politica · società

La tragedia del nostro Paese

Un anno fa, il 18 marzo 2020, vennero pubblicate le foto di decine di camion dell’esercito incolonnati, uno dietro l’altro, nel silenzio dell’alba, per trasportare i morti di Bergamo, per i quali non c’era più posto nel camposanto della città, verso i forni crematori di altre regioni.
Fu con quell’immagine che percepimmo tutti la tragedia rappresentata dal Covid.
Sino a quel 18 marzo dello scorso anno i morti per questo virus erano 2.978. Oggi sono oltre 103.000.
Tutti abbiamo una persona cara che ha sofferto, è stata ricoverata, spesso, purtroppo, è morta.
In assoluta solitudine. Perché questa malattia fa sì che si muoia soli, senza neppure una persona cara accanto per l’ultimo conforto.
Eppure, nonostante questo, ancor oggi vi sono non solo folli negazionisti, ma anche “minimizzatori”. Quelli del “Sì, va bene, però…”. Con una penosa serie di tesi, osservazioni, distinguo…
Mi rammentano il Don Ferrante del XXXVII capitolo dei “Promessi Sposi” di Manzoni:

…primo parlar che si fece di peste, don Ferrante fu uno de’ più risoluti a negarla, e sostenne costantemente fino all’ultimo, quell’opinione; non già con ischiamazzi, come il popolo; ma con ragionamenti, ai quali nessuno potrà dire almeno che mancasse la concatenazione.
“In rerum natura,” diceva, “non ci son che due generi di cose: sostanze e accidenti; e se io provo che il contagio non può esser né l’uno né l’altro, avrò provato che non esiste, che è una chimera. E son qui. Le sostanze sono, o spirituali, o materiali. Che il contagio sia sostanza spirituale, è uno sproposito che nessuno vorrebbe sostenere; sicché è inutile parlarne. Le sostanze materiali sono, o semplici, o composte. Ora, sostanza semplice il contagio non è; e si dimostra in quattro parole. Non è sostanza aerea; perché, se fosse tale, in vece di passar da un corpo all’altro, volerebbe subito alla sua sfera. Non è acquea; perché bagnerebbe, e verrebbe asciugata da’ venti. Non è ignea; perché brucerebbe. Non è terrea; perché sarebbe visibile. Sostanza composta, neppure; perché a ogni modo dovrebbe esser sensibile all’occhio o al tatto; e questo contagio, chi l’ha veduto? chi l’ha toccato? Riman da vedere se possa essere accidente. Peggio che peggio. Ci dicono questi signori dottori che si comunica da un corpo all’altro; ché questo è il loro achille, questo il pretesto per far tante prescrizioni senza costrutto. Ora, supponendolo accidente, verrebbe a essere un accidente trasportato: due parole che fanno ai calci, non essendoci, in tutta la filosofia, cosa più chiara, più liquida di questa: che un accidente non può passar da un soggetto all’altro. Che se, per evitar questa Scilla, si riducono a dire che sia accidente prodotto, dànno in Cariddi: perché, se è prodotto, dunque non si comunica, non si propaga, come vanno blaterando. Posti questi princìpi, cosa serve venirci tanto a parlare di vibici, d’esantemi, d’antraci… ?”
“Tutte corbellerie,” scappò fuori una volta un tale.
“No, no,” riprese don Ferrante: “non dico questo: la scienza è scienza; solo bisogna saperla adoprare. Vibici, esantemi, antraci, parotidi, bubboni violacei, furoncoli nigricanti, son tutte parole rispettabili, che hanno il loro significato bell’e buono; ma dico che non han che fare con la questione. Chi nega che ci possa essere di queste cose, anzi che ce ne sia? Tutto sta a veder di dove vengano.”…
“La c’è pur troppo la vera cagione,” diceva; “e son costretti a riconoscerla anche quelli che sostengono poi quell’altra così in aria… La neghino un poco, se possono, quella fatale congiunzione di Saturno con Giove. E quando mai s’è sentito dire che l’influenze si propaghino…? E lor signori mi vorranno negar l’influenze? Mi negheranno che ci sian degli astri? O mi vorranno dire che stian lassú a far nulla, come tante capocchie di spilli ficcati in un guancialino?… Ma quel che non mi può entrare, è di questi signori medici; confessare che ci troviamo sotto una congiunzione così maligna, e poi venirci a dire, con faccia tosta: non toccate qui, non toccate là, e sarete sicuri! Come se questo schivare il contatto materiale de’ corpi terreni, potesse impedir l’effetto virtuale de’ corpi celesti! E tanto affannarsi a bruciar de’ cenci! Povera gente! brucerete Giove? brucerete Saturno?”
His fretus, vale a dire su questi bei fondamenti, non prese nessuna precauzione contro la peste; gli s’attaccò; andò a letto, a morire, come un eroe di Metastasio, prendendosela con le stelle.
”.

società

Il tramonto del mondo

Si chiamava Marco Querini e aveva 64 anni.
Stamane sulla strada Roma Fiumicino si è accorto che dall’auto che lo precedeva erano volate in strada, uscite dal finestrino, banconote per alcune migliaia di euro.
Insieme ad altri automobilisti Marco si è fermato ed ì sceso dall’auto per raccoglierne un po’.
Un imprudenza che gli è costata cara: infatti è stato investito da un auto che sopraggiungeva in quel momento.
Una tragedia dovuta a imprudenza.
Ma ciò che rende assurda questa vicenda è che, mentre i soccorritori cercavano di rianimare Marco, gli altri automobilisti, impassibili dinnanzi alla morte di un uomo, proseguivano tranquillamente e freneticamente a raccogliere il denaro, spintonandosi tra loro.
In una scena il tramonto di un mondo.

