19 luglio 1992: una data indimenticabile per il nostro Paese.
Quel giorno, a Palermo, in via d’Amelio, l’esplosione di una Fiat 126 imbottita con oltre cento chilogrammi di tritolo uccise il giudice Paolo Borsellino e gli agenti di scorta: Agostino Catalano, 43 anni, Emanuela Loi, la prima donna poliziotto entrata a far parte di una squadra di agenti addetta alla protezione di obiettivi a rischio, Vincenzo Li Muli, 22 anni, Walter Eddie Cusina, 30 anni e Claudio Traina, 26 anni.
Una pagina tra le più tragiche nella storia del nostro Paese.
Quel giorno Borsellino e la moglie Agnese avevano trascorso alcune ore al mare, nella villetta di Villagrazia. Con loro anche un amico, Pippo Tricoli, docente dell’Università di Palermo. Quest’ultimo rivelò in seguito che Borsellino gli confidò di essere preoccupato per la sua vita. Alle 16,30, con la sua immancabile borsa di pelle, contenente anche la celeberrima agenda rossa, il magistrato salutò la moglie e il figlio Manfredi per andare a trovare la madre.
Alle 16 e 58 minuti, mentre Borsellino aveva appena suonato al citofono della mamma in via d’Amelio, l’autobomba esplose.
Da oltre venti giorni il magistrato, quasi avesse un presentimento, aveva sollecitato la questura affinché provvedesse alla rimozione delle auto in sosta dalla zona antistante l’abitazione della madre. La sua richiesta non fu presa in considerazione e così fu proprio una vettura posteggiata a provocare la strage.
Nei giorni che precedettero la strage Borsellino aveva osservato: ”tanta gente viene a farmi le condoglianze per la morte di Falcone, di sua moglie e degli agenti della scorta, ma io quasi ricavo la sensazione che questi miei interlocutori vedano in me la prossima vittima”.
Cinquantasette giorni prima infatti, a Capaci, era stato assassinato il suo collega ed amico Giovanni Falcone, insieme alla moglie Francesca Morvillo e a tre agenti della scorta.
Quel 19 luglio rappresentò un vulnus terribile alla credibilità dello Stato. Le generazioni che si affacciavano allora alla vita, ma non solo loro, videro annichilita quella fiducia nelle istituzioni che la scuola, la televisione e per i più fortunati la famiglia avevano provato a inculcare.
Noi oggi consideriamo “eroi” i giudici Falcone e Borsellino, ma non possiamo scordare che tali divennero soltanto dopo la loro morte. In vita erano stati vittime di veleni, sospetti e maldicenze tali da alimentare l’intreccio che portò alla loro fine. Vennero accusati di protagonismo, vanità, scarso senso dello stato. Anche da persone insospettabili, quali Leonardo Sciascia e Leoluca Orlando. Borsellino, non a caso, affermò che Falcone iniziò a morire dopo l’articolo di Sciascia sui “professionisti dell’antimafia”.
Nel dicembre 1987, alla chiusura del maxi-processo contro Cosa Nostra che portò a 360 condanne, il clima intorno ai magistrati divenne pesante. Il nuovo ministro della Giustizia Giuliano Vassalli, il 19 gennaio 1988, nominò Antonino Meli capo dell’Ufficio istruzione di Palermo, ignorando la candidatura di Falcone.
Meli cominciò subito ad assegnare a magistrati esterni al pool le inchieste di mafia, e sul tavolo di Falcone e dei suoi colleghi piovvero invece indagini per borseggi, scippi, assegni a vuoto. Borsellino provò a reagire. Dichiarò in un’intervista: “ci hanno tolto la titolarità delle grandi inchieste antimafia. Le indagini di polizia giudiziaria sono bloccate. La squadra mobile di Palermo non è stata ricostituita. Ho l’impressione di grandi manovre per smantellare il pool antimafia”.
Fu così che si giunse alle stragi di Capaci e di via Amelio del 1992.
