di questa è il 19 luglio 1992, esattamente trent’anni fa.
Quel giorno, a Palermo, in via d’Amelio, l’esplosione di una Fiat 126 imbottita con oltre cento chilogrammi di tritolo uccise il giudice Paolo Borsellino e gli agenti di scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cusina, e Claudio Traina.
Era domenica e Borsellino aveva trascorso alcune ore al mare con la moglie Agnese, nella villetta di Villagrazia. Alle 16,30, con la sua immancabile borsa di pelle contenente anche la celeberrima agenda rossa mai più ritrovata, il magistrato salutò la Agnese e il figlio Manfredi per andare a trovare la madre.
Alle 16 e 58 minuti, mentre Borsellino aveva appena suonato al citofono della mamma in via d’Amelio, l’autobomba esplose.
Da oltre venti giorni il magistrato, quasi avesse un presentimento, aveva sollecitato la questura affinché provvedesse alla rimozione delle auto in sosta dalla zona antistante l’abitazione della madre. La sua richiesta non fu presa in considerazione e fu proprio una vettura posteggiata a provocare la strage.
Nei giorni che precedettero la strage Borsellino aveva osservato come tanta gente andasse da lui a porgere le condoglianze per la morte di Giovanni Falcone, ucciso cinquantasette giorni prima, ricavandone tuttavia la sensazione che vedessero in lui la prossima vittima.
Quel 19 luglio rappresentò un vulnus terribile alla credibilità dello Stato. Le generazioni che si affacciavano allora alla vita, ma non solo loro, videro annichilita quella fiducia nelle istituzioni che la scuola, la televisione e, per i più fortunati, la famiglia avevano provato a inculcare.
Noi oggi consideriamo “eroi” i giudici Falcone e Borsellino, ma non possiamo scordare che tali divennero soltanto dopo la loro morte. In vita erano stati vittime di veleni, sospetti e maldicenze tali da alimentare l’intreccio che portò alla loro fine. Vennero accusati di protagonismo, vanità, scarso senso dello stato. Anche da persone insospettabili, quali Leonardo Sciascia e Leoluca Orlando. Borsellino, non a caso, affermò che Falcone iniziò a morire dopo l’articolo di Sciascia sui “professionisti dell’antimafia”.
Nel dicembre 1987, alla chiusura del maxi-processo contro Cosa Nostra che portò a 360 condanne, il clima intorno ai magistrati divenne pesante. Il nuovo ministro della Giustizia Giuliano Vassalli, il 19 gennaio 1988, nominò Antonino Meli capo dell’Ufficio istruzione di Palermo, ignorando la candidatura di Falcone.
Meli cominciò subito ad assegnare a magistrati esterni al pool le inchieste di mafia, e sul tavolo di Falcone e dei suoi colleghi piovvero invece indagini per borseggi, scippi, assegni a vuoto. Borsellino parlò allora di grandi manovre per smantellare il pool antimafia.
Fu così che si giunse alle stragi di Capaci e di via Amelio del 1992.
In quel mese di luglio tutti a Palermo sapevano che Paolo Borsellino sarebbe stato ucciso. Lo sapevamo i giornalisti che frequentavano il ‘Palazzaccio’, lo sapevano i palermitani che ne chiacchieravano liberamente nei bar. Lo sapeva anche Paolo Borsellino che ne parlò apertamente. Il magistrato aveva fatto intendere di “aver compreso”. Certo non aveva in tasca nomi e cognomi delle menti criminali coinvolte, ma aveva intuito il senso di tutta l’operazione stragista, ordita da qualcuno un po’ più raffinato e intelligente di Totò Riina e solamente appaltata ai macellai di Cosa nostra.
La sua, come hanno raccontato alcuni pentiti, era una morte programmata da tempo, ma anticipata con una incredibile premura. I pubblici ministeri che indagarono sulla sua morte scrissero che la tempistica della strage fu certamente influenzata dall’esistenza e dall’evoluzione della cosiddetta trattativa tra uomini delle istituzioni e Cosa Nostra.
Borsellino era perfettamente consapevole di andare incontro alla morte.
Il 13 luglio, sconsolato, affermò di aver appreso dell’arrivo del tritolo a lui destinato. Il 17, due giorni prima della morte, salutò singolarmente i colleghi, abbracciandoli. Quindi chiamò l’amico don Cesare Rattoballi e chiese di confessarsi, convinto che il suo momento stesse arrivando.