cultura · politica · società

8 marzo: nulla da festeggiare, molto su cui riflettere

8 marzo: Giornata internazionale della Donna.
Una ricorrenza, anche quest’anno, diversa dal solito.
Una giornata priva di quella pletora di orpelli e banalità che ne offuscavano il reale significato: nessuna mimosa, niente cene, nessun evento ludico.
L’assenza di questi paludamenti ci permette però di cogliere meglio i reali problemi sui quali occorre soffermarci, perché quella odierna è la Giornata della Donna, non la Festa, come vorrebbero esigenze commerciali.
Il primo di questi problemi è certamente la violenza che quotidianamente le donne subiscono. Undici vittime di femminicidio dall’inizio dell’anno. Una tendenza apparentemente inarrestabile: a partire dal 2000 le donne uccise in Italia sono state 3.344.
Oltre a quella estrema del femminicidio permangono molte altre forme di violenza sulle donne. Secondo un recente studio dell’Università di Padova, in Italia il 31,5% delle donne tra i 16 e i 70 anni ha subito una qualche forma di violenza fisica o sessuale nel corso della propria vita. Significa che sono circa 7 milioni le donne che, almeno una volta nella vita, sono state vittime di qualche tipo di violenza. 4 milioni e 353 mila donne hanno subito violenza fisica, 4 milioni 520 mila violenza sessuale, 1 milione 157 mila le forme più gravi della violenza sessuale come lo stupro (652 mila) e il tentato stupro (746 mila).
Dobbiamo anche riflettere sul rapporto tra la donna e il mondo del lavoro.
L’Eu Gender Equality Index ha certificato come il nostro rimanga “l’ultimo Paese in termini di divari nel campo del lavoro”. Lo scorso anno il tasso di occupazione femminile risultava ancora inchiodato al 50,1% (e con la pandemia è sceso di nuovo sotto questa soglia), marcando una distanza di ben 17,9 punti percentuali da quello maschile. I divari territoriali sono molto ampi: il tasso di occupazione delle donne è pari al 60,2% al Nord e al 33,2% al Sud.
In Italia, inoltre, il calo dell’occupazione femminile durante l’emergenza Covid è stato il doppio rispetto alla media Ue, con 402mila posti di lavoro persi tra aprile e settembre 2020.
Nel solo mese di dicembre dello scorso anno si sono persi 101 mila posti di lavoro: 99 mila di questi erano occupati da donne.
Rimane insopportabile anche la differenza di reddito tra generi: “L’Italia presenta oggi uno dei peggiori gap salariali tra generi in Europa”. Sono parole del premier Mario Draghi, il quale è stato chiaro nel suo discorso programmatico al Senato: il divario di genere in Italia deve essere una priorità e, fra le azioni da intraprendere, c’è quella di colmare la differenza di salario fra uomini e donne.
Vi è ancora quell’odioso e strisciante fenomeno del sessismo volgare e intimidatorio. Un atteggiamento pericolosamente diffuso e, purtroppo, non limitato a fasce limitate e marginali del mondo maschile.
Da quanto detto appare chiaro che non occorrono mimose o frasi melense che durino lo spazio di una giornata. E’ necessario un sostanziale cambiamento di mentalità ma soprattutto, nelle more di questo, occorrono precisi provvedimenti legislativi idonei a governare e accelerare questa trasformazione.
Per quanto riguarda il contrasto alla violenza si impone lo stanziamento in via prioritaria di finanziamenti adeguati per il contrasto alla violenza e l’elaborazione di soluzioni che permettano di fornire una risposta coordinata: i centri anti violenza e le case rifugio nel nostro paese sono poche e senza fondi. Uno studio dell’organizzazione WAVE (Women Against Violence Europe) ha mostrato come nonostante la Convenzione di Istanbul del Consiglio d’Europa prescriva che ogni Stato disponga di un posto letto in casa rifugio ogni 10.000 abitanti, nel nostro paese manchi l’87% del numero previsto.
E’ altresì necessario riformare profondamente la normativa del cosiddetto “codice rosso”, che si sperava potesse intervenire efficacemente sul tema e che, invece, si è rivelata un fallimento. Il problema è che si è fatta una mera enunciazione di principi, senza la necessaria copertura finanziaria. La legge, infatti, è a “invarianza finanziaria”, ossia non prevede ulteriori fondi. Va fatto tutto con le risorse che già ci sono – e che, la realtà ha dimostrato, non bastano. Non sono previste disponibilità per permettere alle procure di fare fronte ai tempi e ai numeri; non ci sono fondi per potenziare i Centri anti violenza, né per la formazione del personale che si ritrova a raccogliere la denuncia delle donna.
Così accade che, poche settimane fa, Clara Ceccarelli, una donna minacciata da tempo dal proprio ex compagno, si sia pagata il proprio funerale nella certezza di finire assassinata, cosa effettivamente avvenuta pochi giorni dopo.
Per quanto attiene la discriminazione in campo economico e del lavoro possiamo e dobbiamo far nostre le proposte provenienti dall’Europa, ben più lungimirante dell’Italia su questo tema. L’uguaglianza di genere e le pari opportunità per tutti, secondo le direttive UE, dovranno essere tenuti in considerazione nella preparazione e attuazione dei piani per la ripresa e la resilienza, che saranno presentati dagli Stati membri al fine di beneficiare delle risorse del Dispositivo per la ripresa e la resilienza Next generation EU con una dotazione finanziaria di 672,5 miliardi di euro, di cui circa 209 miliardi per l’Italia. Secondo quanto prevede il nuovo regolamento istitutivo del dispositivo, recentemente approvato in via definitiva da Parlamento europeo e Consiglio, i piani dovranno esplicitare le modalità con cui le misure dovrebbero contribuire alla parità di genere. Il Presidente Draghi ne è ben consapevole e l’ha posto tra gli obiettivi del governo nel suo intervento al Senato. Così deve essere.
Per quanto concerne l’ingiuria sessista occorre passare dal biasimo all’azione, anche legale. Occorre che tutti i protagonisti vengano perseguiti in sede penale. Così come è necessario che, laddove l’apparato pubblico possa intervenire direttamente, lo faccia. Per cui se un professore universitario si rivolge a una donna impegnata in politica non già dicendo che le sue tesi sono sbagliate e incompetenti (tesi peraltro condivisibile) ma apostrofando questa donna come “vacca” e “scrofa” deve subito essere subito sospeso dall’insegnamento, come fortunatamente avvenuto: non deve essere per lui possibile interfacciarsi con la platea studentesca, affinché non possa trasmettere la volgarità e lo squallore che alberga nel suo pensiero. Se un cosiddetto opinionista, peraltro straniero, non trova pensiero più intelligente che definire “escort” la moglie di un presidente sulla base di un pregiudizio (o – forse – di becera invidia) ci troviamo dinnanzi a un piccolo e insignificante uomo, che non deve più apparire alla televisione pubblica.
Più in generale qualunque soggetto insulti una donna con frasi sessiste, nella vita o sui social, deve essere perseguito penalmente e rispondere adeguatamente della sua meschinità.
Tutto questo in attesa di un nuovo pensiero diffuso, in cui la donna sia non già eguale ma naturalmente sinergica all’uomo, in un processo di armonioso sviluppo basato sulla eguaglianza e sul rispetto.
Che non è cosa di un giorno, ma conquista definitiva.
Dice un proverbio cinese che le donne sostengono la metà del cielo.
Ma io aggiungo che così facendo rendono migliore anche l’altra metà.

