Rammentatela domani, quando l’onda retorica del 25 novembre vi sommergerà in un profluvio di immagini e di belle frasi erroneamente attribuite.
Ma soprattutto tenetela presente quando udirete le roboanti e indignate dichiarazioni dei partiti politici e dei loro leader, tutti affratellati dallo sdegno per la violenza sulle donne.
Perché quando si tratta di impegnarsi realmente in tale direzione la risposta è tutta in questa foto, scattata ier l’altro, il 22 novembre.
La Ministra per le Pari Opportunità Elena Bonetti, vestita di rosso, mascherina compresa, perché il rosso è il colore scelto per la Giornata contro la Violenza sulle donne, illustra alla Camera una mozione sull’argomento, enunciando alcune importanti misure a sostegno delle vittime, tra cui il microcredito di libertà e il reddito di libertà.
Peccato che su 630 deputati siano presenti in 8!
Un sintomo profondo del disinteresse della politica per un tema che è divenuto solo strumento di propaganda e palestra di retorica.
Quando Elena Bonetti ha scandito, ad alta voce, che sono 108 le donne vittime di femminicidio quest’anno, l’eco della sua voce nell’aula vuota è divenuta un “j’accuse” irrevocabile verso un’intera classe politica.
Non sto facendo del facile qualunquismo.
Non si tratta di porsi contro il sistema basato sulla democrazia parlamentare che, al contrario, è il miglior metodo di governo ad oggi conosciuto.
Non si tratta di criticare il metodo democratico, ma di bollare di incapacità, egoismo e inefficacia la classe politica che incarna questo sistema.
Non è il metodo da cambiare, ma le persone che lo incarnano oggi.
A Reggio Emilia Juana Cecilia Hazana Loayza, una donna di origini peruviane, è stata trovata morta in un parco pubblico. Sul collo aveva un’ampia ferita da arma da taglio. A infliggerla sarebbe stato Mirko Genco, ventiquattrenne di Parma, che da tempo perseguitava la donna. A Sassuolo, poche ore prima, Nabil Dahir aveva barbaramente ucciso la sua ex compagna Elisa Mulas, la mamma della donna, Simonetta Fontana, e i due figli di 2 e 5 anni. Lo stesso giorno Anna Bernardi è stata uccisa dal marito nella loro casa: dopo averle tagliato la gola l’uomo ha provato a togliersi la vita, Senza riuscirci. Potrei proseguire per molte pagine. Quelle necessarie a contenere i nomi e le storie delle 108 vittime di femminicidio nei primi dieci mesi del 2021. Sono consapevole che se parlerà a lungo tra pochissimi giorni, il 25 novembre, giornata contro la violenza delle donne. Ma sono altresì convinto che proprio la pletora di commemorazioni e l’onda lunga di addolorato sdegno dettato dalla ricorrenza rendano il tema tanto solenne e liturgico quanto destinato a svanire il giorno dopo nell’oblio del quotidiano. Per questo scrivo queste considerazioni oggi, in una data diversa da quella destinata alla commemorazione, nella speranza che la riflessione sia più attenta e meno scontata. 108 vittime in 11 mesi: una donna morta ogni tre giorni. Stando ai dati del Viminale 96 omicidi sono stati commessi in ambito familiare e 68 donne sono state uccisa da partner o ex partner. Mentre il totale degli omicidi in Italia, nel corso degli ultimi 5 anni, è diminuito del 28%, il numero dei femminicidi è invece notevolmente aumentato. Questi ultimi, rispetto al totale delle uccisioni, sono infatti aumentati dal 35 al 44 per cento. Ormai quasi un omicidio su due, in Italia, è un femminicidio. Nonostante le tante “panchine rosse” si rischia ormai, proprio per la frequenza del crimine e l’assuefazione allo stesso, di rendere invisibili le vittime, con un faro che ormai si accende solamente il 25 novembre, con una ritualità che si insinua stancamente nella rassegnazione. Che fare per arginare questa tragedia? Innanzitutto dobbiamo ragionare in termini di adeguamento giuridico. E’ vero che, nel corso degli ultimi anni, alcune novazioni sono state introdotte, dalla legge del 2013 al cosiddetto codice rosso del 2019, ma i risultati ancora non si vedono. Se è vero che – come risulta dai dati pubblicati dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla violenza sulle donne – il 63% delle vittime non aveva mai denunciato le violenze subite, è tuttavia triste che