La decisione di uccidere Borsellino, come detto, fu “accelerata” da personaggi esterni alla mafia. Del resto, come affermato dal Procuratore di Palermo Francesco Lo Voi, la mafia uccide raramente solo per vendetta. Borsellino, che lo aveva capito, disse a sua moglie che sarebbe stata la mafia a ucciderlo, ma quando altri lo avessero deciso. Lo stesso Riina, intercettato durante un’ora d’aria mentre era detenuto, raccontò a un altro detenuto mafioso che l’omicidio del magistrato fu una cosa decisa alla giornata, perché arrivò “quello” e disse di farlo subito. Chi era “quello”? Uno dei tanti misteri della storia italiana, uno dei più inquietanti.
Roberto Tartaglia, già pubblico ministero nel pool di Palermo, si disse convinto che Paolo Borsellino potesse rappresentare un ostacolo alla prosecuzione della trattativa Stato-mafia.
Oggi alcune cose sono cambiate e le mafie hanno scelto una nuova strategia che ha permesso l’ascesa economica e territoriale. Agli omicidi eccellenti e alle bombe si sono sostituiti incentivi di natura finanziaria, quali la corruzione di pubblici ufficiali e professionisti. La pandemia ha offerto ai capitali delle mafie ulteriori possibilità di riciclo ed emersione, a causa dei problemi finanziari abbattutisi su negozi, imprese e semplici cittadini. Oggi un’altra sponda offerta alle organizzazioni mafiose è rappresentata dai bonus edilizi. Il clan camorristico dei Casalesi parrebbe essere stato il primo ad aver fiutato l’affare, avendo storicamente disponibilità di centinaia di ditte edilizie compiacenti o addirittura allo stesso riconducibili. Solamente l’istituto di Poste Italiane, una delle principali piattaforme per trasformare i crediti in soldi, avrebbe inconsapevolmente monetizzato per il clan diverse centinaia di milioni di euro. Le cifre precise sono in corso di verifica da parte dell’Agenzia delle Entrate. Ma questa è solo la punta dell’iceberg. Secondo i dati della Unità di informazione finanziaria (Uif) della Banca d’Italia, infatti, il 21,4% delle 459 segnalazioni per operazioni sospette legate alla cessione crediti d’imposta nel 2021, ha connessioni a contesti “potenzialmente riconducibili alla criminalità organizzata”. Parliamo di una cifra che si attesta sui 5,6 miliardi di Euro.
L’omicidio di Paolo Borsellino, dopo trent’anni, resta senza colpevoli.
Si sono susseguiti in numero di processi di cui è difficile persino tenere il conto.
Borsellino 1, bis, ter, quater, un giudizio di revisione per rimediare a sette ergastoli inflitti ingiustamente, poi l’atto d’accusa contro quello che è stato definito “il depistaggio più grave della storia repubblicana” e infine il giudizio, ancora in corso in secondo grado, a carico dell’ultimo superlatitante di Cosa nostra: il boss Matteo Messina Denaro.
Senza contare gli appelli e le pronunce della Cassazione. Decine di sentenze che hanno chiarito certamente il ruolo della mafia nell’attentato al giudice Paolo Borsellino e agli agenti della scorta, ma che lasciano ancora senza risposta tanti interrogativi: dalle responsabilità esterne a Cosa nostra, alla sorte dell’agenda rossa, il diario sul quale il giudice scriveva i suoi segreti, sparita nel nulla. Fino ai nomi degli autori del depistaggio delle indagini sull’eccidio. Anni di giudizi senza una verità: un paradosso tutto italiano.
Ma non dobbiamo arrenderci.
La battaglia quotidiana contro la sottocultura mafiosa, anche quella attuale, basata sull’infiltrazione, deve rimanere un impegno quotidiano nella scuola, nelle famiglie, nelle istituzioni. Dobbiamo credere, così come credeva lo stesso Borsellino, che la lotta alla mafia deve essere un movimento culturale e morale, in grado di coinvolgere tutti, specialmente le giovani generazioni, le più pronte a rifiutare il puzzo del compromesso morale e dell’indifferenza.
Le battaglie in cui si crede non sono mai battaglie perse.
Così è, e per questo ancora oggi Paolo Borsellino è vivo tra noi.

