cultura · società

Nessuna esclusa

Sono giorni tristi questi.
Una pandemia tragica è ancora lontana dalla conclusione. Nelle scorse ore si sono registrati oltre 41 mila casi: gli stessi del novembre 2020, anche se, grazie alla campagna vaccinale, i morti sono diminuiti.
A questo dramma, che certamente non è poco, si sono aggiunte le azioni di guerra che scuotono in questi giorni l’Ucraina.
Un quadro fosco, un connubio inquietante che diffonde una sensazione diffusa di paura.
Al timore per una pandemia mai sperimentata da chi oggi vive si è aggiunta l’angoscia per un conflitto nel nostro continente, che ormai consideravamo indenne da tali flagelli.
In tale contesto si celebra oggi l’8 marzo.
Credo sia evidente a tutti come tale giornata, quest’anno, assuma una dimensione diversa e, certamente, più ampia, laddove ogni aspetto di futile celebrazione floreale lascia il campo a riflessioni articolate e più esaustive.
I principali mezzi di comunicazione hanno dedicato l’odierna ricorrenza alle “donne ucraine”.
Ineccepibile rivolgere loro un pensiero in giornate così dolorose e drammatiche.
Ineccepibile ma limitativo, frutto forse di una giustificata onda emotiva e di una narrazione in verità piuttosto standardizzata.
Credo che un pensiero debba essere rivolto anche alle donne russe, perché se è terribile essere coinvolte in un conflitto lo è anche veder partire i propri figli per una guerra che, magari, neppure si comprende né si condivide.
Così come dobbiamo ricordare le donne afghane. Dimenticate prima dalle forze militari occidentali, in primis da quelle della Nato, in una vergognosa quanto disordinata fuga e oggi del tutto scordate dai mezzi di informazione, che hanno steso su di loro un velo di imperdonabile oblio. Essere frustate per una passeggiata in solitudine, allontanate dallo studio, impedite nell’igiene personale svolta negli hammam, costrette a matrimoni con i guerriglieri talebani e talora costrette alla vendita dei loro figli per sopravvivere non è certo scenario migliore. Anche se non accade in Europa.
Dovremmo inoltre dimenticare duecento milioni di ragazze africane sottoposte a mutilazioni genitali femminili?
O le donne curde, siriane, libanesi, yemenite, haitiane o del Myanmar che da anni combattono, soffrono e convivono con inesplicabili guerre divenendo spesso profughe prive di soccorso? Forse perché tali conflitti avvengono lontano dal nostro continente?
La lezione che dobbiamo trarre da questi giorni difficili e tragici è che l’8 marzo non è una serata in compagnia o un mazzo di mimose.
Mai come quest’anno deve essere un’occasione per scorgere nel mondo il dramma delle donne private dei loro diritti e la necessità di un profondo cambiamento.
Guardando anche, come ovvio, al nostro Paese.
Perché anche in Italia molto rimane da fare per l’universo femminile.
Ci sono le 119 donne vittime di femminicidio nel 2021, con un collaterale aumento dei casi di stalking, maltrattamenti e violenza sessuale, cresciuti del 30%.
Ma ci sono anche situazioni meno eclatanti, che non godono delle luci della cronaca, ma che costituiscono uno stillicidio di prepotenza e ingiustizia.
Persistono purtroppo ingiustificabili divari, per esempio, nel lavoro e a livello di retribuzioni, nelle posizioni dirigenziali e nella partecipazione alla vita politica e istituzionale.
Secondo un recente studio, rispetto agli uomini più donne concludono gli studi universitari, con voti migliori e prendono parte a esperienze di tirocinio curriculare, nonché di lavoro durante gli studi e di formazione all’estero. Ma tutto questo non sana le inique differenze: il tasso di occupazione dei laureati di secondo livello, a cinque anni dal titolo, è dell’85,2 per cento per le donne e del 91,2 per cento per gli uomini.
A cinque anni dalla laurea gli uomini percepiscono, in media, circa il 20 per cento in più e svolgono professioni maggiormente qualificate. E il divario si amplifica in presenza di figli, perché la maternità e il lavoro continuano a essere inconciliabili per troppe madri.
Esiste poi l’intramontabile – e immarcescibile – repertorio di luoghi comuni e di stereotipi sulle donne. Espressioni che feriscono, segnano confini di genere e costringono le donne in ruoli prestabiliti, imprigionandole in una gabbia invisibile e inviolabile.
Luoghi comuni che troppo spesso tendiamo a cogliere con un sorriso di imbarazzo o, al più, con un senso di fastidio, anziché con l’indignazione che dovrebbero suscitare.
L’8 marzo di quest’anno, come sempre dovrebbe essere ma oggi ancor più, non è pertanto una “festa”, bensì una celebrazione dedicata ai diritti delle donne.
Di ogni parte del mondo e di ogni età.
Perché un mondo senza le donne sarebbe solo un malinconico errore.