politica · società

Una violenza non più tollerabile

Ancora un messaggio di violenza e di odio da un rapper.
Si tratta di Fuma, giovane rapper udinese, che nel videoclip del singolo “Audi” canta in un garage mentre un poliziotto è appeso, esanime, a testa in giù e un bambino assiste alla scena.
Il testo è altrettanto chiaro: “fanculo alla volante all’angolo”, “non so tu che dici, prendere un proiettile per i miei amici, mentre camionette prendono fuoco”…
Non solo: nel video è presente un bambino che assiste all’osceno entusiastico dimenarsi di un branco di scalmanati, gli stessi che inneggiano sotto al corpo penzolante dell’agente di polizia appeso a testa in giù.
Indecente e vergognoso. In un periodo di crescente violenza, scandita dal timore di imminenti tensioni sociali, non è tollerabile consentire messaggi di odio verso le forza dell’ordine.
I poliziotti sono donne e uomini, sono madri e padri, sorelle e fratelli, oltre che garanti della sicurezza soprattutto dei più deboli. Persone che anche in questo periodo di covid sono sempre state in prima linea, mettendo quotidianamente a repentaglio la loro salute.
Mi aspetto che anche Audi intervenga sul caso, a tutela dell’onorabilità del suo marchio. Il nome della casa automobilistica infatti non solo è il titolo del brano, ma è anche ricorrente nel testo. Inoltre il rapper protagonista del video sfoggia vistosamente i simboli del marchio.
E’ necessaria una ferma risposta a questa infamia. Sia perché si tratta di brani essenzialmente destinati a un pubblico di giovanissimi, spesso minori, sia perché è giunta l’ora di mettere fine a una demenziale propaganda intrisa di odio e di violenza.

società

Una barbarie da estirpare

Quotidianamente, ormai, si celebra la giornata internazionale di qualche evento.
Addirittura con una certa esagerazione. Il che non è bene, in quanto – come diceva Confucio – l’eccesso non è meglio dell’insufficienza.
Dal che occorre, per dare il giusto rilievo, operare una cernita tra i fatti celebrati o ricordati.
In questa ottica di selezione non è a mio avviso possibile tacere la tragedia che si ricorda oggi, attraverso la celebrazione della “Giornata internazionale contro l’infibulazione e le mutilazioni genitali femminili”, istituita dalle Nazioni Unite nel 2003.
Le mutilazioni genitali sono una gravissima violazione dei diritti umani e un abuso irreversibile nei confronti dell’integrità fisica delle donne e, nella maggior parte dei casi, delle bambine.
Questa pratica comporta l’incisione o l’asportazione del prepuzio clitorideo oppure la rimozione totale o parziale delle grandi e delle piccole labbra per mezzo di coltelli, lamette, cocci e altri oggetti taglienti, spesso sporchi, quasi sempre senza anestesia. L’igiene insufficiente e la tecnica inadeguata provocano regolarmente emorragie o infezioni spesso letali. Molte ragazze soffrono tutta la vita per le conseguenze di una mutilazione: dolori insopportabili durante i rapporti sessuali e le mestruazioni, sterilità e complicanze durante il parto. Senza contare, ovviamente, le ferite dell’anima.
Ad oggi, secondo stime dell’Onu, sarebbero almeno 200 milioni le donne in vita che hanno subito interventi sui genitali, ancora oggi ampiamente praticati in una trentina di Paesi dell’Africa. In alcuni Stati del Corno d’Africa, Gibuti, Somalia ed Eritrea oltre che in Egitto e Guinea, l’incidenza del fenomeno rimane altissima, toccando il 90 per cento della popolazione femminile. Le mutilazioni genitali sono comuni anche in India, Indonesia, Iraq, Pakistan, Yemen oltre che in alcuni gruppi indigeni dell’America latina. Persistono anche tra le popolazioni immigrate in Nord America, Australia, Nuova Zelanda e in Europa, dove secondo uno studio dell’Europarlamento sarebbero circa mezzo milione le donne sfregiate negli organi riproduttivi con interventi eseguiti clandestinamente.
Le giustificazioni più spesso addotte sono di carattere culturale, come il mantenimento delle tradizioni, il miglioramento della fertilità, la promozione di una coesione sociale e culturale all’interno delle comunità, la prevenzione della promiscuità, la promozione dell’igiene femminile e la preservazione della verginità. Tutte falsità, naturalmente.
E’ altresì un errore imputare a un fattore religioso il mantenimento di questa barbarie.
Nessun gruppo religios organizzata, né di ispirazione cristiana né islamica, la accetta o la propugna.
Si tratta in realtà di una barbarie che affonda le radici in alcuni aspetti sottoculturali locali, tribali in certo senso, che nulla hanno a che fare con la religione. Diciamo la cruda realtà: lo scopo essenziale, aldilà di ogni alibi, è quello di eliminare nella donna la possibilità di provare qualsivoglia piacere sessuale.
Proprio per questo aspetto di “controllo” sul piacere e sul corpo della donna la pratica è antichissima e, sebbene in forme meno cruente, ha goduto di insospettabili complicità anche in epoche e Paesi a noi ben più vicini. Alcuni studiosi ne fanno risalire le origini a un periodo tra il 4.000 e il 3.000 avanti Cristo. Erodoto parla di “recisione”, attribuendone l’uso a Fenici, Hittiti, Etiopi ed Egiziani. Ma ha continuato a esercitare il suo diabolico fascino anche in tempi e civiltà più vicine a noi: Isaac Ray, uno psichiatra inglese del XIX secolo, dichiarava che gli organi riproduttivi delle donne in taluni casi andavano rimossi per la loro “nota tendenza a favorire comportamenti criminali” mentre, fino alla seconda metà del XX secolo, in Europa e Stati Uniti si ricorreva diffusamente alla cosiddetta clitoridectomia per scopi terapeutici nella cura di “patologie” quali isteria, malinconia, masturbazione eccessiva, ninfomania. Perfino la notissima rivista Lancet ne promuoveva gli effetti benefici, mentre in Inghilterra si trovano esempi di escissione del clitoride nel trattamento dei disturbi caratteriali fino a tutti gli anni ’40 del XX secolo.
Da restare sbigottiti.
In tutta Europa sono state emanate normative contro le mutilazioni genitali femminili, ma con scarsi risultati: in tutti i Paesi le condanne si contano sulle dita di una mano, soprattutto per l’assenza di denunce. Unica eccezione la Francia, con oltre 180 condanne. Fatto paradossale, se pensiamo che quest’ultimo è l’unico Paese senza una legislazione specifica.
In realtà, secondo i magistrati d’oltralpe, non sarebbe necessaria. Linda Weil-Curiel, legale francese che ha difeso le vittime di mutilazione in oltre quaranta processi, ha giustamente affermato: “una norma ad hoc è inutile e fuorviante: basta il Codice penale, che in qualsiasi Stato punisce le lesioni permanenti. Il Codice penale è più efficace di una proliferazione di nuove norme difficili da applicare. Serve forse una legge speciale per punire chi amputa una mano o un orecchio?”.
Secondo Linda, accanto ad una intensa opera di sensibilizzazione tra le comunità che praticano tali mutilazione, è assolutamente necessario un secondo fattore: la certezza per chi esegue gli interventi di finire in prigione per un lungo periodo. Talmente giusto da sconfinare nel lapalissiano.
Vorrei trasmettere adeguatamente l’orrore che suscitano le mutilazioni.
Per questo mi affido al racconto di una scrittrice somala naturalizzata olandese, Ayaan Hirsi Ali, che descrive la sua esperienza.