Foto di Radio Monte Carlo
società

Trent’anni di misteri

23 maggio 1992. Esattamente trent’anni fa.
A Capaci, sull’autostrada che collega l’aeroporto di Punta Raisi con Palermo, un’esplosione aprì un grande cratere: sotto all’asfalto era stata piazzata mezza tonnellata di esplosivo, fatta saltare dal sicario della mafia Giovanni Brusca, acquattato sulla collina sovrastante.
Nello scoppio morirono il magistrato Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro.
Fu l’”Attentatuni”, il più importante della storia di Cosa Nostra.
Nel 1987, con la sentenza del “maxiprocesso” di Palermo, ci eravamo illusi che Cosa Nostra fosse stata sconfitta. “Abbiamo vinto: la gente fa il tifo per noi!”, disse Giovanni Falcone a Paolo Borsellino. Ma si sbagliava. Certamente la gente onesta e comune stava al fianco di Falcone e Borsellino, ma non così molti apparati dello Stato collusi con la mafia. Quando l’interesse di Falcone si spostò dagli esecutori di Cosa Nostra ai livelli superiori, i cosiddetti colletti bianchi, l’atmosfera cambiò in fretta. La grande stampa, quella che quasi unanime fa quadrato nei momenti fondamentali per il potere, come oggi con la guerra in Ucraina, cominciò a definire Falcone il “giudice sceriffo”. Il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, lo accusò di nascondere le prove nei cassetti. Leonardo Sciascia diede il suo perfido contributo con il celebre articolo sul Corriere della Sera intitolato “I professionisti dell’antimafia”, nel quale insinuava come nella magistratura aver combattuto la mafia potesse essere un modo per far carriera.
Fu questa l’atmosfera che portò alla strage di Capaci.
Oggi, ancora una volta e a maggior ragione per il trentennale, innumerevoli rievocazioni celebreranno la memoria del magistrato palermitano, in un susseguirsi di commozione e di retorica.
Una celebrazione offuscata, tuttavia, dai troppi misteri che ancora avvolgono l’evento.
Poniamoci qualche domanda. Perché Falcone non è stato ucciso pochi mesi prima a Roma, dove spesso camminava senza neppure la scorta? Riina aveva inviato a Roma, non a caso, un commando omicida composto dai più qualificati killer mafiosi, salvo poi richiamare gli uomini a Palermo a seguito di un nuovo progetto. Perché? Secondo il pentito Spatuzza, Riina pronunciò queste parole: “Cambia tutto. Non c’è più solo la mafia!”. Chi altro partecipò al progetto? Perché le motivazioni della strage di Capaci erano note solo ai massimi vertici di Cosa Nostra e neppure ai più fidati luogotenenti? Perché l’esplosivo utilizzato, oltre a quello consueto da cava, conteneva tracce di “Semtex” prodotto nella Repubblica Ceca e utilizzato solo in ambito militare? Perché una tecnica di realizzazione così spettacolare ma di difficile esecuzione? Non si è trattato di un’esplosione che ha coinvolto obiettivi fermi, ma auto lanciate ad oltre 170 chilometri orari, con precisione perfetta. Un’operazione alla portata di esperti appartenenti a squadre speciali militari perfettamente addestrate, non di picciotti della mafia!
Nei pressi del cratere furono trovati guanti in lattice. Allora non era possibile, ma oggi si sono potute determinare sugli stessi le tracce genetiche, che appartengono a una donna. Una donna sul luogo della strage? Impossibile che Cosa Nostra utilizzasse una donna nelle sue operazioni. Chi era? Perché era sul posto?
Tanti misteri, quindi, rimasti tutti senza risposta.
La mafia non è stata sconfitta dalle battaglie di Falcone e Borsellino. Certamente ha cambiato strategia, si è per così dire “inabissata”, rinunciando a gesti spettacolari a favore della ben più proficua politica di infiltrazione nella società civile.
Illuminante è senz’altro l’ultima Relazione semestrale al Parlamento della Direzione investigativa antimafia.
Nella relazione si sottolinea come la mafia degli ultimi anni utilizzi meno la violenza e si concentri invece più sul business. Da un lato meno azioni cruente e comportamenti in grado di provocare allarme sociale, dall’altro la tendenza dei sodalizi mafiosi a una progressiva occupazione del mercato legale.
Si evidenzia anche la crisi di Cosa Nostra, meno “culturalmente elastica” rispetto ad altre mafie, dove è in corso uno scontro tra i vecchi uomini d’onore, portabandiera di una ortodossia difficile da ripristinare, e le nuove leve con la loro visione più fluida del potere mafioso, declinato in chiave moderna. Inoltre la presenza nel territorio siciliano di gruppi criminali di etnia nigeriana operanti con diffusione ormai capillare ha reso necessario per Cosa Nostra scendere a patti con la mafia della Nigeria, ancor più efferata di quella autoctona.
Oggi è molto più potente la ‘ndrangheta, definita dalla DIA leader mondiale nell’ambito del narcotraffico, e vera e propria holding criminale di rilevantissimo spessore internazionale.
Secondo l’organo antimafia, va tenuta in conto anche la capacità delle consorterie criminali calabresi di relazionarsi con quell’area grigia di professionisti e dipendenti pubblici infedeli che costituiscono il volano per l’aggiudicazione indebita di appalti pubblici e la diffusa corruttela che interverrebbe sulle dinamiche relazionali con gli enti locali, sino a poterne condizionare le scelte ed inquinare le competizioni elettorali.
Secondo gli ultimi dati, le mafie godrebbero di ricavi annui per quasi 200 miliardi di euro. Pensate che le aziende italiane con il fatturato più alto nel 2021 sono Enel, con 77,3 miliardi, e ENI con 69,8. Di gran lunga inferiore a quello delle mafie. Inoltre il margine di “utile” sui ricavi è per le mafie molto maggiore che per le imprese “regolari”, non foss’altro per la totale evasione fiscale! Si parla di un “utile netto” di 125 miliardi. Qui le distanze con le società italiane con il maggior profitto si fa abissale: ENEL ha chiuso il bilancio 2021 con un utile di 4,76 miliardi, ENI con 7,67 e Intesa Sanpaolo con 4,2. In sostanza gli utili delle principali aziende italiane sono circa il 4% di quelli delle mafie!
Grazie ai fondi europei del Piano nazionale ripresa resilienza si offrono ora alle mafie immensi spazi di infiltrazione. Gli investigatori dei Carabinieri hanno già verificato che per dare l’assalto agli enormi flussi di denaro pubblico nei settori finanziati dal Pnrr, ’Ndrangheta, Cosa nostra e Camorra hanno costituito una cabina di regia per realizzare progetti capaci di intercettare i contributi europei, consentire ingenti guadagni e assicurare il riciclaggio del denaro sporco. Oltre ai tradizionali mercati degli idrocarburi e della sanità, l’area nella quale si è assistito a un vero “assalto” da parte delle mafie è quella del “superbonus 110%”, ormai infiltrata in misura massiccia.
Ricordiamoci tuttavia che tutto questo non sarebbe possibile senza il contributo di uno stuolo complice di commercialisti, avvocati, imprenditori, pubblici funzionari e rappresentanti delle istituzioni.
Dobbiamo comprendere che la mafia non è più il “picciotto” con la lupara. Ma un insieme articolato di professionalità in grado di prosciugare la ricchezza pubblica.
Significa che la mentalità mafiosa si è ormai estesa come un tumore nella società civile, ben più che ai tempi di Falcone e Borsellino.
Da qui è necessario partire.
Si deve innanzitutto perseguire la mafia con mano ferma e con norme legate all’emergenza. Come diceva nel 1926 Cesare Mori, chiamato il Prefetto di ferro, “Se la mafia fa paura, lo Stato deve farne di più”.
Affiancando a tale azione una altrettanto intransigente verso quel mondo variegato di complici e fiancheggiatori in giacca e cravatta, i cosiddetti colletti bianchi, che rappresentanto il vero capitale umano della malavita organizzata.
Dipende da tutto questo la rinascita morale ed economica italiana e il conseguimento del sogno atavico di fare dell’Italia un Paese normale.
Senza queste necessarie azioni la celebrazione del sacrificio di Giovanni Falcone sarà solo un mero esercizio di vuota retorica.

