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Buona Pasqua!

Pasqua significa “passaggio”, “passare oltre”, dall’aramaico pasah.
Abbiamo bisogno anche noi di passare oltre.
Oltre questo momento davvero difficile, fonte di preoccupazioni per tutti noi.
Lo scenario che ci circonda è inquietante.
Da due anni la guerra ha fatto la sua ricomparsa in Europa, e l’unica soluzione pare quella di inondare di armi uno dei due contendenti, senza alcun spiraglio per la ricerca di soluzioni. Certamente arricchendo le industrie belliche. Rendendo vieppiù baldanzosa una parte. Ma allontanando sempre più ogni speranza di pace.
Difficile essere precisi, perché le spese militari sono il più delle volte secretate.
Ma sui circa 34 miliardi di euro in armi consegnati all’Ucraina dalla sola Unione Europea, circa il 10, 12 per cento proviene dall’Italia. Tenendo conto anche degli aiuti “logistici”, il totale di spese stanziate dal nostro Paese potrebbe arrivare a circa 16 miliardi. Il 10% del totale della spesa per la sanità.
A questa guerra si è aggiunto, da qualche mese, un nuovo conflitto in Medio Oriente, dalle conseguenze imprevedibili.
Inoltre, messi in ombra dai nuovi sviluppi bellici, i terroristi dell’ISIS hanno deciso di ritagliarsi un loro sanguinoso spazio, con il feroce attentato a Mosca. Probabilmente irritati dal fatto che i nuovi protagonisti del conflitto mediorientale siano – come Hezbollah e Huthi – islamici “sciiti”, l’unica progenie che gli islamici “sunniti” dell’ISIS odiano più ancora del “grande satana” rappresentato dall’Occidente.
Purtroppo, lo scenario quotidiano nell’Occidente ancora in pace non è alieno da momenti di grande sconforto.
E’ sufficiente scorrere la cronaca in Italia degli ultimi giorni: genitori che malmenano un preside per la sospensione del figlio. Una adolescente che pugnala una coetanea aizzata dalle compagne di classe che riprendono la scena con il telefono. Un presunto rampollo della cosiddetta nobiltà che con un machete amputa la gamba a un ragazzo per motivi – pare – di gelosia. Ovunque stupri e la piaga quasi quotidiana dei femminicidi.
Ma in tutto questo le aperture degli organi d’informazione sono dedicate alla crisi coniugale di una nota influencer ovvero ai comportamenti di un cosiddetto divo della pornografia. Io, se mi consentite un giudizio personale, trovo di per sé penoso che una major dell’intrattenimento abbia ritenuto di realizzare una serie su Rocco Siffredi. Volendo dar voce al non conformismo, sempre e comunque. Ancorché amorale e becero.
Non è migliore il quadro nell’altra parte del cosiddetto “Occidente”, quella meno colta e più tecnologica. Gli Stati Uniti, alle prese con la scelta di un presidente tra due candidati che non esito a definire perlomeno imbarazzanti, vivono immersi in una palude di violenza e antagonismi, laddove la mala pianta dell’individualismo più esacerbato – cullato e coccolato dall’iperliberismo – ha scardinato quello che la propaganda aveva a lungo dipinto come sogno americano.
Questo “Occidente”, mutilato nei suoi valori cardine e vittima di un dilagante egocentrismo autolesionista, non è oggi in grado di poter indicare ad altri una via maestra di civiltà e umanesimo.
Non è un caso che ormai decine di Paesi nel mondo, rappresentanti di ben oltre la metà della sua popolazione e di oltre un terzo del PIL globale, aderiscano al gruppo dei BRICS, acronimo che dal 2001 indica le principali economie emergenti non occidentali, nel cui ambito il ruolo guida spetta a Cina e Russia.