Poi toccò a me. Ormai ero terrorizzata. Quando avremo tolto questo «kintir» (clitoride) tu e tua sorella sarete pure, disse mia nonna. Dalle sue parole e degli strani gesti che faceva con la mano, sembrava che quell’orribile kintir, il mio clitoride, dovesse un giorno crescere fino a penzolarmi tra le gambe. Mi afferrò e mi bloccò la parte superiore del corpo…
Altre due donne mi tennero le gambe divaricate. L’uomo che era un cinconcisore tradizionale appartenente al clan dei fabbri, prese un paio di forbici. Con l’altra mano afferrò quel punto misterioso e cominciò a tirare…
Vidi le forbici scendere tra le mie gambe e l’uomo tagliò piccole labbra e clitoride. Sentii il rumore, come un macellaio che rifila il grasso da un pezzo di carne. Un dolore lancinante, indescrivibile e urlai in maniera disumana.
Poi vennero i punti: il lungo ago spuntato spinto goffamente nelle mie grandi labbra sanguinanti, le mie grida piene di orrore … Terminata la sutura l’uomo spezzò il filo con i denti…
Mi addormentai, credo, perché solo molto più tardi mi resi conto che le mie gambe erano state legate insieme, per impedire i movimenti e facilitare la cicatrizzazione…
Non c’è più tutto il tessuto necessario perché le gambe possano essere divaricate completamente. Nessuna farà più la spaccata. Anche dare un calcio a un pallone può essere impossibile, come andare a cavallo o, nei casi più gravi, nuotare a rana. Dove le infezioni riducono ulteriormente il tessuto, le donne non possono più divaricare le gambe per accovacciarsi e urinare.
Era buio e mi scoppiava la vescica, ma sentivo troppo male per fare pipì. Il dolore acuto era ancora lì e le mie gambe erano coperte di sangue. Sudavo ed ero scossa dai brividi. Soltanto il giorno dopo la nonna mi convinse a orinare almeno un pochino.
Oramai mi faceva male tutto. Finché ero rimasta sdraiata immobile il dolore aveva continuato a martellare penosamente, ma quando urinai la fitta fu acuta come nel momento in cui mi avevano tagliata…
”.

Un fenomeno tragico, per noi impensabile. Proprio il suo essere per noi inconcepibile lo rende difficile da sconfiggere. E’ un dramma radicato in aree lontane dalla nostra quotidianità. Oppure, se a noi vicino, segretamente praticato nelle comunità chiuse degli immigrati.
Una tragedia – tuttavia – con numeri terribili: si stima che solo quest’anno oltre quattro milioni di ragazze saranno sottoposte a questa pratica.
I governi degli Stati in cui le Mutilazioni Genitali Femminili sono ancora diffuse devono sviluppare Piani di azione nazionali per porre fine a questa pratica. Per essere efficaci, questi piani devono prevedere risorse di bilancio dedicate ai servizi per la salute sessuale e riproduttiva, all’istruzione femminile, al welfare e ai servizi legali. Credo sia doveroso subordinare ogni aiuto economico all’assolvimento di tali impegni.
Per quanto riguarda l’Europa è necessaria una capillare opera di educazione e sensibilizzazione delle ragazze immigrate, magari già nate nei nostri Paesi, per strapparle dal rispetto di presunte tradizioni che sono solo orrore. Inoltre bisogna indagare a fondo e reprimere duramente quelle realtà clandestine che nei nostri territori praticano le mutilazioni.
Se non cambieranno le cose nel 2021 ci saranno 8 mutilazioni al minuto. Quante altre bambine dovranno morire o trascorrere menomate il resto della loro vita?
Respingiamo tutti questo orrore e combattiamolo.
E’ un impegno di civiltà.
La difesa della vita, dell’integrità e della dignità delle bambine è un valore non negoziabile, neppure dietro il ridicolo alibi della difesa delle tradizioni altrui.
La civiltà deve imporsi, in questo caso, sulla barbarie.
Altrimenti non merita di definirsi civiltà.

cultura · società

Oggi dobbiamo ricordare: più che mai

Il 27 gennaio 1945, l’Armata Rossa aprì i cancelli di Auschwitz.

