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Non è la banalità dei protagonisti a rendere meno orribile il male

Ha senso, a distanza di decenni, rievocare eventi accaduti durante il secondo conflitto mondiale?
Nel caso di fatti per certi versi “ordinari”, ancorché tragici, probabilmente no. Ma vi sono episodi che, per la loro efferatezza, non devono mai essere scordati. Affinché il loro ricordo si erga a perenne monito per il futuro, a evitare che nuovamente la barbarie più becera possa macchiare la storia.
Quanto voglio ricordare oggi appartiene sicuramente a quest’ultima categoria.
Si tratta di una tragedia accaduta 77 anni fa, il 12 agosto del 1944, a Sant’Anna di Stazzema, un paese sull’Appennino in provincia di Lucca.
Pochi giorni prima questa località era stata qualificata dal comando militare tedesco “zona bianca”, ossia adatta ad accogliere sfollati: per questo, alla popolazione residente, si erano aggiunte centinaia di altre persone in cerca di sicurezza.
Nonostante quanto assicurato, all’alba di quel 12 agosto tre reparti di “SS” salirono verso Sant’Anna, mentre un quarto chiudeva ogni via di fuga a valle. Strada facendo le truppe si fermarono a Capezzano Monte, dove fucilarono numerosi giovani.
Alle sette le Schutzstaffel, le famigerate SS, raggiunsero Sant’Anna, accompagnate da collaborazionisti che fungevano da guide. Gli uomini del paese si rifugiarono nei boschi, per non essere deportati, mentre donne, vecchi e bambini restarono nelle loro case, sicuri che nulla sarebbe capitato loro, in quanto civili inermi. Non fu così.
In poco più di tre ore vennero massacrati 560 civili, in gran parte bambini, donne e anziani. I nazisti li rastrellarono, li chiusero nelle stalle o nelle cucine delle case, li uccisero con colpi di mitra e bombe a mano. La vittima più giovane, Anna Pardini, aveva solo 20 giorni. Anche se in realtà non era lei la creatura più piccola morta nella strage: infatti era stato ucciso anche un “non ancora nato”. Tolto dal ventre della madre, ancora legato al cordone ombelicale, era stato ucciso su di un tavolo. Altri bambini di poche settimane vennero lanciati in aria e colpiti dagli spari come si fa al tiro al volo. Altri ancora vennero infilzati con le baionette. Non si trattò di rappresaglia. Come è emerso dalle indagini della Procura Militare si trattò di un’azione premeditata e curata in ogni minimo dettaglio. L’obiettivo era quello di distruggere il paese e sterminare la popolazione.
Lo scrittore Manlio Cancogni ha descritto quanto accaduto. “I tedeschi, a Sant’Anna, condussero gli esseri umani, strappati a viva forza dalle case, sulla piazza della chiesa. Li avevano presi quasi dai loro letti; erano mezzi vestiti, avevano le membra ancora intorpidite dal sonno; tutti pensavano che sarebbero stati allontanati da quei luoghi verso altri e guardavano i loro carnefici con meraviglia ma senza timore né odio. Li ammassarono prima contro la facciata della chiesa, poi li spinsero nel mezzo della piazza, una piazza non più lunga di venti metri e larga altrettanto, chiusa tra due brevi muriccioli; e quando puntarono le canne dei mitragliatori contro quei corpi li avevano tanto vicini che potevano leggere negli occhi esterrefatti delle vittime che cadevano sotto i colpi senza avere tempo nemmeno di gridare. Quindi ammassarono sul mucchio dei corpi ancora tiepidi e forse ancora viventi, le panche della chiesa devastata, i materassi presi dalle case, e appiccarono loro fuoco. E assistendo insoddisfatti alla consumazione dei corpi spingevano nel braciere altri uomini e donne che esanimi dal terrore erano condotti sul luogo, e che non offrivano alcuna resistenza. Poi c’erano i bambini: fracassarono loro il capo con il calcio della mitraglietta, e infilato loro nel ventre un bastone, li appiccicavano ai muri delle case”. La Wehrmacht aveva dato in più occasioni l’ordine di uccidere anche i civili. Ma in nessuno di questi ordini si era mai parlato dei bambini. Sembra però che a Sant’Anna fosse stata proprio la vista dei bambini a scatenare una sorta di raptus sanguinario. “Quando li sentivano piangere, s’ innervosivano, diventavano furiosi“, hanno detto alcune sopravvissuti.