coloro che lo hanno fatto ne abbiano tratto ben poco beneficio. Si tratta, in prima istanza, di una mancata “formazione” del personale deputato a raccogliere le denunce e ad assumere i provvedimenti conseguenti. Leggendo la relazione della Commissione cogliamo perfettamente, in molti casi, un modo di ragionare che ci proietta indietro nel tempo. In molti piccoli centri, in cui dovrebbe essere proprio il fattore della conoscenza personale ad aiutare nella lettura della violenza e del rischio, alcune delle donne uccise hanno chiesto aiuto alle forze dell’ordine rappresentando la paura e la difficoltà di denunciare o la presenza di armi e sono state dissuase dal farlo, sono state rassicurate e rimandate a casa. In alcuni casi le forze di polizia, non distinguendo tra violenza domestica e lite familiare, nonostante il tangibile terrore della donna, si sono limitate a “calmare gli animi” (come si legge testualmente nei verbali). Ai pubblici ministeri la Commissione rimprovera invece una difficoltà a riconoscere la violenza nelle relazioni intime e una non adeguata conoscenza dei fattori di rischio. Anche qui si tratta di un problema di formazione. Un giudice deve cogliere segnali, decodificare comportamenti, inoltrarsi nei risvolti psicologici di chi agisce con violenza. Allora saprà valutare meglio il rischio che corre la donna e di conseguenza prendere provvedimenti adeguati. Il che non sempre significa affidarsi alla mera applicazione del diritto, perché agire secondo legge non sempre basta a scongiurare il peggio, Dobbiamo a mio parere giungere, in caso di comportamenti persecutori verso la donna, al “braccialetto elettronico”, oggi impossibile in quanto serve il permesso dell’interessato e non esiste alcuna norma che indichi il carcere quale alternativa a tale strumento. Ma aldilà dell’aspetto normativo è essenziale anche una svolta culturale. La relazione della Commissione Parlamentare ha rilevato alcune problematiche persino nel linguaggio usato nelle sentenze e nelle molte archiviazioni. Spesso la pregressa condotta violenta dell’uomo viene definita “relazione burrascosa, tumultuosa, turbolenta, instabile…”, anche a fronte di precedenti denunce della vittima per gravi maltrattamenti. Le vittime di femminicidio vengono spesso chiamate per nome, gli imputati per cognome, così generando una discriminazione anche linguistica, non giuridicamente giustificabile. Le vittime non sono descritte rispetto al loro contesto sociale e professionale, ma indicate come madri, mogli e figlie, cioè rispetto al loro ruolo familiare. Infine quando svolgono attività di prostituzione vengono chiamate prostitute e non con nome e cognome, così stigmatizzandole in partenza. Ma il vero nucleo di cambiamento culturale è rappresentato dal binomio scuola e famiglia, laddove devono essere eradicati stereotipi arcaici ma pericolosi ancora presenti per creare una nuova visione di genere basata su rispetto e uguaglianza. Molte scuole si stanno attivando per realizzare progetti promossi dal Dipartimento delle Pari Opportunità e finanziati dalla Commissione Europea per prevenire la violenza sulle donne. L’educazione alla parità tra i sessi e alla prevenzione della violenza di genere deve entrare a far parte del Piano dell’Offerta Formativa di ogni istituto e investire in maniera trasversale tutte le discipline, anche mediante la scelta oculata dei libri di testo. Sono queste le iniziative necessarie a combattere la piaga del femminicidio. Senz’altro più efficaci delle panchine rosse inaugurate ogni 25 novembre, in una giornata per molti sconfinata nella retorica.
25 novembre: “Giornata mondiale contro la violenza sulle donne”.
La gran parte della stampa, nei suoi titoli, scrive che si “celebra” tale giornata. Forse un termine poco felice, se inteso nel suo significato di “festeggiare solennemente con cerimonie varie” (cfr. Treccani). Meglio sarebbe forse dire che si “ricorda” la violenza sulle donne, al limite che si “commemora”.
Perché la cosa davvero importante è riflettere, analizzare e diventare più consapevoli di questo gravissimo problema.Un dramma che, ben lontano dall’essere risolto, è addirittura peggiorato nel corso del 2020.