Queste nazioni accusano l’Occidente di una volontà egemonica arbitraria, ma – soprattutto – ne denunciano una decadenza fatale, che si manifesterebbe nell’accettazione di costumi innominabili e nell’alimentare qua e là diversi conflitti. Presagio, questo, di un avvenire poco invidiabile.
Significa che il futuro sia necessariamente una cupa discesa verso una inevitabile Armageddon?
No, non credo proprio.
Proprio la Pasqua imminente ci richiama a uno spirito di speranza che ci può e ci deve coinvolgere profondamente.
Dobbiamo iniziare un percorso di “conversione”, altro termine legato alla ricorrenza pasquale. Di ritorno non solo alla proclamazione, ma alla pratica di valori morali che sentiamo ancora presenti in noi.
E’ un percorso individuale, inizialmente, il solo che possa incidere sullo scenario globale.
Non dobbiamo aspettarci nulla dalla politica “sgangherata” e non credibile di oggi, un sistema ridondante di personalismi incoerenti mossi da interessi para-elettorali e non certo da una visione alta del futuro.
Cominciamo dalle piccole cose, come la gentilezza per esempio.
Dobbiamo riappropriarci di questa parola antica e quasi in disuso nelle pratiche odierne: gentilezza. Non per stucchevole buonismo o per lusingare sentimenti emozionali, ma per aprire nuovi sentieri di fiducia e di speranza, lasciando qualche traccia minima e luminosa nel buio che ci circonda.
Dobbiamo rendere più vivibile e leggibile il mondo con la grazia sottile di un gesto che in questa fase può essere davvero rivoluzionario. Le parole non sono mai inerti quando definiscono un impegno: gentilezza vuol dire rispetto, sensibilità, cura, attenzione, affetto, ecologia umana da contrapporre alla maleducazione urlante che viaggia sulla rete e circola, mascherata da egoismi o ragion di Stato, anche nelle stanze del potere.
Dobbiamo sconfiggere il disegno di atomizzare sempre più l’individuo, di renderlo singola particella in conflitto con il resto.
Mi è piaciuta un’espressione di Aleksandr Dugin (anche se questo nome potrebbe far arricciare il naso a qualcuno…), secondo cui nel soggetto vuoto e spinto sempre di più a individualizzarsi non c’è il succo dell’uomo, la sua essenza, ma solo una apparente razionalità; una soggettività chiusa completamente in se stessa, mancante del contatto col prossimo, mancante di quella meravigliosa conseguenza che è il contaminarsi.
Partendo da questi comportamenti individuali ci troveremo ben presto uniti ad altri.
Perché la speranza è inevitabilmente contagiosa: il sogno del singolo è utopia. Quando si fa comune diviene speranza.
In ebraico speranza si esprime con un vocabolo che indica anche la corda. È bello che la speranza abbia un’anima di corda: essa trascina, lega e consente nodi. Nella speranza, quindi, c’è il senso dell’essere legato a qualcuno e a qualcosa che non lascia soli. Anche se non sempre la speranza mostra la sua fibra resistente, è bello sapere che essa ha quella tenacia d’origine. È bello pensare alla speranza come a una corda, a dei legami.
Uscendo dalle dinamiche regressive del proprio individualismo, impareremo a modificare la realtà nella consapevolezza dell’altro, delle sue attese, dei suoi bisogni e delle sue difficoltà.
Non attendiamo oltre.
Nel libro dell’Esodo è scritto che a Pasqua si deve mangiare con i fianchi cinti, i sandali ai piedi, il bastone in mano e in fretta (Es. 12, 11); essa infatti è il segno di un cammino da intraprendere e spinge a mettersi in viaggio.
Un viaggio verso un mondo diverso.
Quello che vogliamo, quello che possiamo ancora costruire.
Buona Pasqua a tutti voi.