In quel mese di luglio tutti a Palermo (e non solo!) sapevano che Paolo Borsellino sarebbe stato ucciso. Scrisse Francesco La Licata: “lo sapevamo noi giornalisti che frequentavamo il ‘Palazzaccio’, lo sapevano i palermitani che ne parlavano liberamente nei bar. Lo sapeva anche Paolo Borsellino che ne parlò apertamente, ossessionato dal timore di non riuscire a fare in tempo. Infatti Borsellino aveva fatto intendere di ‘aver compreso’. Certo non aveva in tasca nomi e cognomi delle menti criminali coinvolte, ma forse aveva intuito il senso di tutta l’operazione stragista, ordita da qualcuno un po’ più raffinato di Totò Riina, ma affidata ai macellai di Cosa nostra”.
La sua, come hanno raccontato alcuni pentiti, era una morte programmata da tempo, ma anticipata con una “premura incredibile”. I pubblici ministeri che indagarono sulla sua morte scrissero che la tempistica della strage fu certamente influenzata dall’esistenza e dall’evoluzione della cosiddetta trattativa tra uomini delle istituzioni e Cosa Nostra.
Borsellino sapeva di andare incontro alla morte.
Il 13 luglio, sconsolato, dichiarò: “So che è arrivato il tritolo per me”. Il 17, due giorni prima della strage, fra lo stupore di tutti salutò singolarmente i colleghi, abbracciandoli.
La decisione di uccidere Borsellino, come detto, fu “accelerata” da personaggi esterni alla mafia. Del resto, come affermato dal Procuratore di Palermo Francesco Lo Voi, “la mafia uccide raramente solo per vendetta”. Borsellino, che lo aveva capito, disse a sua moglie espressamente: “Sarà la mafia a uccidermi, ma quando altri lo decideranno”. Lo stesso Riina, intercettato durante un’ora d’aria mentre era detenuto, raccontò a un altro detenuto mafioso che l’omicidio del magistrato “fu una cosa decisa alla giornata, perché venne quello da me e mi disse subito, subito”. Chi era “quello”? Uno dei tanti misteri della storia italiana, uno dei più inquietanti.
Roberto Tartaglia, già pubblico ministero nel pool di Palermo e oggi consulente della Commissione Antimafia, ha affermato che l’accelerazione della strage di Via D’Amelio è cosa certa: i magistrati si convinsero che il giudice Paolo Borsellino potesse rappresentare un ostacolo alla prosecuzione della trattativa Stato-mafia.
Oggi alcune cose sono cambiate e la mafia ha scelto una nuova strategia. La nuova strategia, caratterizzata dalla rinuncia a clamorosi atti di sangue, lungi dal comportare la scomparsa della mafia, ne ha permesso l’ascesa economica e territoriale anche al di fuori dell’isola originaria. Agli omicidi eccellenti e alle bombe si sono sostituiti incentivi di natura finanziaria: la corruzione di pubblici ufficiali e professionisti, accompagnata da minacce in caso di resistenza. Con l’obiettivo di infiltrare l’economia legale del nostro paese, partecipando a gare d’appalto e a bandi europei. L’epidemia di coronavirus offre ai capitali mafiosi ulteriori possibilità di riciclo ed emersione, a causa dei problemi finanziari abbattutisi su negozi e imprese dal 2020.
Quel 19 luglio 1992, dopo l’esplosione che fu udita in tutta Palermo, Antonino Caponnetto disse mesto: “E’ tutto finito!”.
Ma così non era. Così non deve essere! La battaglia quotidiana contro la sottocultura mafiosa, anche quella attuale, basata sull’infiltrazione, deve rimanere il primo obiettivo della scuola, delle famiglie, delle istituzioni. Dobbiamo far nostre le parole dello stesso Borsellino: “la lotta alla mafia non deve essere soltanto un’opera di repressione, ma un movimento culturale e morale, che coinvolga tutti, specialmente le giovani generazioni, le più adatte a sentire subito la bellezza del fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e, quindi, della complicità”.
Lo stesso Antonino Caponnetto, negli ultimi anni della sua vita, girò l’Italia per raccontare nelle scuole la storia dei due eroi, affermando che “le battaglie in cui si crede non sono mai battaglie perse”.
Così è. Per questo ancora oggi Borsellino è vivo tra noi e continua ad essere un esempio.
Grazie Paolo.