Le vittime mostrarono una grande dignità. Tutti, quando capirono, attesero la morte nel silenzio più assoluto. Molti furono trovati con le foto della loro famiglia in mano per essere identificati dopo la morte.
Nel settembre del ’44 i militari alleati trovarono a Sant’Anna i resti di numerosi donne e bambini e, oltre alle testimonianze dei pochissimi superstiti, raccolsero anche la deposizione di un disertore delle SS. Le copie di quei documenti furono poi inviate in Italia, ma a Roma scomparvero nel cosiddetto “Armadio della vergogna”.
Si trattava di un armadio rimasto chiuso per decenni e scoperto solo nel 1994 nella cancelleria della Corte Militare di Appello presso la procura generale militare, nel Palazzo Cesi-Gaddi di Roma. Era girato contro un muro per “nasconderlo” e chiuso con una catena. Conteneva tredicimila pagine e oltre novecento fascicoli, che raccontavano la storia di quindicimila persone, coinvolte nei crimini di guerra commessi in Italia durante l’occupazione nazista. Riguardavano stragi come Sant’Anna di Stazzema, Fosse Ardeatine, Marzabotto, Monchio e Cervarolo e innumerevoli altre. In questa documentazione si identificava il nome del Comandante del battaglione di SS che operò la strage di Sant’Anna. Si trattava dell’austriaco Anton Galler, fino al 1933 oscuro fornaio, che – al termine della guerra – ritornò al suo totale anonimato di fornaio a Salisburgo. E’ la famosa “banalità del male” di cui ci parla Hannah Arendt nel saggio “Eichmann a Gerusalemme: resoconto sulla banalità del male”.
Perché furono occultate quei novecento faldoni per tredicimila pagine, senza mai perseguire i colpevoli?
In ossequio ai desideri di Stati Uniti e Gran Bretagna, che – una volta iniziata la Guerra Fredda – ritenevano opportuno stendere un velo sui massacri in Italia del 1944 e 1945.
E’ giusto ricordare che la Germania si è ampiamente ed ufficialmente scusata per questi eccidi.
Nel 2012 il ministro tedesco Michael Georg Link ha affermato che “Il governo federale continuerà ad assumersi la responsabilità storica dei crimini commessi per mano dei tedeschi” e che “faremo tutto il possibile affinché i crimini compiuti per mano dei tedeschi non vengano dimenticati“.
Frank-Walter Steinmeier, Presidente tedesco, ha chiesto solennemente perdono, a nome della Germania, per tutto quello che i nazisti hanno fatto durante l’ultima guerra mondiale. Ha confessato, esprimendosi in italiano, di provare “solo vergogna”. E nella sua lingua ha voluto aggiungere: “Lo dico per i cittadini tedeschi e per i giovani che ignorano questi avvenimenti”.
La Germania è il Paese che, più di ogni altro, ha saputo fare i conti con il proprio passato.
Vorrei sottolineare alcune parole del Presidente tedesco: “lo dico per i giovani che ignorano questi avvenimenti”. Secondo un’indagine Censis effettuata tra studenti delle medie superiori e dell’università più del 50 per cento ignora chi fosse Mendele, il 28 per cento considera un Progrom una festa ebraica, il 58,7 per cento crede che la notte dei cristalli fosse una parata militare notturna del Terzo Reich e ritiene Himmler e Goebbels ministri della Germania.
Per questo credo sia ancora importante ricordare i fatti che vi ho narrato oggi.
Accadimenti dei quali si dovrebbe parlare nelle scuole, per combattere sul nascere l’odio e l’indifferenza.
