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Il giorno della Memoria

Il 27 gennaio 1945 l’Armata Rossa aprì i cancelli di Auschwitz.
L’ONU, nel 2005, ha stabilito che in questa data venga celebrata la Giornata della Memoria, in ricordo della Shoah, un vocabolo ebraico che ci parla di orrore e dolore. Questa espressione è presente nel libro di Isaia 47,11: “Ti verrà addosso una SCIAGURA che non saprai scongiurare; ti cadrà sopra una calamità che non potrai evitare. Su di te piomberà improvvisa una CATASTROFE che non prevederai”.
Gli ebrei non furono le uniche vittime dei campi di sterminio, ma lo furono in modo speciale e tragico. Gli storici più accreditati, tra cui Raul Hilberg, ritengono che la cifra delle vittime ebraiche si aggiri tra 5.200.000 e 6.000.000.
Non fu neppure il primo genocidio della storia. Ad aprire il XX secolo fu quello degli armeni, operato dai turchi intorno al 1915 nell’indifferenza generale della comunità mondiale. Una tragedia che fornì lo spunto ad Adolf Hitler per il disegno di annientamento degli ebrei.
Oggi per noi è difficile anche il solo immaginare quanto accadde nei campi di sterminio.
Dobbiamo riflettere su come sia stato possibile annientare ogni senso di umanità, non solo nei carnefici ma anche nelle vittime. Elsa Binder, diciassettenne ebrea che viveva nella Polonia invasa dalla Germania nazista e quindi deportata, raccontava che i superstiti non erano più in grado di ridere. Una parola divertente era sufficiente a suscitare un senso di colpa. Un semplice momento di serenità evocava una processione di amici scomparsi.
Sono passati quasi ottant’anni da quei giorni. Ma è ancora importante ricordare. Perché lungi dall’essere patrimonio di un passato sepolto, l’antisemitismo è ancora non solo presente nella nostra società ma – per certi versi – in crescita.
Si parla, in Italia, di antisemitismo “a bassa intensità”, che è però pervasivo e continuamente messo in circolazione. Un atteggiamento di questo tipo non significa che non vi siano conseguenze: è proprio il divenire quasi “senso comune” che lo rende pericoloso, perché finisce per derubricare i suoi effetti per cose normali, non intenzionali, innocue. Insomma, scherzi senza conseguenze.
I recenti rapidi mutamenti sociali, dovuti anche alla crisi pandemica con il conseguente sviluppo di ogni sorta di teoria complottista, hanno accentuato il fenomeno. Con la complicità dei cosiddetti “social”. Questi infatti sono governati da algoritmi che mettono in contatto persone che la pensano nello stesso modo, divenendo uno specchio che rafforza le proprie convinzioni; non hanno moderatore; estremizzano le posizioni degli utenti; e infine amplificano le voci di minoranza.
Possiamo fare molto per cambiare le cose. Credo che, in primis, occorra valorizzare la storia del popolo ebraico ed equilibrare il rapporto tra identità e memoria. Quindi svincolare il lavoro sull’antisemitismo dall’Olocausto e ancorarlo maggiormente all’antichità della storia ebraica nel suo complesso.
Sviluppare la conoscenza della cultura ebraica, la comune matrice con quella cristiana e gli sviluppi del suo pensiero.
Ma è anche un lavoro individuale, da svolgere su noi stessi. Marco Aurelio scriveva nei “Ricordi” che ciascuna persona, ogni mattina, dovrebbe interrogarsi sul compito più difficile: come esercitare al meglio il mestiere di uomo.
E’ il senso profondo che ha originato il “Giardino dei Giusti”, nato a Milano nel 2003 e ormai diffuso in altre duecento città. Una realtà che vuole insegnare alle persone di ogni nazione e cultura a diventare parte della grande catena dei Giusti che in ogni tempo ed in ogni luogo si assumono una responsabilità per il bene dell’umanità.
I Giardini dei Giusti insegnano alcuni concetti fondamentali con il racconto delle storie migliori degli uomini. La prima è che chi opera per il bene non è mai solo, anche se molto spesso costa fatica e anche incomprensione. Inoltre che essere parte di una rete della bontà infonde non solo coraggio, ma anche la forza di agire assieme agli altri, come sosteneva Baruch Spinoza, quando argomentava del “conatus collettivo” che permette al singolo uomo di superare la sua fragilità.
Elie Wiesel, scrittore ebraico trasferitosi negli Stati Uniti alla fine della guerra, dopo esser stato prigioniero ad Auschwitz, Monowitz e Buchenwald fra il 1944 e il 1945, ha raccontato l’impiccagione di un bambino insieme a due adulti. Narrava che mentre I due adulti già erano morti, la terza corda non era ancora immobile perché il bambino viveva ancora. Lottò fra la vita e la morte per oltre mezz’ora, agonizzando sotto gli occhi degli altri prigionieri. Qualcuno domandò: «Dov’è dunque Dio?». E Wiesel rispose: «Dov’è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca…»”.
Impegniamoci affinché la nostra indifferenza non ci induca, ancora una volta, ad appendere a una forca Dio e la nostra umanità.