Per questo l’ONU, nel 2005, ha stabilito che in questa data venga celebrata la Giornata della Memoria, in ricordo della Shoah.

Il nostro Paese ha anticipato la decisione delle Nazioni Unite, istituendo questa giornata commemorativa nel luglio del 2000, al fine di ricordare le vittime, le leggi razziali e coloro che hanno messo a rischio la propria vita per proteggere i perseguitati ebrei, nonché tutti i deportati militari e politici italiani nella Germania nazista.

Ricordare l’Olocausto è oggi ancora più importante che in passato.

Innanzitutto per l’inesorabile venir meno degli ultimi testimoni in grado di riportarci testimonianze dirette.

Ma anche, e soprattutto, per il progressivo e inquietante risorgere di un pensiero antisemita che sempre più spesso si traduce in atti di intimidazione e di violenza.

Nel corso del 2020, secondo i dati dell’Osservatorio antisemitismo della Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea di Milano, sono stati ben 230 gli episodi di violenza e intimidazione contro il mondo ebraico in Italia. Con un’allarmante crescita rispetto ai 181 episodi del 2018, ai 64 del 2015 e ai 16 del 2012.

A questo dato bisogna aggiungere un permanente clima di sospetto e ostilità.

L’Istituto di ricerca Solomon, in collaborazione con Euromedia Research, ha effettuato uno studio sull’antisemitismo in Italia che ha prodotto dati poco incoraggianti. Il 16 per cento degli italiani si è dichiarata “non favorevole” all’ebraismo (per la cronaca il 14% è anche ostile al cristianesimo). Circa un italiano su dieci ritiene che gli ebrei dispongano di un eccessivo potere economico e finanziario, che non abbiano cura della società in cui vivono ma soltanto della loro cerchia religiosa, che si ritengano superiori agli altri e che siano causa di molti dei conflitti che insanguinano il mondo. E se solo due italiani su cento non credono nell’Olocausto, sono oltre il diciassette per cento quelli che ritengono che il genocidio sia stato ingigantito nelle sue proporzioni dagli storici (ovviamente su pressioni degli ebrei) oppure che dichiarano di non essere certi delle esatte dimensioni. Un’altra ricerca condotta da Vox ha verificato i sentimenti negativi verso gli ebrei nell’ambito degli elettorati dei diversi partiti, con un risultato ancora una volta poco rassicurante. La percezione del pericolo insito nell’antisemitismo è molto bassa in tutta le forze politiche, senza una grandissima distinzione tra elettorato di destra e di centrosinistra.

Le cose non vanno meglio nel mondo.

Negli Stati Uniti l’organizzazione complottista QAnon sta vivendo una fase di caos interno, legato alla mancata realizzazione delle loro “profezie” e alla delusione per la “resa” di Trump, visto ormai come un traditore.

Mentre i fondatori paiono essersi defilati, potrebbe realizzarsi un altro e più pericoloso scenario, prefigurato dal prof. Brian Friedberg, un esperto di tecnologia e discriminazioni dell’università di Harvard.

Friedberg ha spiegato che i suprematisti bianchi e i movimenti neonazisti potrebbero riempire il vuoto lasciato dal fondatore Q – che non ha ancora postato un messaggio dopo l’insediamento di Biden – per indirizzare la rabbia e le credenze dei seguaci di QAnon contro gli ebrei. Travis View, un giornalista che conduce il podcast più seguito sul movimento QAnon, ha fatto notare che ormai i suoi seguaci condividono molte teorie complottiste con l’estrema destra statunitense ed europea, fra cui la credenza che finanzieri ebrei controllino segretamente i governi di tutto il mondo.

Anche per questo dobbiamo celebrare con convinzione questa giornata, rileggendo le testimonianze di quel che accadde.

Dobbiamo riflettere su come sia stato possibile annientare ogni senso di umanità, non solo nei carnefici ma anche nelle vittime. In uno dei racconti del libro “Paesaggio dopo la battaglia”, dello scrittore polacco Tadeusz Borowskj, sopravvissuto ad Auschwitz, si narra che mentre una colonna di donne avanzava agitando le braccia e gridando “aiuto!”, perché condotte alle camere a gas, oltre diecimila uomini osservarono la scena nel più profondo silenzio e nell’inerzia totale. Una indifferenza che segnerà con un senso di colpa il resto della vita dei superstiti.

L’indifferenza e l’ignavia di tanti Paesi furono efficaci complici del genocidio. Ha scritto Georges Bensoussan, nella sua opera “Storia della Shoah”, che nelle alte sfere internazionali l’informazione era diffusa molto più di quanto si sia a lungo creduto. La conoscenza dei massacri di massa della popolazione ebraica è stata quasi concomitante con la loro esecuzione. Gli inglesi, intercettando e decriptando i telegrammi tedeschi, ne furono informati sin dall’inizio. Ma tennero segrete quelle informazioni fondamentali. Un comportamento altrettanto imperdonabile fu tenuto dagli Stati Uniti: il Governo americano disponeva di una conoscenza perfetta del genocidio (nel giugno del 1942, un rapporto ufficiale menzionava che «la Germania non perseguita più gli ebrei. Li stermina sistematicamente»). Tuttavia rifiutò di intraprendere qualsiasi azione concreta al fine di ostacolare la “soluzione finale”, come ad esempio il bombardamento delle linee ferroviarie che portavano ad Auschwitz. Parve a loro più importante, il 20 agosto 1944, il bombardamento una fabbrica situata a meno di 10 chilometri da Birkenau.

