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Una data fondamentale.

25 aprile. Una data fondamentale per il nostro Paese.
Non solo per “qualcuno”, non per “una parte” dell’Italia. Ma una festa di tutti, nessuno escluso; qualunque siano le proprie convinzioni.
In questo giorno non si festeggia una vittoria militare: la guerra, in Italia, terminò infatti il 3 maggio. Si festeggia una riscossa civile. Come disse Piero Calamandrei “il carattere che distingue la Resistenza da tutte le altre guerre, anche da quelle fatte da volontari, anche dall’epoca garibaldina, è stato quello di essere più che un movimento militare, un movimento civile”.
Troppo spesso, infatti, celebriamo la Resistenza nei suoi episodi militari, scordandoci di quella per così dire “disarmata”. Così facendo, tuttavia, trascuriamo la dignità, la forza, la caparbietà di tanti “civili” – in gran parte donne, vecchi e bambini – che dall’entrata in guerra dell’Italia fino alla Liberazione dovettero convivere con la disoccupazione e la fame mai saziata dai razionamenti. Furono eroiche soprattutto le donne che, per tanti mesi, lavorarono per un salario da fame e fecero lunghe ed estenuanti code per comprare qualcosa da portare a casa, sempre con il pensiero costante al figlio o al marito in qualche lontano fronte di guerra.
Da quella esperienza, e solo grazie ad essa, nacque la nostra Costituzione.
Forse non perfetta, certamente frutto di compromesso tra le grandi ideologie che si confrontarono in quegli anni. Eppure – non scordiamolo – dopo tre quarti di secolo, dopo molti tentativi di sfigurarne i connotati, è ancora in quei preziosi articoli la fonte della nostra convivenza, la prima regola del nostro stare insieme.
Da quel testo sortirono principi generali basilari.
Il principio della democrazia e della libertà di pensiero, innanzitutto, certamente rispettato in questi decenni.
Così come quello della eguaglianza sostanziale, che si può declinare in una crescente equità sociale. Principio, questo, piuttosto in crisi nel corso degli ultimi anni.
La Resistenza ha dato vita alla nostra Costituzione, ma non dobbiamo scordare che il suo respiro è certamente europeo.
I movimenti di resistenza nacquero infatti ovunque in un’Europa divisa e soggiogata dal nazionalsocialismo: in Polonia, Francia, Olanda, Danimarca, Cecoslovacchia. Financo in Germania, pur nella straordinaria difficoltà della situazione.
Vi era consapevolezza di questo, nei costituenti. Così come di un nuovo mondo che sorgeva e guardava oltre gli ormai angusti confini statuali. Vittorio Emanuele Orlando, Presidente della Assemblea Costituente, disse che lo stesso ricordo della Rivoluzione francese del 1789 si impiccioliva al confronto della nuova rivoluzione, riguardando essa i rapporti a livello globale e il mutamento dello Stato di nazione, che dovrà cedere l’assolutezza della sovranità e prepararsi alla maniera di futura sovranità di Stato limitata da una organizzazione superiore.
Questa la grande speranza nata dalle ceneri del secondo conflitto mondiale: quella che, insieme ad alcuni totalitarismi, fosse stata sconfitta l’idea stessa di guerra e che il futuro sarebbe stato di pace e benessere sovranazionale.
Un’illusione, purtroppo. Oggi lo sappiamo.
I conflitti non sono mai cessati. Già nel 1946 iniziarono la guerra in Indocina e quella civile in Grecia. Ma neppure un anno, da allora, è trascorso senza battaglie e vittime. Solo che queste erano quasi sempre lontane dal cosiddetto Occidente e, di conseguenza, meno degne di attenzione da parte dei mezzi di informazione.
Si auspicava che, almeno in Europa, la fine (apparente) della cosiddetta guerra fredda potesse allontanare per sempre l’ipotesi di un conflitto.
Sappiamo che così non è stato e così non è.
Al contrario, il ritorno in auge di ideologie fondate su un nazionalismo sovranista, proprio a seguito del venir meno della divisione del continente in zone di influenza, ha portato alla deflagrazione di nuove e drammatiche guerre sul suolo europeo.
Oggi assistiamo al conflitto in Ucraina, sulla cui narrazione esclusivamente “atlantista” da parte dei media mi permetto di nutrire qualche riserva. Sudditanza alla quale si sono prontamente adeguate le forze politiche dell’attuale governo.
Ma il primo vero conflitto europeo successivo alla Seconda Guerra Mondiale scoppiò nei Balcani all’inizio degli anni ’90, con decine di migliaia di vittime, per la gran parte donne e bambini. Quanto accadde in quegli anni fece impallidire l’operato del nazismo: ricordiamo solamente la strage di Srebrenica, avvenuta con la complicità dei “caschi blu” dell’ONU presenti, che consegnarono addirittura donne e bambini agli aguzzini e fornirono i buldozer per coprire le fosse comuni.
La guerra balcanica non ci ha insegnato nulla. Soprattutto non abbiamo compreso che armare le fazioni non conduce alla pace. Semmai giova a ben altri interessi.
Soprattutto alla potentissima industria delle armi.
Secondo il Kiel Institute for the World Economy, un centro di ricerca indipendente con sede in Germania, nello scorso annoi l’amministrazione Biden ha mobilitato risorse pari a oltre 73 miliardi di euro per aiuti militari alla Ucraina, seguita dall’Unione Europea con 35 miliardi. L’Italia ben si colloca in tale classifica con oltre un miliardo di aiuti militari.
Come illustrato dall’area studi di Mediobanca, il fatturato dei trenta principali gruppi mondiali che operano nella produzione di armi ha superato, nel 2022, i duemila miliardi di dollari.
Come dar torto a Papa Francesco quando – con voce inascoltata – denuncia una terza guerra mondiale “a pezzetti”? E, aggiungo io, con immensi profitti per ristretti gruppi di persone.
Festeggiamo quindi il 25 aprile, insieme.
Celebrando la liberazione del nostro Paese, innanzitutto.
Ma non limitando lo sguardo a una mera celebrazione del passato.
Forti del ricordo spingiamo lo sguardo nel futuro.
In un recupero di valori portanti: a livello individuale, perché l’assenza di valori etici e civili condivisi genera quel vuoto morale che affonda nella violenza la nostra società.
A livello istituzionale, perché uno Stato non più sorretto da uno scheletro di valori fondanti, si avventura in una democrazia anonima e senza padri, tendenzialmente estranea alla storia.
A livello globale, anche. Perché il 25 aprile non è una Festa di guerra, ma di pace e di liberazione dalla violenza in ogni sua forma.
Perché la pace non è sufficiente a garantire la libertà. Ma senza la pace non può esistere libertà.
Buon 25 aprile.