Foto Gariwo

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Buon compleanno Anna!

12 giugno. Anche quest’anno vorrei ricordare il tuo compleanno.
Quello di una bambina che non è mai potuta crescere, che non ha conosciuto la pienezza della maturità, che non ha avuto la ventura di sperimentare lo scorrere del tempo che graffia il corpo con i sospiri della vecchiaia.
Dei tuoi pochi compleanni Anna, perché così ti chiamavi, ve n’è uno speciale: quello del 1942, ottant’anni fa.
Era un venerdì, e ti trovavi ad Amsterdam. Mi piace pensare che vi fosse un tiepido sole ad accarezzare il respiro dell’estate che si affacciava timida alle porte del cielo. Anche in Olanda, dove i papaveri si inchinano lieti al vento che sfiora i campi con leggera tenerezza.
Quel giorno compivi tredici anni.
Tra i tanti doni hai ricevuto un diario, con la copertina a quadretti rossi. Per te era il regalo più bello, perché amavi scrivere parole che disegnavano emozioni in un ordito sapiente. Dicevi che “la carta è più paziente degli uomini”. Non immaginavi allora – e come avresti potuto? – che le tue pagine, un giorno, sarebbero divenute famose, lette da donne e uomini di ogni tempo e di ogni Paese.
Due giorni dopo il tuo compleanno hai inaugurato il nuovo diario con queste parole:
“Venerdì 12 giugno ero già sveglia alle sei: si capisce, era il mio compleanno! Ma alle sei non mi era consentito d’alzarmi, e così dovetti frenare la mia curiosità fino alle sei e tre quarti. Allora non potei più tenermi e andai in camera da pranzo, dove Moortje, il gatto, mi diede il benvenuto strusciandomi addosso la testolina. Subito dopo le sette andai da papà e mamma e poi nel salotto per spacchettare i miei regalucci. Il primo che mi apparve fosti tu, forse uno dei più belli fra i miei doni. Poi un mazzo di rose, una piantina, due rami di peonie; altri ancora ne giunsero durante il giorno. Da papà e mamma ebbi una quantità di cose, e anche i nostri numerosi conoscenti mi hanno veramente viziata. Fra l’altro ricevetti un gioco di società, molte ghiottonerie, cioccolata, un puzzle, una spilla, la Camera oscura, le Saghe e leggende olandesi di Joseph Cohen e un po’ di denaro, così che mi potrò comprare i Miti di Grecia e di Roma. Che bellezza!”
Come tutte le ragazze, desideravi un’amica del cuore, a cui confidare i tuoi innocenti segreti. Hai scritto sul diario qualche giorno dopo:
“Ho dei cari genitori e una sorella di sedici anni; conosco, tutto sommato, una trentina di ragazze di alcune delle quali potreste dire che sono mie amiche. Ho dei parenti, care zie e cari zii, un buon ambiente familiare; no, apparentemente non mi manca nulla, salvo l’amica. Con nessuno dei miei conoscenti posso far altro che chiacchiere, né parlar d’altro che dei piccoli fatti quotidiani. Non c’è modo di diventare più intimi, ecco il punto. Forse questa mancanza di confidenza è colpa mia; comunque è una realtà, ed è un peccato non poterci far nulla. Perciò questo diario. Allo scopo di dar maggior rilievo nella mia fantasia all’idea di un’amica lungamente attesa, non mi limiterò a scrivere i fatti del diario, come farebbe qualunque altro, ma farò del diario l’amica, e l’amica si chiamerà Kitty”.