L’indifferenza coinvolse anche la popolazione comune, sia prima che – incredibilmente – dopo la liberazione. Racconta Edith Bruck, sopravvissuta a ben sette campi di concentramento nei quali fu successivamente trasferita: “Quando ero nei campi e lottavo tutti i giorni per sopravvivere, pensavo: «se ne uscirai viva il mondo ti chiederà perdono in ginocchio». E invece quando siamo tornati dai campi abbiamo scoperto con profondo dolore che il mondo continuava a tenere gli occhi chiusi, che non ci voleva vedere. Che eravamo soltanto un peso. Con mia sorella ci siamo dette «ma perché siamo sopravvissute, perché abbiamo lottato per la vita?». È stato un momento molto amaro. Eravamo molto sole”.

Hitler non fu un castigo di Dio: si limitò a sfruttare abilmente le gravi condizioni sociali createsi nel primo dopoguerra.

La Germania, infatti, uscì devastata dal conflitto mondiale. I debiti di guerra sommati alla crisi economica mondiale del 1929 minarono profondamente la stabilità dell’economia tedesca, bruciando i risparmi della classe media e provocando una massiccia disoccupazione. L’inquietudine sociale ed economica che ne seguì destabilizzò fortemente la giovane democrazia tedesca e portò alla nascita di molti partiti vicini alla destra radicale e populista. La classe più colpita dalla crisi fu la piccola borghesia, il cosiddetto ceto medio. Forse la vittoria dei nazisti, come sostenne Bloch a posteriori, poteva essere evitata. Ma allora il problema non era tanto la forza della destra, bensì l’incapacità delle forze democratiche di comprendere quanto stesse accadendo nel paese reale. L’errore strategico fu quello di non aver letto e interpretato la domanda di cambiamento della classe media impoverita, consegnandola alla propaganda nazionalsocialista.

Una situazione che, mutatis mutandis, rammenta quella odierna, soprattutto in Italia, con la profonda crisi economica creata dall’epidemia di Covid, la perdita di sicurezza della classe media, la disoccupazione destinata ad esplodere al termine del blocco dei licenziamenti e lo scivolamento verso la povertà di milioni di persone. Una classe politica culturalmente inadeguata e incline alle alchimie di un perverso bizantinismo meramente partitico e bottegaio rischia di lasciare aperta la strada a rigurgiti di violenza e di riflusso antidemocratico, potenzialmente veicolabili in apparati politici populisti tesi alla devastazione della pacifica convivenza civile. Occorre uno slancio alto verso una ricostruzione che sia al tempo stesso economica e morale. E’ necessario un utilizzo intelligente delle ingenti risorse economiche che l’Europa ci ha messo a disposizione, senza che le stesse vengano disperse in numerosi e inutili rivoli destinati a mere soddisfazione clientelari di breve respiro.

Accanto a questo sforzo è necessario ribadire con forza la adesione di tutti agli irrevocabili valori illuministici ed europei di fratellanza, di eguaglianza e di rifiuto di ogni discriminazione.

Oggi, quindi, è ancora più necessario ricordare il genocidio ebraico.

La Shoah fu una indescrivibile tragedia che deve continuare a interrogarci. Non possiamo scordare, né dobbiamo farlo, le immagini dei campi di sterminio. Dobbiamo inciderci nella mente le testimonianze di tanta disumanità, che non risparmiò neppure i bambini: furono oltre un milione e mezzo quelli che vi trovarono la morte.

Elie Wiesel, scrittore ebraico trasferitosi negli Stati Uniti dopo la fine della guerra, prigioniero ad Auschwitz, Monowitz e Buchenwald fra il 1944 e il 1945, ha raccontato l’impiccagione di un bambino insieme a due adulti: “I due adulti non vivevano più. La lingua pendula, ingrossata, bluastra. Ma la terza corda non era immobile: anche se lievemente, il bambino viveva ancora… Più di una mezz’ora restò così, a lottare fra la vita e la morte, agonizzando sotto i nostri occhi. E noi dovevamo guardarlo bene in faccia. Era ancora vivo quando gli passai davanti. La lingua era ancora rossa, gli occhi non ancora spenti. Dietro di me udii qualcuno domandare: «Dov’è dunque Dio?». E io sentivo in me una voce che gli rispondeva: «Dov’è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca…»”.

Ha scritto Elsa Binder, diciassettenne ebrea che viveva nella Polonia invasa dalla Germania nazista: “Non ridiamo più. Una parola divertente è abbastanza per farci sentire in colpa. Quando mi dimentico di me stessa per un attimo, quando canticchio o fischietto, mi appare immediatamente una processione di amici che non giocheranno o piangeranno più con noi”.

Oggi, ancora una volta e ancora più di prima, dobbiamo ricordare.

Oggi, più ancora di sempre, dobbiamo dire mai più!

politica · società

Le radici della violenza

Ogni qual volta ci troviamo a condannare la violenza sulle donne ribadiamo che fertile humus di questa piaga sono i luoghi comuni e le offese sessiste verso di loro.

Quando queste offese avvengono addirittura sulle reti pubbliche televisive lo sconforto ci dovrebbe sgomentare.

L’ennesimo triste esempio è di pochi giorni fa, allorquando nel corso della trasmissione “Unomattina”, su RAI 1, l’opinionista Alan Friedman, collegato via Skype per commentare l’addio di Trump alla Casa Bianca, aveva definito la moglie Melania come una “escort”.

Affermazione, purtroppo accompagnata da qualche risatina in studio.

Non si possono più tollerare questi atteggiamenti, così come non è accettabile che la differenza di opinioni e di pensiero possa in alcun modo costituire un’attenuante alla volgarità.

Un insulto sessista è una canagliata, che sia diretto a Melania Trump, a Teresa Bellanova, a Laura Boldrini, a Giorgia Meloni o alla cassiera del bar sotto casa!

Concordo pienamente con quanto scritto da Mara Carfagna: “Garbo e rispetto sono, innanzitutto, un obbligo dell’educazione, quella che ci hanno insegnato le nostre madri e le nostre nonne: la cosa più tradizionale e identitaria che io possa immaginare, la più popolare che mi venga in mente. Ma, oggi, il rifiuto interiore del sessismo – quello che dovrebbe impedire di far commenti sulle donne come i vecchi pappagalli a bordo strada – dovrebbe essere anche precondizione di ogni impegno politico e giornalistico”.