Foto: Ministero della Salute – Italia
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Noi, da tempo, abbiamo scelto la vita

11 settembre 2001: esattamente 20 anni fa.
Una data che ha scandito la nostra storia recente, quasi un contrafforte tra due epoche.
Due aerei provenienti da Boston e diretti a Los Angeles furono dirottati e lanciati contro le due torri dell’Word Trade Center a New York. Un altro aereo, a sua volta dirottato, fu fatto precipitare sul Pentagono. Un quarto velivolo, probabilmente destinato a colpire la Casa Bianca, si schiantò in Pennsylvania per l’eroica ribellione dei passeggeri che avevano saputo degli altri attentati e preferirono farlo cadere prima.
I morti di questa indimenticabile giornata furono 2.966. Non dobbiamo dimenticare anche le vittime successive, uccise da tumori e altre malattie provocate dalle esalazioni degli incendi: sono ad oggi oltre quarantamila.
Non fu un attacco agli Stati Uniti. Le vittime appartenevano a oltre settanta diverse nazionalità. Oltre 400 erano musulmane.
Fu un attacco al mondo libero, ai valori di dignità e eguaglianza così insopportabili al terrorismo islamico. Un vulnus a chi viveva nella convinzione che il dialogo e il rispetto fossero i sentieri da percorrere nel cammino verso il futuro.
Questo anniversario, il ventesimo, coincide con il ritiro delle forze occidentali dall’Afghanistan, dove – vent’anni fa – fu programmata e decisa la mattanza dell’11 settembre.
Devo ribadire il mio profondo dissenso verso tale scelta: tragica, pericolosa e inutile. Non nell’interesse degli afghani e non nel nostro. Solo un affettato rigurgito di sovranismo para-nazionalista ha indotto Trump a programmare il ritiro e l’attuale presidente Biden a portarlo – malamente – a conclusione.
Tale ripiegamento culturale verso la politica definita dallo slogan America First (che produce una curiosa assonanza “immorale” con il nostrano assioma “prima gli italiani”), non tiene in alcun modo conto della grande novità introdotta proprio dalle stragi dell’11 settembre: la globalizzazione del terrore.
Fu proprio con quell’attentato che ci rendemmo conto che il mondo era ormai uno scenario unico e che le decisioni criminali prese in un deserto remoto di un paese dell’Asia Centrale potevano portare – come hanno portato – a migliaia di morti in tutto il mondo. Perché la spinta che induce uno jihadista a farsi esplodere non è l’odio verso una nazione, una città, una discoteca o un ristorante. Ma quello nei confronti della democrazia, della libertà, della cultura, dei diritti umani e delle donne.
Non si dia neppure molto credito verso la tesi che vorrebbe i terroristi agire in nome della povertà contro il lusso o della religione islamica contro il cristianesimo. Delle 1.324 vittime trucidate in attacchi jihadisti in tutto il mondo negli ultimi 30 giorni (avete letto bene: 30 giorni!) la quasi totalità era musulmana e composta da poveri e diseredati.
Credo che sia corretto dire – come l’intellettuale Adam Michnik – che proprio in quell’11 settembre è nato il XXI secolo. In quel giorno si sono affacciati totalitarismi, fanatismi e populismi: tutti basati non sulla forza degli argomenti, ma sull’argomento della forza. La politica dell’esclusione ha sbarrato la strada a quella dell’inclusione e del rispetto.