Tutti devono ricordare e temere questa barbarie, così come le altre atrocità del Ventesimo Secolo: i lager, i gulag, Pol Pot, i Talebani e via tristemente elencando.
Perché il Male, anche quello terribile di Sant’Anna, non è opera di qualche folle isolato, ma cammina con le gambe dei fornai, degli imbianchini e dei maestri elementari. Delle persone alle quali – sino al giorno prima – nessuno prestava attenzione.
Ma non è la banalità dei protagonisti a rendere meno orribile il male.

Foto tratta da Shalom
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10 maggio 1933: il rogo di Opernplatz

10 maggio 1933. Una data da non dimenticare.
Quella sera, a Berlino, nella piazza del Teatro dell’Opera, la “Opernplatz”, i nazisti organizzarono un gigantesco rogo nel quale bruciarono oltre 25.000 libri.
Altri analoghi eventi si svolsero in numerose città tedesche, ma quello di Berlino fu il più grande, poiché doveva essere un esempio per l’intero Reich. Una cerimonia sontuosa, con una coreografia quasi liturgica. Si prestò attenzione agli aspetti scenografici, alle musiche, ai canti. I libri da bruciare furono accompagnati al fuoco da una marcia alla quale presero parte i professori in toga, gli studenti e i soldati delle SA e delle SS. Una lugubre processione, una celebrazione del più becero oscurantismo.
La Germania hitleriana, dopo quella sera, divenne un deserto culturale. I pochissimi intellettuali che non espatriarono, come il filosofo Martin Heidegger, dovettero rassegnarsi al silenzio. Ma la gran pare di loro abbandonò il Paese.
Con i roghi di maggio Goebbels, da poco nominato ministro della propaganda, lanciò la sua campagna contro i libri “non tedeschi” e contro la cosiddetta “arte degenerata”. Fu l’avvio dell’imbarbarimento della vita culturale tedesca dopo l’avvento del regime nazista. L’intento dichiarato era quello di cancellare qualunque testimonianza degli intellettuali che nel XIX e XX secolo avevano dato sviluppo alla moderna cultura europea.
Durante il rogo Goebbels declamò alla folla isterica parole tragiche e ridicole al tempo stesso: “L’era dell’esagerato intellettualismo ebraico è giunto alla fine. Il trionfo della rivoluzione tedesca ha chiarito quale sia la strada della Germania e il futuro uomo tedesco non sarà un uomo di libri, ma piuttosto un uomo di carattere ed è in tale prospettiva e con tale scopo che vogliamo educarvi… pertanto fate bene, in quest’ora solenne, a gettare nelle fiamme la spazzatura intellettuale del passato”.
Nei roghi finirono migliaia di opere letterarie e artistiche di autori che, secondo il nazismo, avevano “corrotto” e “giudaizzato” una presunta “cultura tedesca” pura: gli scrittori Thomas Mann, Heinrich Mann, Bertolt Brecht e Joseph Roth. I filosofi Theodor W. Adorno, Herbert Marcuse ed Ernst Bloch. L’architetto Walter Gropius. I pittori Paul Klee, Wassili Kandinsky e Piet Mondrian. Gli scienziati Albert Einstein e Sigmund Freud. I musicisti Arnold Schönberg e Alban Berg. I registi cinematografici Georg Pabst, Fritz Lang e Franz Murnau. Insieme a centinaia di altri artisti e pensatori che avevano gettato le basi intellettuali dell’intera cultura del Novecento.
Era infatti la cultura occidentale quella che bruciava in quei roghi, in un’Europa divenuta impotente a difendere le sue opere e, negli anni successivi, i suoi cittadini.
Come si giunse a una simile declamazione di odio verso la cultura?
La principale ragione, come spesso accade, è da ricercarsi nell’economia, più precisamente nella grave crisi economica che aveva investito la Germania negli anni successivi alla conclusione della Prima Guerra Mondiale.