Raffaello – “La Resurrezione” – fonte “National Geographic

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Ora e subito!

Tra meno di una settimana Giulia avrebbe ascoltato la commossa retorica della Giornata contro la violenza sulle donne. Probabilmente aveva già letto le locandine di qualche ente locale per la promozione delle iniziative organizzate per l’occasione.
Ma Giulia Cecchettin non avrà modo di assistervi: è stata uccisa con numerose coltellate alla testa e al collo, poi è stata fatta rotolare lungo un dirupo per 50 metri.
Anche Annalisa avrebbe voluto mostrare il suo sdegno per la violenza verso le donne. Ma anche per Annalisa D’Auria questo non sarà possibile: è stata uccisa a coltellate qualche giorno fa dal convivente.
Come non sarà possibile a tantissime altre donne, altre 103 per essere precisi, uccise dal primo gennaio di quest’anno insieme a Giulia e Annalisa.
Anch’io non voglio partecipare alla prosopopea degli officianti la liturgia del 25 novembre, con i vuoti atti di contrizione e l’auspicio di messianici cambiamenti.
Oggi, e non il 25 novembre, è ora di dire basta, unendo però la azioni alle parole.
Non è più sufficiente l’esecrazione, occorre agire.
Si è parlato in questi giorni dell’introduzione nelle scuole di appositi corsi.
Ecco, ancora una volta, che la scuola, trascurata e maltrattata da tutti i recenti governi, diviene d’incanto la panacea di ogni male.
Vi sembra forse che la soluzione possa essere semplicemente l’introduzione di una nuova materia di studio? A me pare piuttosto il desiderio di scaricare su una realtà già provata e priva di risorse responsabilità che – pare nessuno lo voglia ammettere – sono insite nella famiglia.
Certo, la scuola è importante. Ma quanto possibile per una formazione civile degli alunni già gli insegnanti tentano di farlo con il corso di educazione civica che, come da recente circolare del Ministero dell’Istruzione, è finalizzata a consolidare la consapevolezza dei diritti e dei doveri nella cittadinanza futura.
Anche perché, giova ricordarlo, sommando ai femminicidi gli atti di violenza sessuale sulle donne, scopriamo che oltre la metà degli autori ha meno di 35 anni.
Il vero problema sono le famiglie. Quando un genitore non coglie nel figlio i tratti tipici del violento o è complice o è un pessimo genitore. Forse era troppo impegnato a minacciare o picchiare l’insegnante per un brutto voto dato al figlio.
Genitori che umiliano o aggrediscono gli insegnanti, che insegnano che il rispetto è legato alla sopraffazione, che pontificano circa la necessità di arrivare primi a qualunque costo, beatificando la dea furbizia, sono una patologia sociale contro la quale nulla può nessun corso scolastico, pannicello caldo per coscienze inquiete e prive di idee.
Non so quanto tempo occorra per riuscire a modificare lo stato delle cose, ma non possiamo permettere che in tutto questo lasso di tempo centinaia di donne continuino a morire e altre migliaia a essere stuprate.
Occorre quindi accentuare gli strumenti repressivi.
A partire, perché no, proprio dalla famiglia. Quando un genitore aggredisce fisicamente un insegnante perché non dovrebbe essere sottoposto alla decadenza dalla responsabilità genitoriale?
Positivo, anche se non risolutivo, il contenuto del disegno di legge in discussione questa settimana al Senato, un pacchetto di norme che dovrebbero rendere più efficace il Codice Rosso attraverso nuove azioni normative per tenere lontani stalker e violenti dalle potenziali vittime. Dal rafforzamento degli strumenti di prevenzione (ammonimento, braccialetto elettronico, distanza minima di avvicinamento, vigilanza dinamica ecc.) e con la loro applicazione ai cosiddetti “reati spia”, in modo da evitare che la violenza venga del tutto perpetrata e che l’eventuale intervento maturi troppo tardi per bloccarne le conseguenze. E’ previsto anche l’arresto in flagranza differita, e vengono stabilite nuove regole per favorire la specializzazione sul campo dei magistrati e la formazione degli operatori che, a diverso titolo, sono chiamati per ragioni professionali ad entrare in contatto con le vittime.
Dalla magistratura ci si deve aspettare non solo una specializzazione, ma anche una sensibilità che escluda il ripetersi di alcuni recenti episodi.
Scalpore ha suscitato, pochi giorni fa, la concessione degli arresti domiciliari, dopo sei anni di detenzione, a un uomo condannato a trent’anni per l’omicidio della fidanzata. Il provvedimento è stato giustificato dalla sua obesità e dall’eccesso di fumo. Il detenuto, si legge, non segue le indicazioni dietetiche e non diminuisce le cento sigarette al giorno che fuma, con i conseguenti rischi di natura cardiovascolare. Non poteva essere trasferito in una struttura sanitaria in regime detentivo? Era necessario rimandarlo a casa, a pochi chilometri dalla residenza dei genitori della vittima?
Ancora più inquietante è la recente presa di posizione del pubblico ministero di Brescia, che ha chiesto l’assoluzione per l’ex marito di una donna, nata in Bangladesh ma cresciuta in Italia, che nel 2019 ha trovato il coraggio di denunciare i maltrattamenti subiti dall’uomo. Secondo il magistrato, i contegni di compressione delle libertà morali e materiali della parte offesa da parte dell’imputato sono il frutto dell’impianto culturale e non della sua coscienza e volontà di annichilire e svilire la coniuge per conseguire la supremazia sulla medesima, atteso che la disparità tra l’uomo e la donna è un portato della sua cultura che la medesima parte offesa aveva persino accettato in origine. Secondo questa teoria dovremmo accettare il sorgere nel nostro Paese di enclavi – principalmente islamiche – in cui i diritti e la dignità della donna sono “sospesi”, per rispetto alla “cultura” riferita a detta religione. Si tratta di una tesi assurda, che getta ombre oscure e foschi presagi. Peraltro in contrasto con la sentenza n. 13786/2023 della Cassazione.
Prevenzione e cambiamento di mentalità, dunque, ma anche – nel frattempo – una più efficace e, se del caso, severa repressione dei fatti. Anche verso i colpevoli obesi o islamici.
E’ l’unica risposta seria che si può dare a Giulia, ad Annalisa e a tutte le vittime di omicidio, di stupro e di violenza.
Senza questa risposta il prossimo 25 novembre si risolverà in un’ennesima passerella di cordoglio e di retorica.
L’ennesima.