Foto Comune d’Este

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Buona Festa della Repbubblica!

2 giugno. Festa della Repubblica.
In ogni Paese la Festa nazionale è un evento di importanza assoluta: pensate al 14 luglio nella vicina Francia, oppure al 4 luglio per gli statunitensi.
In Italia, al contrario, il 2 giugno non è mai diventato un momento di celebrazione e coinvolgimento popolare. Al punto che dal 1977 al 2001, per ben ventiquattro anni, la festività fu soppressa, riservando qualche modesta celebrazione, perlopiù di impronta militare, alla prima domenica di giugno. Una specie di festa della mamma o dei nonni, insomma. Facendo del nostro Paese l’unico privo di una celebrazione nazionale, dato che con la stessa legge del 1977 fu abolita anche la Festa dell’Unità Nazionale, che si celebrava il 4 novembre a memoria della vittoria nella Prima Guerra mondiale.
Nulla avviene a caso.
In molti avevano pensato, in quel lontano 1946, che l’Italia potesse iniziare un inarrestabile cammino di crescita morale e culturale. Approfittando di quello che Piero Calamandrei definì un autentico “miracolo della ragione”: una Repubblica proclamata per libera scelta di popolo mentre era ancora sul trono il re.
Al contrario tale momento di gioia e di festa fu ben presto offuscato, o forse deliberatamente emarginato.
Il nostro è un Paese che non ama la storia, men che meno la sua.
Ancora oggi i testi scolastici poco si occupano della nascita della Repubblica e, comunque, in modo superficiale e anacronistico. Generalmente liquidano il 2 giugno in cinque righe e restituiscono una visione molto semplificata dell’origine della Repubblica, nata malamente in un’Italia spaccata in due e con una debole legittimazione popolare. Visione che una banale analisi da “rotocalco” dei dati sarebbe sufficiente a smontare. Lo storico Maurizio Ridolfi ha osservato che bastano solo due cifre per scardinare l’immagine di un’Italia settentrionale interamente proiettata verso la Repubblica e un’Italia meridionale interamente monarchica: il 40 per cento degli italiani che votarono per il re viveva tra Torino, Milano e Padova. E il 20 per cento dei voti repubblicani era concentrato nel Meridione, e fu decisivo!
Neppure i partiti usciti dal secondo dopoguerra amavano fino in fondo il 2 giugno. Le forze moderate e centriste per il timore di un nazionalismo che potesse ricordare alcuni aspetti del “ventennio”. Il mondo cattolico per una diffusa e per certi versi inconscia ostilità verso lo Stato seguita a Porta Pia, al Sillabo e al celebre non expedit. La sinistra per la sua diffidenza verso le manifestazioni di patriottismo e le esibizioni militari. Allora, perlomeno, quando era impensabile che il leader del principale partito di sinistra fosse candidato alla segreteria generale della NATO.
Venne così meno la risorsa identitaria del patriottismo costituzionale, ossia quella che meglio qualifica e protegge il carattere democratico-pluralistico della res publica attraverso il principio del riconoscimento reciproco dell’identità culturale e della legittimità politica delle parti in competizione democratica, principio in base al quale ciascuna parte interpreta sulla scena la propria legittima versione della patria repubblicana, dalla posizione di maggioranza vincitrice o da quella di minoranza all’opposizione.
Abbiamo scordato che la Repubblica, e con lei la Costituzione, sono una grande vittoria, in un Paese che non è più capace di raccontare vittorie ma preferisce celebrare vittime. I nostri costituenti non sono morti per la Repubblica, ma sono rimasti vivi per costruirla e difenderla. Calamandrei diceva ai ragazzi che la Carta non è una macchina che una volta messa in moto va avanti da sé: perché si muova bisogna ogni giorno rimetterci dentro il combustibile, ossia l’impegno e la responsabilità. Della nostra legge fondamentale rimane oggi il mito (la costituzione più bella del mondo) ma non la consapevolezza di un sentimento collettivo.