Per questo la fuga disordinata da Kabul, messa in scena dagli americani, è una pagina cupa per il mondo intero. Si è decisa nonostante l’impegno nel 2021 non fosse lontanamente paragonabile a quello di venti o addirittura dieci anni fa, in circostanze in cui il numero delle truppe era diminuito al minimo e nessun soldato alleato aveva perso la vita in combattimento da 18 mesi.
E’ stata compiuta nella consapevolezza che, sebbene imperfetti e immensamente fragili, negli ultimi vent’anni ci sono stati reali miglioramenti nella vita in Afghanistan. Si pensi solo a tutti i lenti progressi compiuti dalle donne, ma in realtà dall’intera società afghana. La nascita di una nuova squadra di basket femminile, l’apertura di ogni palestra alle donne, le neo-giornaliste assunte nel proliferare di giornali, radio e televisioni, l’apparire sul mercato del lavoro di professioniste pronte a prendere il proprio posto in uffici che sino ad allora erano stati solo per uomini: sembravano, questi, successi destinati a durare, a cambiare il Paese per sempre.
Oggi le donne protestano in piazza per difendere queste ancora poche ma significative conquiste. Un fatto assolutamente impensabile vent’anni fa.
Gli americani, Biden in testa e prima di lui Trump, dissero che i Talebani avrebbero assunto atteggiamenti meno rigorosi. Mentivano sapendo di mentire. Già nei primi giorni i nuovi signori di Kabul stanno stroncando ogni novazione. Niente sport per le donne, istruzione a classi separate, niente giornaliste, insegnanti quasi sparite: nelle scuole sono state create stanze riservate per le poche docenti, che non possono più stare con i colleghi. E lo stesso vale per il personale della segreteria. I muratori hanno modificato le porte di accesso al loro ufficio. Sembrano quella di una cella, con gli studenti costretti a comunicare con loro attraverso una fessura nel muro. Le donne stanno sedute nella penombra col capo coperto. Sembrano fantasmi, sono vittime.
Anche il governo creato dai Talebani è uno sberleffo alla politica americana.
Ministro dell’Interno è Serajuddin Haqqani, leader della temibile e omonima rete ritenuta vicina ad Al Qaida. Attualmente è ricercato dall’Fbi per terrorismo, con una taglia di 5 milioni di dollari. Il premier Mohammad Hasan è nella lista Onu dei terroristi. Insieme a molti altri ministri, ricercati da Fbi, Unione Europea e Nazioni Unite. Erano il Male (e ancora lo sono) ma ora compongono il governo. Ovviamente senza neppure una donna. Perché, come ha detto il portavoce del governo dei mullah, una donna non può fare il ministro, sarebbe come metterle al collo un peso che non può sostenere. Non è necessario che le donne siano nel governo, loro devono fare figli.
Anche per queste ragioni questo ventesimo anniversario assume un significato così importante.
Ricordiamo le vittime del terrorismo jihadista: quelle dell’11 settembre, ma anche quelle di Parigi, Londra, Madrid, Bruxelles. Le stragi in Asia come gli eccidi in Africa e i rapimenti di ragazze dei Boko Haram.
Soprattutto non lasciamo che l’indignazione di questi giorni per i fatti afghani si dissolva lentamente come nebbia al mattino.
Non diamo spazio a chi nella religione trova solo una scusa al suo atavico e arretrato fanatismo.
I jiaidhisti si credono eroi e martiri, ma sono solo dei perdenti e dei falliti, burattini senza dignità né umanità.
Il nostro mondo è fragile, imperfetto, certamente da correggere e migliorare. Ma è infinitamente migliore del loro, che presumono perfetto ma che puzza solo di vergogna e di miseria morale.
Noi non dimenticheremo, ma – contrariamente a loro – non odieremo.
Perché noi, da tempo, abbiamo scelto la vita.