Immagine tratta da sito della Diocesi Ambrosiana

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Un’altra Italia

2 agosto 1980: Primo sabato d’agosto.
Allora, molto più di oggi, era quello del “grande esodo”. Le ferie si concentravano in quel mese, con la chiusura delle grandi fabbriche del Nord che trasformava le città in spettrali scenografie di case vuote e negozi chiusi.
A Bologna, quel giorno, faceva molto caldo, perché nella “bassa” l’umidità accentua la sensazione di disagio.
La stazione ferroviaria felsinea era affollata, con le famiglie che partivano per le vacanze.
L’atmosfera frizzante, densa di innocenti progetti.
Improvvisamente, alle 10 e 25, il tempo si fermò.
Un boato spazzò la spensieratezza e tantissime vite. Oltre venti chilogrammi di tritolo, contenuti in una valigia, esplosero nella sala d’aspetto di seconda classe. Le lancette del grande orologio della stazione segnano ancora oggi quell’ora terribile. La deflagrazione causò il crollo dell’ala sinistra dell’edificio. Della sala d’aspetto, del ristorante, degli uffici del primo piano non restò più nulla. Una valanga di macerie si abbatté anche sul treno “Adria Express Ancona-Basilea”, fermo sul primo binario. Uomini, donne e bambini persero la vita, dilaniati o schiacciati.
I morti furono 85, i feriti e mutilati oltre 200. Le vittime più piccole furono Angela Fresu, di appena 3 anni, Luca Mauri di 6 e Sonia Burri di 7. Le più anziane Maria Idria Avati di 80 anni e Antonio Montanari di 86.
I soccorsi vennero organizzati immediatamente e ancora prima dell’arrivo delle ambulanze e dei vigili del fuoco i sopravvissuti vennero aiutati da passanti, ferrovieri e tassisti. Anche le automobili private furono utilizzate per il trasporto dei feriti e fecero la spola fra stazione e ospedali.
Si composero lunghe catene umane, formate da volontari, vigili del fuoco, soldati di leva in cui
venivano passati i calcinacci e i mattoni nel tentativo di liberare la zona dell’esplosione, sperando di trovare persone vive, seppur ferite, sotto le macerie.
Da un cantiere vicino giunsero quasi immediatamente ruspe e scavatori, poi affiancati da altri
mezzi.
Un autobus urbano della linea 37 divenne il simbolo di quel terribile giorno, trasformandosi in un improvvisato carro funebre che trasportava le salme all’Istituto di Medicina legale.
La solidarietà fu immensa anche nel resto del Paese.
Per quella strage, dopo anni di depistaggi, sono stati condannati gli esecutori: in via definitiva Valerio Fioravanti, detto Giusva, Francesca Mambro, moglie di Fioravanti, Luigi Ciavardini, e – per concorso nel reato – Gilberto Cavallini, esponenti del gruppo terroristico denominato NAR, Nuclei Armati Rivoluzionari. Condannato lo scorso anno in primo grado anche Paolo Bellini.
I due principali artefici furono proprio Valerio Fioravanti e Francesca Mambro.
Fioravanti, autore anche di numerosi altri omicidi e atti terroristici, fu condannato in tutto a 8 ergastoli ai quali vanno aggiunti 134 anni e 8 mesi di reclusione. Ottenuta la libertà vigilata nel 2004, è un libero cittadino dal 2009. E’ stato condannato in via definitiva per l’uccisione di 93 persone e ha scontato in tutto 18 anni di reclusione. Ora scrive per il quotidiano “l’Unità” recentemente tornato in edicola.
Francesca Mambro, condannata complessivamente a 9 ergastoli, 84 anni e 8 mesi di reclusione, ha ottenuto la libertà vigilata nel 2008 ed è una libera cittadina dal 2013. E’ stata condannata in via definitiva per l’uccisione di 96 persone e ha scontato in tutto 16 anni di reclusione. Attualmente lavora con l’associazione “Nessuno tocchi Caino”, fondata nel 1993 dal Partito Radicale conto la pena di morte e che ora si batte contro il cosiddetto il “41-bis”, che prevede un regime carcerario più rigido e che è stato introdotto nel 1992, all’indomani delle stragi di Mafia di Capaci e via d’Amelio in cui persero la vita i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Dal 1982 l’iter giudiziario relativo alla strage di Bologna è stato costellato – come troppo spesso in Italia – da depistaggi, misteri e collusioni.
L’ultima sentenza, del 6 aprile 2022, avrebbe individuato i mandanti: il venerabile Licio Gelli (onnipresente nelle pagine più cupe della nostra storia), che avrebbe finanziato la strage con i fondi distratti dal fallimento dell’Ambrosiano. Il suo collaboratore e braccio destro Umberto Ortolani, l’ex capo dell’ufficio Affari Riservati del Ministero dell’Interno, Federico Umberto D’Amato e il direttore del settimanale “Borghese”, Mario Tedeschi.
Tutti, ovviamente, sono deceduti.
Quel terribile 2 agosto fu l’apice di un periodo tragico, funestato da attentati e stragi alternativamente compiuti dall’eversione nera – con la collaborazione di parti deviate dello stato – e dal terrorismo rosso delle BR, coadiuvato da complicità non ancora ben delineate.
Un’epoca terribile per il nostro Paese, che tuttavia seppe reagire difendendo strenuamente i valori della democrazia e sconfiggendo sia lo stragismo nero che il brigatismo rosso.
Si trattava però di un’Italia diversa da quella attuale, saldamente ancorata ai valori fondanti della convivenza civile nata con la Repubblica. Rappresentata da forze politiche che, indipendentemente dalle naturali e persino opportune differenze strategiche e prospettiche, si richiamavano al nocciolo duro e inviolabile dei valori espressi nella Costituzione Repubblicana. Quel due di agosto del 1980, spontaneamente, milioni di persone in tutta Italia scesero nelle piazze, senza bandiere di partito, per affermare con forza che non si sarebbero arrese, che non avrebbero ceduto agli architetti del terrore, agli stregoni dell’angoscia. Fu la manifestazione di una tenuta democratica che fece scudo alle istituzioni repubblicane contro il bieco disegno del terrore.
Oggi tale reazione sarebbe impensabile. Non ci sono più stragi, grazie a Dio. Forse perché non sono più necessarie a minare la stabilità complessiva di un Paese sempre meno indipendente e con ridotta potestà decisionale.
La caduta dei valori civici avvenuta in questi anni è mortificante, e fa da contraltare alla peggior classe politica che mai ha calpestato (e offeso) gli scenari delle istituzioni.
Fu un’epoca terribile, quella. Ma in un Paese certamente migliore.