L’intero mondo si trovò in grave difficoltà alla fine degli anni ’20 del secolo scorso: un periodo culminato nel celebre “giovedì nero”, il 24 ottobre 1929, con il crollo della Borsa di Wall Street.
In Germania la debole Repubblica di Weimar attuò politiche deflazionistiche che portarono ad un aumento indiscriminato delle imposte e ad un aumento incredibile degli interessi. L’economia del paese andò al collasso. Il nazismo, una volta conquistato il potere sfruttando il malcontento dilagante, attuò una politica economica basata su di un forte incremento di spesa pubblica e su politiche monetarie espansive, ottenendo l’entusiastico e fanatico consenso di milioni di tedeschi. Hitler capì che l’utilizzo di strumenti tipicamente keynesiani, apparentemente paradossali per la sua visione, avrebbe determinato una crescita nel breve periodo e un forte consenso sociale. Un consenso che sarebbe aumentato se si fossero “divise” tra loro le persone più svantaggiate, creando miti e pericoli, veri o presunti, capaci di far sorgere nemici comuni ai quali attribuire ogni nefandezza possibile e dando vita a un clima di egoismo, di odio, di chiusura mentale e morale.
Odio ed egoismo: ecco l’humus ideale per cementare un consenso patologico.
Perché colpire i libri e la cultura?
Perché la cultura, e con essa i libri che la nutrono, rappresentano un’oasi di dubbio, il respiro del nuovo, una fonte di civiltà e tolleranza.
I libri sono i silos nei quali custodire le idee che possono germogliare e attecchire nella coscienza e nell’intelligenza degli esseri umani. Da loro fiorisce il senso critico e lo spirito di libertà, che è l’impulso creatore dell’intelligenza. I libri rendono fertile la ragione che, come diceva Norberto Bobbio, sarà solo un lumicino, ma è tutto quanto abbiamo per procedere nelle tenebre da cui siamo venuti alle tenebre verso le quali andiamo. Ecco perché la cultura è sempre considerata pericolosa da parte dei tiranni e dei demagoghi di ogni genere.
L’avversione verso la cultura è un denominatore comune per i regimi autoritari. Non a caso analoghe politiche di repressione culturale furono applicate dal regime staliniano nei decenni successivi. O dal regime dei khmer rossi di Pol Pot in Cambogia, dove i primi tra i milioni di cittadini sterminati furono proprio gli intellettuali, considerati parassiti irrimediabilmente contaminati dalla vecchia cultura e potenziali controrivoluzionari. Bastava possedere libri, oppure il semplice fatto di portare gli occhiali, per essere etichettati come insegnanti o studiosi e quindi essere fucilati. Oggi, non a caso, assistiamo ad analoghi atteggiamenti nella Turchia di Erdogan, dopo averli visti applicati dai terroristi dell’ISIS che, anch’essi, bruciavano libri e monumenti della cultura.
Dobbiamo ricordare tutto questo, in quanto viviamo giorni di profonda crisi economica, di diffuso impoverimento. Un periodo nel quale una insidiosa cultura dell’odio si diffonde nel mondo, ammorbando il comune sentire e coinvolgendo ogni dibattito, che diviene manifestazione di rancorosa polemica, complice anche una classe politica del tutto inadeguata e intenta solo a cavalcare un presunto consenso fatto di astiosa contrapposizione.
Un terreno propizio a tutti coloro che vogliono attaccare la democrazia e la libertà di pensiero e di critica, additando soluzioni semplicistiche.
Non dobbiamo delegare fiducia a boriosi capipopolo, né a presuntuosi soloni, latori di una verità specchio di narcisismo.
Bertrand de Saint-Vincent, in un suo editoriale sul quotidiano parigino “Le Figaro”, ha definito la cultura come “quel nutrimento per l’anima che la pandemia non deve cancellare”.
Sono d’accordo con lui, perché la prospettiva di essere lasciati, in futuro, senza cibo per la mente pare un incubo. Anche se, a qualcuno, potrà apparire un sogno.

Foto: Biblioteca del Tempo