Foto Magnum – Corriere della Sera
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Una strategia per il futuro

Si è conclusa nei tempi stabiliti l’evacuazione – ma forse sarebbe meglio chiamarla fuga – delle truppe americane dall’Afghanistan, insieme a quella dei militari degli altri paesi occidentali che avevano collaborato.
Nel corso di un discorso alla nazione il Presidente Biden ha dichiarato che “l’evacuazione è stata un successo straordinario”.
Ma la decisione di abbandonare a se stessa una popolazione è stata una scelta altrettanto straordinaria?
Su questo argomento, nei giorni scorsi, Tony Blair, già premier laburista della Gran Bretagna e figura imponente del riformismo del secolo scorso, ha pubblicato un interessante intervento sul sito della Fondazione “Tony Blair Institute for Global Change”.
L’apertura stessa dell’articolo è un assunto perfetto di quanto accaduto: “L’abbandono dell’Afghanistan e del suo popolo è tragico, pericoloso, inutile, non nel loro interesse e non nel nostro”.
Chiaro ed esaustivo.
Successivamente Blair pone una serie di quesiti sui quali, nelle prossime settimane, sarà opportuno riflettere a fondo: “All’indomani della decisione di restituire l’Afghanistan allo stesso gruppo da cui è scaturita la carneficina dell’11 settembre, e in un modo che sembra quasi progettato per ostentare la nostra umiliazione, la domanda posta da alleati e nemici allo stesso modo è: l’Occidente ha perso la sua volontà strategica? Ovvero: è in grado di imparare dall’esperienza, pensare strategicamente, definire i propri interessi e su questa base impegnarsi? Il lungo termine è un concetto che l’Occidente è ancora in grado di afferrare? La natura della sua politica è ancora compatibile con l’affermazione del tradizionale ruolo di leadership globale?”.
L’alleanza occidentale intervenne nel territorio afghano, non scordiamolo, a seguito del rifiuto dei Talebani di interrompere la protezione sino ad allora concessa al gruppo terroristico di al Qaida, autore dell’attacco alle Torri Gemelle che causò oltre tremila vittime.
In seguito, soprattutto dopo l’uccisione del suo leader Osama Bin Laden, la missione assunse progressivamente una diversa attenzione alle necessità della popolazione afghana. Si creò un impegno a trasformare l’Afghanistan da un santuario terrorista fallito in una democrazia funzionante: ancora embrionale ma in via di ripresa. Un’ambizione forse un po’ temeraria, ma dotata di una indiscutibile nobiltà e, comunque, figlia di una strategia.
Ben diversa da una strategia è stata la decisione del ritiro: semplicemente la concretizzazione di una decisione politica basata su meri sondaggi demoscopici. Figlia di una obbedienza a uno slogan politico populistico sulla fine delle “guerre per sempre“, come se il nostro impegno nel 2021 fosse lontanamente paragonabile al nostro impegno di 20 o addirittura dieci anni fa, considerando che il numero delle truppe era diminuito al minimo e nessun soldato alleato aveva perso la vita in combattimento per 18 mesi.
Ci ricorda ancora Tony Blair a proposito della fuga: “Lo abbiamo fatto nella consapevolezza che, sebbene immensamente fragili, negli ultimi 20 anni ci sono stati reali miglioramenti. E chiunque lo contesti, legga i lamenti strazianti di ogni segmento della società afghana su ciò che temono sarà perduto. Miglioramenti nel tenore di vita, nell’istruzione, in particolare delle ragazze, nella libertà. Non ancora quello che volevamo. Ma neppure niente. Qualcosa che valeva la pena difendere. Valeva la pena proteggere. Lo abbiamo fatto quando i sacrifici delle nostre truppe avevano reso quelle fragili conquiste qualcosa che era nostro dovere preservare. Lo abbiamo fatto quando l’accordo del febbraio 2020, a sua volta pieno di concessioni ai talebani, era stato violato quotidianamente. Lo abbiamo fatto mentre ogni gruppo jihadista in tutto il mondo esultava”.
Credo che il vulnus principale di questa debacle sia la perdita assoluta di ogni credibilità da parte del mondo occidentale e della sua cultura e tradizione democratica.
Chiunque abbia preso impegni con i leader occidentali li considererà comprensibilmente una valuta instabile”, dice ancora Blair.
Ma – quel che è peggio – abbiamo perso ogni credibilità nei confronti delle popolazioni che aspirano a liberarsi da un barbarico medioevo.
In un’intervista concessa a un giornalista del quotidiano “Il Foglio”, lo scrittore afghano Ali Eshani, che ora risiede in Italia. afferma: “Tutto il progresso afghano è stato possibile solo grazie alla presenza occidentale. Ci sono donne che hanno iniziato a fare le parrucchiere, che sono diventate giornaliste e medici. Che hanno studiato. Ora stanno chiudendo tutto. I Talebani ammazzeranno anche le parrucchiere. Non dovevano lasciare l’Afghanistan. Chi si fiderà più dell’America? Tanti afghani mi dicono che sono stati abbandonati. I giovani erano tutti contenti della presenza occidentale!“.
Credo che le prossime debbano essere settimane dense di riflessione e di analisi.
Una traccia per queste riflessioni è indicata nel citato scritto di Tony Blair: “Se l’Occidente vorrà portare nel 21° secolo i propri irrinunciabili valori, ci vorrà impegno. Tra alti e bassi. Quando è difficile oltre che quando è facile. Occorre fare in modo che gli alleati abbiano fiducia e che gli avversari siano prudenti. E’ necessario accumulare una reputazione per la costanza e il rispetto dell’orizzonte dei valori e per l’abilità nella sua attuazione. E’ opportuno che una parte della destra politica capisca che l’isolamento in un mondo interconnesso è controproducente e che una parte della sinistra accetti l’idea che l’intervento a volte può essere necessario per sostenere i nostri valori”.
Da queste riflessioni e dalle scelte che ne scaturiranno dipenderà la visione che il mondo ha di noi e la nostra visione di noi stessi.