Occorre ristabilire il primato del 2 giugno quale Festa fondante del nostro Paese.
E’ necessaria una festa nazionale che ci induca a riflettere sul nostro Paese, sui suoi tanti problemi ma anche sulle sue infinite potenzialità.
Per raccoglierci intorno a un denominatore comune che ci porti a uno slancio di rinascita.
Dobbiamo liberarci di molte zavorre che rallentano l’Italia e la portano a essere una realtà di cui talora, confessiamolo, ci vergogniamo un po’.
Della corruzione, della “furbizia”, di quell’individualismo meschino che ammorba la società.
Da quel “particolarismo” che da geografico si è mutato in difesa degli interessi di singole categorie che ambiscono a essere caste.
Di una classe politica ormai palesemente inidonea a governare il Paese.
Diceva De Gasperi, citando a sua volta il predicatore unitariano James Freeman Clarke, che mentre un politico pensa alle prossime elezioni, un uomo di stato deve avere a cuore la prossima generazione.
Noi abbiamo una classe politica che guarda ai sondaggi e ha come termine ultimo la prossima consultazione elettorale!
Ci occorre una autentica Festa Nazionale, che ci ricordi anche le meraviglie del nostro Paese, la sua storia, la sua cultura, l’arte e le lettere. La cultura che ha unificato il Paese, che ha saputo esprimere Svevo e Pirandello, D’Annunzio e Pascoli, Pavese e Vittorini. Che ha dato vita a forme d’arte inimitabili.
Che ci renda fieri della nostra appartenenza. Non con un sentimento di arido nazionalismo, ma con una feconda consapevolezza che ci induca a combattere i troppi mali che affliggono l’Italia.
E’ compito della cultura agevolare questo. E’ compito della scuola.
Cessiamo di penalizzare la scuola con investimenti vergognosi. L’Italia è all’ultimo posto nell’Europa per gli investimenti nell’istruzione, con il 7.9% della spesa contro una media superiore al 10%. Germania e Francia sono sopra il 10%, addirittura la Svizzera e l’Islanda al 16%. Persino la Grecia ci supera con l’8,5%.
Dobbiamo vivere di un patriottismo che non sfoci nel nazionalismo, ma che si apra ad un respiro europeo, con l’ambizione di essere protagonista. Di un Europa diversa però, che non sia né un mero e arcigno revisore di conti altrui né un asettico bancomat a cui attingere nei periodi di crisi. Bensì una cassa di risonanza di valori e cultura.
Forse l’Europa si è estesa troppo negli ultimi anni, accogliendo Paesi che non ne condividono appieno i valori fondanti. Molti Paesi dell’Est Europa sono forse stati accolti con eccessivo slancio, in quanto portatori di una propria interpretazione dei principi democratici che sono alla base della idea fondante dell’Unione Europea. Si tratta di un contrasto che mette in evidenza una profonda diversità sulla visione dell’Unione e sul suo futuro. Mettere in discussione i principi legati allo Stato di Diritto significa prospettare un diverso ruolo dell’UE nel rispetto dei diritti dell’uomo basati sulla Carta dei diritti fondamentali. Neppure in una bocciofila si entra senza condividere integralmente lo statuto!
Festeggiamo dunque la nostra Festa Nazionale, con la discrezione della consapevolezza.
Rammentiamo che la nostra Repubblica, la Costituzione e le nostre istituzioni sono ciò che ci siamo dati nel momento in cui eravamo sobri, a valere per i momenti in cui siamo sbronzi.
Buona Festa della Repubblica!

Foto de “Il Messaggero”