Foto: Antimafia Duemila
cultura · politica · società

19 luglio 1992: una data da non scordare

19 luglio 1992: una data indimenticabile per il nostro Paese.

Quel giorno, a Palermo, in via d’Amelio, l’esplosione di una Fiat 126 imbottita con oltre cento chilogrammi di tritolo uccise il giudice Paolo Borsellino e gli agenti di scorta: Agostino Catalano, 43 anni, Emanuela Loi, la prima donna poliziotto entrata a far parte di una squadra di agenti addetta alla protezione di obiettivi a rischio, Vincenzo Li Muli, 22 anni, Walter Eddie Cusina, 30 anni e Claudio Traina, 26 anni.

Una pagina tra le più tragiche nella storia del nostro Paese.

Quel giorno Borsellino e la moglie Agnese avevano trascorso alcune ore al mare, nella villetta di Villagrazia. Con loro anche un amico, Pippo Tricoli, docente dell’Università di Palermo. Quest’ultimo rivelò in seguito che Borsellino gli confidò di essere preoccupato per la sua vita. Alle 16,30, con la sua immancabile borsa di pelle, contenente anche la celeberrima agenda rossa, il magistrato salutò la moglie e il figlio Manfredi per andare a trovare la madre.

Alle 16 e 58 minuti, mentre Borsellino aveva appena suonato al citofono della mamma in via d’Amelio, l’autobomba esplose.

Da oltre venti giorni il magistrato, quasi avesse un presentimento, aveva sollecitato la questura affinché provvedesse alla rimozione delle auto in sosta dalla zona antistante l’abitazione della madre. La sua richiesta non fu presa in considerazione e così fu proprio una vettura posteggiata a provocare la strage.

Nei giorni che precedettero la strage Borsellino aveva osservato: ”tanta gente viene a farmi le condoglianze per la morte di Falcone, di sua moglie e degli agenti della scorta, ma io quasi ricavo la sensazione che questi miei interlocutori vedano in me la prossima vittima”.

Cinquantasette giorni prima infatti, a Capaci, era stato assassinato il suo collega ed amico Giovanni Falcone, insieme alla moglie Francesca Morvillo e a tre agenti della scorta.

Quel 19 luglio rappresentò un vulnus terribile alla credibilità dello Stato. Le generazioni che si affacciavano allora alla vita, ma non solo loro, videro annichilita quella fiducia nelle istituzioni che la scuola, la televisione e per i più fortunati la famiglia avevano provato a inculcare.

Noi oggi consideriamo “eroi” i giudici Falcone e Borsellino, ma non possiamo scordare che tali divennero soltanto dopo la loro morte. In vita erano stati vittime di veleni, sospetti e maldicenze tali da alimentare l’intreccio che portò alla loro fine. Vennero accusati di protagonismo, vanità, scarso senso dello stato. Anche da persone insospettabili, quali Leonardo Sciascia e Leoluca Orlando. Borsellino, non a caso, affermò che Falcone iniziò a morire dopo l’articolo di Sciascia sui “professionisti dell’antimafia”.

Nel dicembre 1987, alla chiusura del maxi-processo contro Cosa Nostra che portò a 360 condanne, il clima intorno ai magistrati divenne pesante. Il nuovo ministro della Giustizia Giuliano Vassalli, il 19 gennaio 1988, nominò Antonino Meli capo dell’Ufficio istruzione di Palermo, ignorando la candidatura di Falcone.

Meli cominciò subito ad assegnare a magistrati esterni al pool le inchieste di mafia, e sul tavolo di Falcone e dei suoi colleghi piovvero invece indagini per borseggi, scippi, assegni a vuoto. Borsellino provò a reagire. Dichiarò in un’intervista: “ci hanno tolto la titolarità delle grandi inchieste antimafia. Le indagini di polizia giudiziaria sono bloccate. La squadra mobile di Palermo non è stata ricostituita. Ho l’impressione di grandi manovre per smantellare il pool antimafia”.