Partiamo dall’aspetto più efferato: il femminicidio. Nei primi dieci mesi del 2020 le donne vittime di femminicidio sono state 91, una ogni tre giorni, come ci dice il VII Rapporto Eures – Ricerche Economiche e Sociali. L’incidenza del contesto familiare nei femminicidi raggiunge nel 2020 il valore record dell’89%, superando il già elevatissimo 85,8% registrato nel 2019. La coppia continua a rappresentare il contesto relazionale più a rischio per le donne, con 1.628 vittime tra le coniugi, partner, amanti o ex partner negli ultimi 20 anni. Uccise da colui che dovrebbe declinare il proprio sentimento in gesti di protezione.
Ma le forme di violenza non si limitano all’uccisione. Una disanima in tal senso è stata recentemente illustrata in uno studio della facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università Politecnica delle Marche a cura del sociologo Alberto Pellegrino. Esiste la violenza domestica, esercitata soprattutto nell’ambito familiare o nella cerchia di conoscenti, attraverso minacce, maltrattamenti fisici e psicologici, atti persecutori, stalking, percosse, abusi sessuali, delitti d’onore, femminicidi passionali o premeditati. Una forma particolare di violenza familiare è la violenza economica, che consiste nel controllo del denaro da parte del partner, nel divieto d’intraprendere attività lavorative esterne all’ambiente domestico, nel controllo delle proprietà e nel divieto ad ogni iniziativa autonoma rispetto al patrimonio della donna.
Esiste poi una violenza esercitata sul posto di lavoro, dove le donne sono esposte ad abusi e ricatti sessuali. Si tratta di una sopraffazione molto sottostimata nelle sue manifestazioni fisiche e sessuali, che va da una forma di maschilismo soft basato su battute, offerte di protezione e tentativi di seduzione per arrivare alle violenze fisiche e a tutti i tipi di molestie sessuali. Ci sono forme di maltrattamenti psicologici che entrano a far parte dei rapporti di lavoro e che finiscono per essere considerati come inevitabili, pur provocando uno stato d’insofferenza e di disagio nelle donne che sentono di essere considerate come un oggetto, caricate di eccessive responsabilità e di paure con minacce vaghe o palesi.
Vediamo ancora qualche cifra, fornita dall’ISTAT Istituto Nazionale di Statistica, per meglio cogliere la dimensione della situazione nel nostro Paese. Il 31,5% delle 16-70enni (6 milioni 788 mila) ha subìto nel corso della propria vita una qualche forma di violenza fisica o sessuale: il 20,2% (4 milioni 353 mila) ha subìto violenza fisica, il 21% (4 milioni 520 mila) violenza sessuale, il 5,4% (1 milione 157 mila) le forme più gravi della violenza sessuale come lo stupro (652 mila) e il tentato stupro (746 mila). Le donne subiscono minacce (12,3%), sono spintonate o strattonate (11,5%), sono oggetto di schiaffi, calci, pugni e morsi (7,3%). Altre volte sono colpite con oggetti che possono fare male (6,1%). Meno frequenti le forme più gravi come il tentato strangolamento, l’ustione, il soffocamento e la minaccia o l’uso di armi. Tra le donne che hanno subìto violenze sessuali, le più diffuse sono le molestie fisiche, cioè l’essere toccate o abbracciate o baciate contro la propria volontà (15,6%), i rapporti indesiderati vissuti come violenze (4,7%), gli stupri (3%) e i tentati stupri (3,5%).
Particolare allarme desta la nuova fattispecie di reato denominata “diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti” (chiamata spesso “revenge porn”), con 718 denunce nel corso del 2020 (oltre – ovviamente – al “sommerso” non denunciato per vergogna). Due video intimi di donne al giorno vengono diffusi illecitamente da fidanzati o ex fidanzati al fine di umiliarle o ricattarle. E’ di pochi giorni fa il caso di Torino, laddove un delinquente che aveva avuto una relazione con una maestra ne ha diffuso un video intimo. Con il risultato che la maestra è stata licenziata dalla preside, a suo dire per le pressioni dei genitori. Il che da un lato dimostra che talora i genitori sono i peggiori esempi per i figli e dall’altro che manca ancora un sistema scolastico adeguato, che avrebbe già provveduto a rimuovere dall’incarico la preside in questione, non foss’altro che per il “clamor fori” dei fatti.