Mi aspetto che la RAI, in ossequio al suo ruolo di servizio pubblico, si astenga per un lungo periodo dall’invitare tale presunto opinionista nelle proprie trasmissioni.

Melania Trump non è una “escort”, ma più semplicemente la moglie di Donald Trump.

Così come Friedman non è un opinionista, ma più semplicemente un poveraccio.

cultura · società

Ricordando Paolo Borsellino

Il 19 gennaio 1940 nasceva a Palermo Paolo Borsellino.

Borsellino era nato nella Kalsa, l’antico quartiere di origine araba di Palermo, zona di professori, commercianti ed esponenti della media borghesia.

Ancora ragazzo conobbe Giovanni Falcone, che abitava a poche decine di metri da lui e che gli fu compagno nella magistratura e, purtroppo, nella morte.

Si laureò in giurisprudenza a soli 22 anni, ma – sino al conseguimento della laurea in farmacia della sorella Rita – dovette occuparsi della farmacia del padre, scomparso improvvisamente a soli 52 anni.

Entrò quindi in magistratura, divenendo il più giovane magistrato d’Italia.

Dopo vari incarichi Borsellino, nel 1975, venne trasferito all’Ufficio istruzione del tribunale di Palermo. Fu allora che strinse un rapporto molto stretto con il suo superiore Rocco Chinnici, il quale, prima di essere ucciso nel 1983, istituì il cosiddetto “pool antimafia”, un gruppo di giudici istruttori che, lavorando in gruppo, si sarebbero occupati solo dei reati di stampo mafioso. Borsellino fu confermato nel pool anche dal successore di Chinnici, Antonino Caponnetto. A metà anni 80 Falcone e Borsellino istituirono il maxi-processo di Palermo, basato sulle dichiarazioni del pentito Tommaso Buscetta. Per ragioni di sicurezza furono costretti a trascorrere un periodo all’Asinara, insieme alle rispettive famiglie. Lo storico procedimento nell’aula bunker dell’Ucciardone portò, nel 1987, a 342 condanne.

La sua vita, a seguito delle condanne inflitte nel maxi-processo, divenne ogni giorno più a rischio, così come quella di Giovanni Falcone.

La mafia aveva ormai deciso la loro uccisione.

Anche il clima intorno ai magistrati antimafia cominciò a farsi pesante. Chiacchiere e critiche si insinuarono sempre più insidiose, giungendo anche da lidi insospettabili.

Leoluca Orlando accusò Giovanni Falcone di tenere nei cassetti prove contro i politici mafiosi. Lo stesso Orlando, sindaco di Palermo, nel corso di una puntata della trasmissione Sarmarcanda, condotta da Michele Santoro su Rai Tre, il 24 maggio 1990 lanciò un’accusa gravissima contro Orlando e Borsellino: “il pool ha una serie di omicidi eccellenti a Palermo e li tiene chiusi dentro il cassetto”.

Esasperato dalle insinuazioni, Falcone ebbe così a sfogarsi: “Non si può investire della cultura del sospetto tutto e tutti. La cultura del sospetto non è l’anticamera della verità, la cultura del sospetto è l’anticamera del komeinismo…Io sono in grado di resistere, ma altri colleghi un po’ meno. Io vorrei che vedeste che tipo di atmosfera c’è adesso a Palermo”.

Lo scrittore Leonardo Sciascia, dal canto suo, ebbe a scrivere, con riferimento ad una promozione ricevuta da Borsellino: “I lettori, comunque, prendano atto che nulla vale più, in Sicilia, per far carriera nella magistratura, del prender parte a processi di stampo mafioso”. L’intervento di Sciascia, pubblicato dal quotidiano “Corriere della Sera”, dette origine all’espressione “professionisti dell’antimafia”, che risultava essere il titolo dell’articolo.

Nel suo ultimo discorso pronunciato a Casa Professa, a Palermo, pochi giorni prima di essere ucciso, Borsellino, a proposito di quel testo di Sciascia, disse: “Dal momento in cui fu pubblicato, Giovanni Falcone cominciò a morire”.

E la morte di Falcone arrivò, il 23 maggio 1992, in quella che venne chiamata la strage di Capaci, nella quale, oltre al magistrato, persero la vita la moglie Francesca Morvillo e tre uomini della scorta.

Iniziarono, con la morte di Giovanni Falcone quelli che furono chiamati i 57 giorni di Paolo Borsellino, alludendo al periodo che intercorse dall’omicidio di Falcone al suo.

In quei 57 giorni Borsellino fu un “dead man walking”, un morto che cammina, e lo fu pubblicamente, alla luce del sole.

Borsellino sapeva di essere ormai nel mirino”, disse Antonino Caponnetto in un’intervista con Gianni Minà nel 1996, “soprattutto lo seppe negli ultimi giorni prima della sua morte. Il giovedì ebbe la comunicazione indubitabile… la certezza assoluta che il tritolo per lui era già arrivato a Palermo. Per prima cosa si attaccò al telefono, chiamò il suo confessore. Disse: puoi farmi la cortesia di venire subito? E appena quello lo raggiunse nel suo studio, disse: senti, per cortesia, confessami e impartiscimi la comunione”.

Da venti giorni Paolo Borsellino aveva chiesto alla questura la rimozione degli autoveicoli dalla zona antistante l’abitazione della madre. Inutilmente. E proprio una vettura lì posteggiata determinò la sua morte.

Era il 19 luglio 1992. In via d’Amelio, proprio sotto la casa della mamma del magistrato, i killer mafiosi fecero esplodere una Fiat 126 contenente oltre 100 chilogrammi di Tritolo. Nell’attentato persero la vita, oltre a Paolo Borsellino, gli agenti di scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.