Fu così che si giunse alle stragi di Capaci e di via Amelio del 1992.

In quel mese di luglio tutti a Palermo (e non solo!) sapevano che Paolo Borsellino sarebbe stato ucciso. Scrisse Francesco La Licata: “lo sapevamo noi giornalisti che frequentavamo il ‘Palazzaccio’, lo sapevano i palermitani che ne parlavano liberamente nei bar. Lo sapeva anche Paolo Borsellino che ne parlò apertamente, ossessionato dal timore di non riuscire a fare in tempo. Infatti Borsellino aveva fatto intendere di ‘aver compreso’. Certo non aveva in tasca nomi e cognomi delle menti criminali coinvolte, ma forse aveva intuito il senso di tutta l’operazione stragista, ordita da qualcuno un po’ più raffinato di Totò Riina, ma affidata ai macellai di Cosa nostra”.

La sua, come hanno raccontato alcuni pentiti, era una morte programmata da tempo, ma anticipata con una “premura incredibile”. I pubblici ministeri che indagarono sulla sua morte scrissero che la tempistica della strage fu certamente influenzata dall’esistenza e dall’evoluzione della cosiddetta trattativa tra uomini delle istituzioni e Cosa Nostra.

Borsellino sapeva di andare incontro alla morte.

Il 13 luglio, sconsolato, dichiarò: “So che è arrivato il tritolo per me”. Il 17, due giorni prima della strage, fra lo stupore di tutti salutò singolarmente i colleghi, abbracciandoli.

La decisione di uccidere Borsellino, come detto, fu “accelerata” da personaggi esterni alla mafia. Del resto, come affermato dal Procuratore di Palermo Francesco Lo Voi, “la mafia uccide raramente solo per vendetta”. Borsellino, che lo aveva capito, disse a sua moglie espressamente: “Sarà la mafia a uccidermi, ma quando altri lo decideranno”. Lo stesso Riina, intercettato durante un’ora d’aria mentre era detenuto, raccontò a un altro detenuto mafioso che l’omicidio del magistrato “fu una cosa decisa alla giornata, perché venne quello da me e mi disse subito, subito”. Chi era “quello”? Uno dei tanti misteri della storia italiana, uno dei più inquietanti.

Roberto Tartaglia, già pubblico ministero nel pool di Palermo e oggi consulente della Commissione Antimafia, ha affermato che l’accelerazione della strage di Via D’Amelio è cosa certa: i magistrati si convinsero che il giudice Paolo Borsellino potesse rappresentare un ostacolo alla prosecuzione della trattativa Stato-mafia.

Oggi alcune cose sono cambiate e la mafia ha scelto una nuova strategia. La nuova strategia, caratterizzata dalla rinuncia a clamorosi atti di sangue, lungi dal comportare la scomparsa della mafia, ne ha permesso l’ascesa economica e territoriale anche al di fuori dell’isola originaria. Agli omicidi eccellenti e alle bombe si sono sostituiti incentivi di natura finanziaria: la corruzione di pubblici ufficiali e professionisti, accompagnata da minacce in caso di resistenza. Con l’obiettivo di infiltrare l’economia legale del nostro paese, partecipando a gare d’appalto e a bandi europei. L’epidemia di coronavirus offre ai capitali mafiosi ulteriori possibilità di riciclo ed emersione, a causa dei problemi finanziari abbattutisi su negozi e imprese dal 2020.

Quel 19 luglio 1992, dopo l’esplosione che fu udita in tutta Palermo, Antonino Caponnetto disse mesto: “E’ tutto finito!”.

Ma così non era. Così non deve essere! La battaglia quotidiana contro la sottocultura mafiosa, anche quella attuale, basata sull’infiltrazione, deve rimanere il primo obiettivo della scuola, delle famiglie, delle istituzioni. Dobbiamo far nostre le parole dello stesso Borsellino: “la lotta alla mafia non deve essere soltanto un’opera di repressione, ma un movimento culturale e morale, che coinvolga tutti, specialmente le giovani generazioni, le più adatte a sentire subito la bellezza del fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e, quindi, della complicità”.

Lo stesso Antonino Caponnetto, negli ultimi anni della sua vita, girò l’Italia per raccontare nelle scuole la storia dei due eroi, affermando che “le battaglie in cui si crede non sono mai battaglie perse”.

Così è. Per questo ancora oggi Borsellino è vivo tra noi e continua ad essere un esempio.

Grazie Paolo.