E se tutto questo non bastasse le vicende legate al Covid hanno accentuato ancor più le situazioni difficili. La pandemia ha agito da amplificatore, aggiungendo isolamento a isolamento: la quarantena ha trasformato la casa di tante in una trappola. Le ha difese dal coronavirus, ma le ha lasciate in balia dei partner. Le chiamate al numero verde 1522, il centralino del Dipartimento Pari opportunità, nei primi 10 mesi dell’anno sono aumentate superando nel solo periodo considerato i livelli degli anni precedenti, con le vittime salite a quota 12.833 al 30 ottobre.
Che cosa possiamo fare dinnanzi a tale stato delle cose?
Qualcosa, certamente, dovrà essere fatto a livello istituzionale. Non a caso nello scorso mese di ottobre il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa ha bocciato nuovamente l’Italia, responsabile di ostacolare l’accesso alla giustizia alle donne vittime di violenza. Per questo resterà sotto vigilanza rafforzata e dovrà fornire, entro il 31 marzo del 2021, le informazioni sulle misure adottate per garantire un’adeguata ed efficace valutazione del rischio che corrono le donne che denunciano violenza e dimostrare la concreta applicazione delle leggi. L’Italia è stata anche sollecitata a fare di più per la prevenzione della violenza e per garantire la presenza dei Centri antiviolenza e delle risorse a loro disposizione.
Ma un compito importante spetta a tutti noi: quello di combattere quotidianamente gli stereotipi di genere ancora così diffusi. Quelli secondo i quali un italiano su tre, anche tra i giovani, ritiene accettabile la violenza contro la donna tramite soli schiaffi, pensa che le donne che non vogliono un rapporto sessuale riescano a evitarlo e che le donne possano provocare la violenza sessuale con il loro modo di vestire. Come emerso in una audizione presso la Camera dei Deputati. Dobbiamo controbattere ogni qualvolta ci capita di ascoltare simili scempiaggini.
Analoga attenzione deve essere rivolta alla stampa. Alcuni quotidiani fanno della minimizzazione della violenza una costante editoriale. Si veda, ad esempio, l’articolo di Vittorio Feltri di ieri su Libero. Ma anche quotidiani ben più attendibili spesso si esibiscono in cadute di stile magari involontarie ma non per questo meno pericolose. Un esempio? Il Sole 24 Ore, quotidiano certamente molto serio e che oggi pubblica un ottimo servizio in tema di violenza sulle donne, l’altro giorno, nel commentare lo stupro operato da un noto imprenditore napoletano che ha fondato il famoso sito di “facile.it”, ha scritto: “Un vulcano di idee che, al momento, è stato spento” e proseguiva descrivendo i successi di studio e professionali dell’uomo accusato di aver drogato e stuprato una ragazza ad una “festa” in casa sua. Sbagliato! Avrebbe dovuto definirlo, molto più sinteticamente, un autentico stronzo consumatore abituale di droga. Punto. Bisogna dire, a onor del vero, che, di fronte alla reazione indignata di molte persone e delle stesse giornaliste del quotidiano, il Sole 24 Ore ha modificato sulla rete l’articolo e si è pubblicamente scusato. Questa è una reazione che dobbiamo avere ogni giorno: non comprare quotidiani misogini e – nel caso di incaute espressioni da parte di quelli seri – esprimere protesta e indignazione. Una piccola cosa? Non credo. Un passo importante nella lotta agli stereotipi di genere.
Molto ci sarebbe ancora da dire, ma mi sono già dilungato abbastanza. Oggi assisteremo, soprattutto sui social, a un florilegio di belle foto, di intriganti citazioni, di slogan accattivanti. Bene, ma poco. Superficialità autoassolutoria. Caliamo il nostro rifiuto nel quotidiano, nella vita di ogni giorno. Con piccoli ma importanti gesti che combattano ogni ancor minima giustificazione alla violenza.La battaglia culturale contro la violenza sessuale deve passare attraverso un’educazione alla sessualità e all’amore, per valorizzare l’incontro tra i sessi come un incontro tra differenze. Questo tipo di formazione non può prescindere da un’educazione al rispetto dell’altro, dalla convinzione che la domanda d’amore non può mai coincidere con il sopruso. La forma più alta d’amore è anche amare la differenza, di cui la donna è il simbolo.