Il mondo era difficile in quegli anni. C’era la guerra. E il nazismo. Le truppe tedesche avevano invaso l’Olanda. Eri ebrea. Purtroppo, per i nazisti, era maledettamente importante. Sai, Anna, sembra incredibile ma per troppi lo è ancora oggi!
Per sfuggire ai soldati sei stata costretta a nasconderti, con i tuoi genitori e un’altra famiglia, in due locali sopra gli uffici di una azienda. L’alloggio segreto, come lo chiamavi.
Hai trascorso due anni in quegli angusti locali, senza mai uscire neppure una volta.
Detestavi la matematica, la geometria e l’algebra, mentre adoravi la storia e le materie letterarie. Ti piaceva tanto la mitologia greca e romana e la storia dell’arte.
A Natale del 1943 hai scritto sul diario:
“Cara Kitty, credimi, quando sei stata rinchiusa per un anno e mezzo, ti capitano dei giorni in cui non ne puoi più. Sarò forse ingiusta e ingrata, ma i sentimenti non si possono reprimere. Vorrei andare in bicicletta, ballare, fischiettare, guardare il mondo, sentirmi giovane, sapere che sono libera, eppure non devo farlo notare perché, pensa un po’, se tutti e otto ci mettessimo a lagnarci e a far la faccia scontenta, dove andremo a finire? A volte mi domando: «Che non ci sia nessuno capace di comprendere che, ebrea o non ebrea, io sono soltanto una ragazzina con un gran bisogno di divertirmi e di stare allegra?»”.
Un giorno un infame, mai identificato, ha segnalato l’alloggio segreto alla Gestapo. Il 4 agosto 1944 le Schutzstaffel – le SS – hanno fatto irruzione nei locali e vi hanno condotto tutti al campo di smistamento di Westerbork. Il 2 settembre foste deportati ad Auschwitz.
Dopo un mese sei stata trasferita con tua sorella Margot a Bergen-Belsen, un campo di concentramento nella bassa Sassonia.
Nel marzo del 1945, neppure conosciamo il giorno preciso, ti sei ammalata di tifo, per le terribili condizioni di vita nel lager
Sei morta a 15 anni e gettata in una fossa comune.
Alla fine della guerra fu ritrovato, nell’alloggio segreto, il tuo diario con le tue ultime parole:
“È un gran miracolo che io non abbia rinunciato a tutte le mie speranze perché esse sembrano assurde e inattuabili. Le conservo ancora, nonostante tutto, perché continuo a credere nell’intima bontà dell’uomo. Mi è impossibile costruire tutto sulla base della morte, della miseria, della confusione. Vedo il mondo mutarsi lentamente in un deserto, odo sempre più forte l’avvicinarsi del rombo che ucciderà noi pure, partecipo al dolore di milioni di uomini, eppure, quando guardo il cielo, penso che tutto volgerà nuovamente al bene, che anche questa spietata durezza cesserà, che ritorneranno l’ordine, la pace e la serenità. Intanto debbo conservare intatti i miei ideali; verrà un tempo in cui forse saranno ancora attuabili”.
Che sia così, lo speriamo anche noi.
Buon compleanno Anna Frank.

Foto Città Nuova Editrice