Paolo Borsellino – Foto Huffington Post

politica · società

Summum ius, summa iniuria

Il 23 maggio 1992 ha premuto il pulsante che ha fatto esplodere l’autostrada che collega l’aeroporto di Punta Raisi con Palermo, uccidendo Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro.
Ha strangolato con le sue mani e poi sciolto nell’acido il tredicenne Giuseppe Di Matteo, che aveva visto crescere e con il quale aveva “giocato alla playstation”.
Lui stesso non ha saputo quantificare ai magistrati il numero preciso delle sue vittime: “Molte più di 100, ma meno di 200: forse 150”.
Si tratta di Giovanni Brusca, boss della mafia corleonese, soprannominato “U verru” (il maiale) o anche “scannacristiani”. Brusca, dopo poco meno di 25 anni di detenzione, è tornato ieri in libertà per fine pena e posto sotto protezione da parte della polizia di stato.
Va detto: il rilascio è avvenuto nel rispetto delle norme vigenti.
In forza della normativa sui pentiti considerati attendibili, peraltro fortemente voluta, per ironia della sorte, dallo stesso Giovanni Falcone ma approvata solo dopo la sua morte, Brusca è stato condannato a 30 anni.
Con la liberazione anticipata che si applica a tutti i detenuti — 45 giorni di sconto ogni sei mesi passati in cella, unico beneficio concesso anche ai mafiosi — sono diventati venticinque. Con un ulteriore premio per buona condotta e per il comportamento corretto tenuto negli oltre 80 permessi premio ottenuti in questi anni, ieri per Brusca si sono aperte definitivamente le porte del penitenziario.
E’ vero: la legge è stata rispettata. Tuttavia vi è qualcosa che turba profondamente tutti noi.
Nonostante il pentimento giudicato credibile di Brusca, infatti, la stessa strage di Capaci, come abbiamo visto pochi giorni fa, resta densa di misteri e di fatti mai chiariti.
Da un punto di vista sostanziale, inoltre, non posso che essere turbato dal fatto che l’autore della strage di Capaci e di un numero tale di omicidi e infanticidi da non riuscire a ricordarne il numero (“Molti più di 100, ma meno di 200: forse 150”) possa essere oggi libero e sotto protezione.
Diceva Terenzio: “ius summum saepe summa est malitia”, ossia somma giustizia è spesso somma malizia.
E Cicerone, con una frase ancora più celebre, affermava “summum ius, summa iniuria”, con ciò intendendo che l’applicazione rigida di una norma può diventare un’ingiustizia.
Oggi è successo questo.

Testo tratto dal libro di Saverio Lodato “Ho ucciso Giovanni Falcone” – Mondadori