Foto del “Corriere della Sera”

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Noi siamo migliori

Si chiama Annamaria Tribuna.
Per la precisione Maggiore Annamaria Tribuna, perché è un ufficiale e un pilota dell’Aeronautica Militare italiana. Una pilota “combat ready” (pronta al combattimento) sui C-130J, esperta di missioni ad altissimo livello.
L’altro ieri, sulla pista di Kabul, era ai comandi di un C130 della nostra Aeronautica Militare con a borgo numerosi profughi afghani e alcuni giornalisti.
A seguito di alcune raffiche di mitragliatrice partite dai pressi dello scalo Annamaria ha effettuato una serie di manovre evasive per proteggere il velivolo e i passeggeri. Nessuno è rimasto ferito e nessun danno è stato riportato dal velivolo.
Un ufficiale di cui andiamo fieri. Una donna.
Nel frattempo i talebani hanno invitato i leader religiosi locali a fornire loro un elenco di ragazze di età superiore ai 15 anni e vedove con meno di 45 anni per costringerle a sposare i combattenti talebani, hanno dato la caccia alle donne magistrato, ritenendo blasfemo che una donna possa essere giudice, hanno stabilito che per le donne sia meglio restare a casa e non lavorare e le hanno cacciate dalla televisioni e dalla radio.
I loro rivali dell’ISIS, impegnati a mostrarsi ancor più fanatici, ne hanno fatte saltare in aria a decine nei pressi dell’aeroporto di Kabul, ovviamente insieme ai loro bambini.
Dobbiamo avere il coraggio di dirlo: non siamo eguali a loro. Un abisso etico, culturale e morale ci divide.
Saremo anche cinici, molte volte egoisti, troppo spesso indifferenti. Ma ci sono principi e valori essenziali e non negoziabili che appartengono al nostro patrimonio culturale e non al loro.
Per questo migliaia di donne terrorizzate tentano la fuga dall’Afghanistan, così come tanti ragazzi che, pur non avendo vissuto il regime talebano di vent’anni fa, hanno imparato a conoscerlo in pochi giorni.
Per questo la smobilitazione decisa dalla coppia Trump e Biden – peraltro trasformatasi in una fuga disordinata e indecorosa – è un errore di portata storica che offende la storia.
Abbiamo un dovere morale verso i nostri valori essenziali e non negoziabili.
Abbiamo un obbligo storico verso tante donne e ragazzi afghani.
Perché noi non siamo come i Talebani o come l’Isis.
Noi siamo diversi e, lasciatemelo dire, siamo migliori.

In una foto dell’Aeronautica Militare il capitano Tribuna, 6 dicembre 2020. Grazie all’ANSA.
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In questa lettera c’è davvero tutto

Il quotidiano statunitense “Politico” ha pubblicato oggi una lettera di un giornalista afghano.
Eccone alcuni brani:

Tanti giornalisti mi stanno chiamando. Ho paura per le loro vite. È la notte peggiore della mia vita per me e migliaia di altri. Pensavamo che gli americani non ci avrebbero abbandonato…
Non avremmo mai potuto immaginare e credere che sarebbe successo. Non avremmo mai immaginato di poter essere traditi così gravemente dagli Stati Uniti. La sensazione di tradimento è immensa.
C’erano molte promesse, molte garanzie. Si parla tanto di valori, si parla tanto di progresso, di diritti, di diritti delle donne, di libertà, di democrazia. Tutto si è rivelato vuoto.
Se avessi saputo che questo impegno era temporaneo, non avrei rischiato la vita. Sto cercando un modo per andarmene. Probabilmente ho un grosso bersaglio sulla schiena. Se dicessi “non ho paura”, mentirei.
La gente qui è scioccata dal ritiro degli Stati Uniti dall’Afghanistan. Non avrebbero mai potuto immaginare questo. Migliaia di persone saranno uccise. Gli Stati Uniti non hanno più l’autorità morale per dire: “Crediamo nei diritti umani. Lottiamo per i diritti umani e la democrazia”.
Non mi interessa se è l’amministrazione Trump o l’amministrazione Biden. Credevo negli Stati Uniti, ma si è rivelato un grosso errore
“.

In questa lettera c’è davvero tutto.

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Trump, Biden e le metastasi in Occidente

Le truppe degli Stati Uniti, seguite da quelle della “coalizione occidentale”, hanno ormai abbandonato l’Afghanistan.
La Casa Bianca e il Pentagono hanno sprecato un fiume di parole per tentare di attribuire una qualche dignità al ritiro annunciato dal presidente Biden. Inutilmente, perché non v’è traccia di dignità nella decisione di Biden, peraltro in assoluta continuità con le intenzioni del suo predecessore Trump.
La presenza dei militari occidentali nel paese asiatico non era un esercizio di tardo colonialismo, né, per una volta, un accaparramento di risorse naturali.
Era una difesa di principi non negoziabili di dignità umana. Era un tentativo di debellare l’orrore talebano.
Vogliamo fare un breve ripasso? Ventotto sono i divieti espressamente previsti per le donne, dal divieto assoluto di uscire di casa se non accompagnate da un parente stretto a quello assoluto di studio. Dal divieto all’uso di cosmetici (per le donne con lo smalto sulle unghie è previsto il taglio delle dita!) a quello di ridere ad alta voce. Dalla proibizione di mostrare le caviglie (oltre al viso e al resto del corpo, ovviamente) a quella di affacciarsi al balcone.
Vi sono poi norme e divieti validi per donne, uomini e bambini. Dal divieto di ascoltare musica a quello di guardare la televisione. Dalla proibizione di leggere libri non islamici (pena la morte) a quella di applaudire alle rare manifestazioni sportive, dove è lecito solo cantare “allah-o-akbar” (Dio è grande). Dal divieto di far volare gli aquiloni sino all’obbligo per le sparute minoranze non islamiche di portare cucito sui vestiti un pezzo di stoffa gialla per poter essere evitati (vi ricorda qualcosa?).
Il Presidente degli Stati Uniti ha affermato che al ritiro avrebbe fatto seguito un accordo tra i talebani e le truppe regolari dell’Afghanistan. Mentiva sapendo di mentire.
In solo tre giorni i talebani hanno conquistato cinque capoluoghi di provincia, instaurando da subito il terrore.
Due sono le considerazioni che sorgono spontanee.
La prima, inevitabile, è che il Jihad (nella sua becera versione odierna) è vincente.
Le frange terroristiche dell’islamismo sunnita non hanno mai avuto premura, confidando nella storia. Osama bin Laden diceva, rivolgendosi agli occidentali: “Voi avete gli orologi, noi abbiamo il tempo”. I fatti gli danno ragione.
La lezione che sta circolando in questi giorni, con grande entusiasmo, nei forum degli estremisti jihadisti è che, sul lungo termine, il terrorismo e la violenza pagano.
Vi è una ulteriore considerazione: dopo che avremo assistito – nei prossimi mesi – al riformarsi del cancro talebano in Afghanistan, non ci resterà che attendere le metastasi che – come negli scorsi anni – torneranno a diffondersi in Occidente.
Come le vittorie dello Stato Islamico (peraltro nemico giurato dei talebani) entusiasmarono migliaia di esaltati estremisti, poi ridotti ai minimi termini dalla sua successiva sconfitta, così la vittoria dei talebani darà nuova linfa ed entusiasmo ai combattenti – anche in Europa – di Al Qaida.
Quando, dopo aver assistito al sudario di orrore che soffocherà donne e uomini afghani, saremo raggiunti da queste metastasi sarà però troppo tardi.
Altro non ci rimarrà che ricordare le pavide bugie di Biden.

Foto di Sputnik Italia – © 2021 МИА “Россия сегодня”