A Palermo tutti sapevano che Paolo Borsellino sarebbe stato ucciso. Ha scritto sul quotidiano “La Stampa” Francesco La Licata: “Lo sapevamo noi giornalisti che frequentavamo il “Palazzaccio”, lo sapevano i palermitani che ne parlavano liberamente nei bar e nei salotti (più o meno “buoni”). Lo sapeva anche Paolo Borsellino che ne parlò apertamente, ossessionato dal timore di non riuscire «a fare in tempo»”.

Ricordare Paolo Borsellino, così come Giovanni Falcone, è doveroso.

Per il loro sacrificio, per i loro successi che hanno reso la mafia più debole.

Ma soprattutto per il loro esempio.

A loro e a tutti coloro che ancora oggi sono in prima fila nella lotta alla mafia ben si addicono i versi della poetessa bulgara Blaga Dimitrova: “Nessuna paura che mi calpestino, calpestata l’erba diventa sentiero”.

società

La morte di un pianista

Si chiamava Adriano Urso e aveva 41 anni.
A molti di voi il suo nome dirà poco, ma tra gli amanti del jazz era molto noto.
Non un comune pianista ma, come raccontano gli estimatori, “il” pianista.
Un uomo dolce, di grande cultura, che parlava con una cordialità di altri tempi usando termini della lingua italiana a dir poco in disuso. Così lo descrivono i tanti suoi amici e appassionati di musica.
La crisi provocata dall’epidemia di Covid, con le chiusure dei locali, lo aveva messo in ginocchio, come tanti altri suoi colleghi e operatori dello spettacolo.
Adriano, per campare, si era messo a fare il cosiddetto “rider”: consegnava cene per conto del marchio Just Eat.
L’altra sera Adriano stava effettuando una consegna con la sua auto, una Fiat 750 d’epoca. L’auto si è fermata, forse a causa del freddo, forse a causa degli anni. Il pianista è sceso a spingere la vettura, aiutato da due passanti. Improvvisamente un malore. Adriano si è accasciato ed è morto di infarto.
Una vittima, indiretta, di questa maledetta epidemia. Della crisi economica che sta devastando il nostro Paese.
Un segnale di quanto probabilmente ci attende tra poco, quando cesserà il blocco dei licenziamenti.
Un monito a una classe politica sempre più distante dal Paese reale, dedita a una crisi di governo mentre la gente muore.
Di covid o per la crisi economica dallo stesso causata.

cultura · società

Il lumicino della ragione

Impensabile, lo scorso 31 dicembre, immaginare un anno così terribile.I romani utilizzarono l’espressione “annus horribilis” per definire il 69 dopo Cristo, contraddistinto da 12 mesi di guerra civile e dal susseguirsi di ben quattro imperatori.Bagatelle, in confronto al 2020.L’irrompere improvviso di un nuovo virus ha sconvolto le nostre vite.Dopo un’iniziale fase di superficiale sottovalutazione – ricorderete a febbraio il virologo di fiducia di Fazio parlare di “rischio zero” per l’Italia – questa tragedia si è progressivamente dipanata in un crescendo inarrestabile.Ottantatre milioni di casi nel mondo. Oltre due milioni in Italia, con settantacinque mila vittime.Un’economia devastata. Due milioni di famiglie sul baratro della povertà assoluta e una consistente fetta della classe media che sembra in ginocchio. Uno scivolamento di un milione e mezzo di famiglie della piccola borghesia verso l’indigenza.Ulteriori aggravamenti sono prevedibili con la cessazione dell’attuale blocco ai licenziamenti. Complicanze alle quali faranno seguito ipotizzabili problematiche di ordine pubblico. Tutti – in qualche modo – siamo stati colpiti da questa tragedia.In molti hanno perso i loro cari e comunque tutti siamo stati toccati dal lutto e dal dolore.Tutti siamo scesi nella notte di un cupo Ragnarok, in cui inimmaginabili forze oscure hanno scatenano la loro cieca furia.Ci hanno abbandonato figure care e molti progetti e sogni si sono frantumati quali fragili scialuppe sulle aguzze scogliere del dolore.Per questo non ho pubblicato alcun augurio per Natale. Dentro di me risuonava cantilenante il celebre verso di Quasimodo: “E come potevamo noi cantare…”.Ora ci attende un nuovo anno: un confuso coacervo di inestinguibili speranze e di rassegnate disillusioni.Un incerto cammino verso una nuova forma di lontana normalità. Il vecchio mondo è finito. Dobbiamo accettare la sfida di percorrere sentieri nuovi e percorsi sin qui inesplorati.Auspicando di ritrovare i valori che si impongano sulla sbandierata povertà morale che ha reso irrespirabile l’aria del nostro quotidiano.Invocando l’educazione che superi ogni volgarità e sconfigga il latrato insopportabile di un ormai tracotante egoismo.Dobbiamo abbandonare i vecchi e consunti stereotipi di appartenenza che accompagnavano i giorni, facendo dei nostri pensieri uno stucchevole echeggiare di ridondanti banalità. Affidiamoci al dubbio e abbracciamo la ragione che – come amava dire Norberto Bobbio – non è un lume ma soltanto un lumicino. Unico strumento, tuttavia, per procedere in mezzo alle tenebre.Perché la sobrietà del pensiero si imponga sulle grida stridule delle paure scomposte.Perché cessi alfine quel penoso riflettersi soltanto nei propri bisogni e che lo specchio che ci poniamo dinnanzi divenga limpido vetro per osservare il mondo.Perché il soffio tiepido della cultura vinca la tetra ignoranza, semenza perenne della prepotenza più cinica e della più vile violenza.Accatastiamo pure i nostri scatoloni di dolore e di nostalgia: altrimenti non potrebbe essere. Ma sediamoci su di essi con accanto una persona con la quale guardare al futuro ed alla quale prendere la mano, affinché il cuore vi si addormenti.Abbiate un barlume di fiducia. Non nella natura, che è dolce e affettuosa solo nei film di Disney. Non nell’uomo, capace dell’egoismo più atroce.Ma in un oscuro disegno tracciato per ciascuno di noi. Lo coglieremo strada facendo, amando e proteggendo. Rendendo degna la vita.E allora, di nuovo, ci scopriremo a respirare. Perché la fine, a volte, sa farsi nuovo inizio.