cultura · politica · società

23 maggio: la memoria da non tradire

23 maggio 1992. Un sabato.
Alle 17 e 56, sull’autostrada che collega l’aeroporto di Punta Raisi con Palermo, un’esplosione aprì un grande cratere: sotto all’asfalto era stata piazzata mezza tonnellata di esplosivo, fatta saltare dal sicario della mafia Giovanni Brusca, acquattato sulla collina sovrastante.
Nello scoppio morirono il magistrato Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro.
Fu l’”Attentatuni”, il più importante della storia di Cosa Nostra.
I primi testimoni descrissero una scena di guerra, con ulivi centenari sradicati da terra e un intero pezzo di autostrada sostituito da una voragine.
Pochi mesi prima, il 30 gennaio 1992, si era concluso il maxiprocesso di Palermo, con numerosi ergastoli comminati a diversi boss mafiosi. Giovanni Falcone sapeva di essere nel mirino: l’assassinio di Giuseppe Montana e Ninni Cassarà, due tra i suoi più stretti collaboratori, era stato un messaggio inequivocabile.
Ancora oggi molti misteri aleggiano su quella strage che segnò profondamente la storia del Paese.
Poniamoci qualche domanda. Perché Falcone non è stato ucciso a Roma, dove spesso camminava senza neppure la scorta? Riina aveva inviato a Roma, non a caso, un commando omicida composto dai più qualificati killer mafiosi, salvo poi richiamare gli uomini a Palermo a seguito di un nuovo progetto. Perché? Secondo il pentito Spatuzza, Riina pronunciò queste parole: “Cambia tutto. Non c’è più solo la mafia”. Chi altro partecipò al progetto? Perché le motivazioni della strage di Capaci – come di quelle che seguirono –erano note solo ai massimi vertici di Cosa Nostra e neppure ai più fidati luogotenenti? Perché l’esplosivo utilizzato, oltre a quello consueto da cava, conteneva tracce di “Semtex” prodotto nella Repubblica Ceca e utilizzato solo in ambito militare? Perché una tecnica di realizzazione così spettacolare ma di difficile esecuzione? Non si è trattato di un’esplosione che ha coinvolto obiettivi fermi, ma auto lanciate ad oltre 170 chilometri orari, con precisione perfetta. Un’operazione alla portata di esperti appartenenti a squadre speciali militari perfettamente addestrate, non di picciotti della mafia!
Colui che avrebbe dovuto premere il telecomando, tale Pietro Rampulla, non partecipò all’attentato adducendo improvvisi motivi familiari. Vi sembra logico che l’esecutore principale possa mancare al più spettacolare attentato mafioso di tutti i tempi prendendosi… un giorno di ferie?
Nei pressi del cratere furono trovati guanti in lattice. Allora non era possibile, ma oggi si sono potute determinare sugli stessi le tracce genetiche, che appartengono a una donna. Una donna sul luogo della strage? Impossibile nello stile di Cosa Nostra. Chi era? Perché era sul posto?
E ancora: chi c’era a bordo dell’aereo misterioso che sorvolava il tratto Palermo-Punta Raisi nel giorno della strage? Testimoni lo raccontano in più fasi processuali. Perché uomini in mimetica si trovavano sul tetto della Mobiluxor, il mobilificio a ridosso dell’autostrada A29? C’è anche questo nei racconti, resi in più fasi processuali, di alcuni testimoni.
Tanti misteri, quindi. Per i quali esigere risposte adeguate.
Basta con l’Italia dei misteri, è necessario pretendere la trasparenza della verità.
La stagione degli attentati è terminata nel 1993, con le bombe a Firenze, Milano e Roma. A essa ha fatto seguito una fase di “inabissamento” voluta da Bernardo Provenzano – al vertice dell’organizzazione criminale siciliana fino al suo arresto nel 2006 – e tuttora in corso. La nuova strategia, caratterizzata dalla rinuncia a clamorosi atti di sangue, lungi dal comportare la scomparsa della mafia, ne ha permesso l’ascesa economica e territoriale anche al di fuori dell’isola originaria. Agli omicidi eccellenti e alle bombe si sono sostituiti incentivi di natura finanziaria: la corruzione di pubblici ufficiali e professionisti, accompagnata da minacce in caso di resistenza. Con l’obiettivo di infiltrare l’economia legale del nostro paese, partecipando a gare d’appalto e a bandi europei.
La mafia è oggi meno potente della ‘ndrangheta, ma conserva un ruolo cruciale nell’economia criminale del nostro paese anche in virtù dei suoi legami internazionali.
Il pericolo delle sue infiltrazioni, in termini di riciclaggio e di acquisizione di realtà economiche, è oggi ancora maggiore a causa della crisi innescata dall’epidemia.
L’Europa (ma in questo gli Stati Uniti non hanno dato una risposta migliore) non ha un piano per fermare il flusso di riciclaggio e usura che la pandemia ha generato. Le mafie approfittano della crisi per movimentare il proprio denaro più velocemente. Perché i controlli si sono abbassati: l’antiriciclaggio – inconfessata verità – può reggere quando ci si trova in una situazione economica positiva e sana ma quando manca liquidità, quando i consumi entrano in una spirale di crisi, il denaro torna ad essere utile a tutti senza sondarne l’origine. Quando manca il pane nessuno chiede da quale forno provenga: antica regola che le mafie conoscono benissimo.
Da anni le organizzazioni criminali sono ben inserite in tutto il tessuto economico europeo e non si stanno lasciando sfuggire l’occasione che la Covid Economy ha creato. Quell’economia, generata dalla pandemia, che porta enorme fortuna per pochissimi e il disastro per tutti gli altri. Per la realtà fatta di negozi, piccole imprese, alberghi, ristoranti, trasportatori, ludoteche, bar. L’Europa intera si deve porre l’obiettivo di difendere la sua economia reale.
Il giro d’affari delle organizzazioni criminali è immenso. Solo quelle italiane (di cui ci sono dati scientifici perché le più studiate) guadagnano cifre immense: la ‘ndrangheta circa 60 miliardi di euro all’anno; la Camorra tra i 20 e i 35 miliardi. Questo significa che la massa di denaro di cui dispongono è così grande che di certo non devono aspettare alcun recovery fund.
Per questo gli aiuti europei vanno monitorati, non dati a pioggia.
Ha giustamente affermato Mario Draghi che i fenomeni corruttivi rappresentano un grave pericolo di ingerenza criminale da parte delle mafie e un fattore disincentivante sul piano economico per gli effetti depressivi sulla competitività e la libera concorrenza.
Ci occorre una classe politica che, per una volta, si mostri all’altezza del momento che stiamo vivendo.
Vi è la necessità che i partiti tutti sappiano innanzitutto fare pulizia al loro interno, anche per non accentuare il distacco tra politica e paese reale. Pensate che, secondo un sondaggio curato da Demos nel novembre 2020, per l’83 per cento dei cittadini sono proprio i politici nazionali ad aver favorito l’espansione delle mafie in Italia, mentre per l’81 per cento i colpevoli sarebbero anche i partiti e i politici locali.
Una autentica mina per la democrazia rappresentativa.
Respingere le mafie, dare risposte concrete e rapide ai cittadini. Ripristinare la fiducia nella politica.
Questo, oggi, è il miglior modo per ricordare Giovanni Falcone.

Foto Rec News
cultura · società

Ricordando Paolo Borsellino

Il 19 gennaio 1940 nasceva a Palermo Paolo Borsellino.

Borsellino era nato nella Kalsa, l’antico quartiere di origine araba di Palermo, zona di professori, commercianti ed esponenti della media borghesia.

Ancora ragazzo conobbe Giovanni Falcone, che abitava a poche decine di metri da lui e che gli fu compagno nella magistratura e, purtroppo, nella morte.

Si laureò in giurisprudenza a soli 22 anni, ma – sino al conseguimento della laurea in farmacia della sorella Rita – dovette occuparsi della farmacia del padre, scomparso improvvisamente a soli 52 anni.

Entrò quindi in magistratura, divenendo il più giovane magistrato d’Italia.

Dopo vari incarichi Borsellino, nel 1975, venne trasferito all’Ufficio istruzione del tribunale di Palermo. Fu allora che strinse un rapporto molto stretto con il suo superiore Rocco Chinnici, il quale, prima di essere ucciso nel 1983, istituì il cosiddetto “pool antimafia”, un gruppo di giudici istruttori che, lavorando in gruppo, si sarebbero occupati solo dei reati di stampo mafioso. Borsellino fu confermato nel pool anche dal successore di Chinnici, Antonino Caponnetto. A metà anni 80 Falcone e Borsellino istituirono il maxi-processo di Palermo, basato sulle dichiarazioni del pentito Tommaso Buscetta. Per ragioni di sicurezza furono costretti a trascorrere un periodo all’Asinara, insieme alle rispettive famiglie. Lo storico procedimento nell’aula bunker dell’Ucciardone portò, nel 1987, a 342 condanne.

La sua vita, a seguito delle condanne inflitte nel maxi-processo, divenne ogni giorno più a rischio, così come quella di Giovanni Falcone.

La mafia aveva ormai deciso la loro uccisione.

Anche il clima intorno ai magistrati antimafia cominciò a farsi pesante. Chiacchiere e critiche si insinuarono sempre più insidiose, giungendo anche da lidi insospettabili.

Leoluca Orlando accusò Giovanni Falcone di tenere nei cassetti prove contro i politici mafiosi. Lo stesso Orlando, sindaco di Palermo, nel corso di una puntata della trasmissione Sarmarcanda, condotta da Michele Santoro su Rai Tre, il 24 maggio 1990 lanciò un’accusa gravissima contro Orlando e Borsellino: “il pool ha una serie di omicidi eccellenti a Palermo e li tiene chiusi dentro il cassetto”.

Esasperato dalle insinuazioni, Falcone ebbe così a sfogarsi: “Non si può investire della cultura del sospetto tutto e tutti. La cultura del sospetto non è l’anticamera della verità, la cultura del sospetto è l’anticamera del komeinismo…Io sono in grado di resistere, ma altri colleghi un po’ meno. Io vorrei che vedeste che tipo di atmosfera c’è adesso a Palermo”.

Lo scrittore Leonardo Sciascia, dal canto suo, ebbe a scrivere, con riferimento ad una promozione ricevuta da Borsellino: “I lettori, comunque, prendano atto che nulla vale più, in Sicilia, per far carriera nella magistratura, del prender parte a processi di stampo mafioso”. L’intervento di Sciascia, pubblicato dal quotidiano “Corriere della Sera”, dette origine all’espressione “professionisti dell’antimafia”, che risultava essere il titolo dell’articolo.

Nel suo ultimo discorso pronunciato a Casa Professa, a Palermo, pochi giorni prima di essere ucciso, Borsellino, a proposito di quel testo di Sciascia, disse: “Dal momento in cui fu pubblicato, Giovanni Falcone cominciò a morire”.

E la morte di Falcone arrivò, il 23 maggio 1992, in quella che venne chiamata la strage di Capaci, nella quale, oltre al magistrato, persero la vita la moglie Francesca Morvillo e tre uomini della scorta.

Iniziarono, con la morte di Giovanni Falcone quelli che furono chiamati i 57 giorni di Paolo Borsellino, alludendo al periodo che intercorse dall’omicidio di Falcone al suo.

In quei 57 giorni Borsellino fu un “dead man walking”, un morto che cammina, e lo fu pubblicamente, alla luce del sole.

Borsellino sapeva di essere ormai nel mirino”, disse Antonino Caponnetto in un’intervista con Gianni Minà nel 1996, “soprattutto lo seppe negli ultimi giorni prima della sua morte. Il giovedì ebbe la comunicazione indubitabile… la certezza assoluta che il tritolo per lui era già arrivato a Palermo. Per prima cosa si attaccò al telefono, chiamò il suo confessore. Disse: puoi farmi la cortesia di venire subito? E appena quello lo raggiunse nel suo studio, disse: senti, per cortesia, confessami e impartiscimi la comunione”.

Da venti giorni Paolo Borsellino aveva chiesto alla questura la rimozione degli autoveicoli dalla zona antistante l’abitazione della madre. Inutilmente. E proprio una vettura lì posteggiata determinò la sua morte.

Era il 19 luglio 1992. In via d’Amelio, proprio sotto la casa della mamma del magistrato, i killer mafiosi fecero esplodere una Fiat 126 contenente oltre 100 chilogrammi di Tritolo. Nell’attentato persero la vita, oltre a Paolo Borsellino, gli agenti di scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.

A Palermo tutti sapevano che Paolo Borsellino sarebbe stato ucciso. Ha scritto sul quotidiano “La Stampa” Francesco La Licata: “Lo sapevamo noi giornalisti che frequentavamo il “Palazzaccio”, lo sapevano i palermitani che ne parlavano liberamente nei bar e nei salotti (più o meno “buoni”). Lo sapeva anche Paolo Borsellino che ne parlò apertamente, ossessionato dal timore di non riuscire «a fare in tempo»”.

Ricordare Paolo Borsellino, così come Giovanni Falcone, è doveroso.

Per il loro sacrificio, per i loro successi che hanno reso la mafia più debole.

Ma soprattutto per il loro esempio.

A loro e a tutti coloro che ancora oggi sono in prima fila nella lotta alla mafia ben si addicono i versi della poetessa bulgara Blaga Dimitrova: “Nessuna paura che mi calpestino, calpestata l’erba diventa sentiero”.