Foto: TAG24

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Paolo Borsellino è vivo

19 luglio 1992.
Una data scolpita in modo indelebile nella storia del nostro Paese.
Quel giorno, a Palermo, in via d’Amelio, l’esplosione di una Fiat 126 imbottita con oltre cento chilogrammi di tritolo uccise il giudice Paolo Borsellino e gli agenti di scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cusina, e Claudio Traina.
Era domenica. Il magistrato aveva trascorso alcune ore al mare con la moglie Agnese. Alle 16,30, con la sua immancabile borsa di pelle contenente anche la celeberrima agenda rossa mai più ritrovata, il magistrato salutò i suoi cari per andare a trovare la madre.
Alle 16 e 58 minuti, mentre Borsellino aveva appena suonato al citofono della mamma in via d’Amelio, l’autobomba esplose.
Alle 17,16 il primo lancio dell’agenzia ANSA. Solo dopo le 18 arriverà la conferma della morte di Borsellino.
Il quale, peraltro, aveva sollecitato la questura da oltre venti giorni affinché provvedesse alla rimozione delle auto in sosta dalla zona antistante l’abitazione della madre. Ma la sua richiesta non fu presa in considerazione.
Quel 19 luglio rappresentò un vulnus terribile alla credibilità dello Stato. Le generazioni che si affacciavano allora alla vita, ma non solo loro, videro annichilita quella fiducia nelle istituzioni che la scuola, la televisione e, per i più fortunati, la famiglia avevano provato a inculcare.
A noi pare impossibile, ma anche prima delle stragi del novantadue i magistrati Falcone e Borsellino erano stati vittime di veleni, sospetti e maldicenze tali da alimentare l’intreccio che portò alla loro fine. Vennero accusati di protagonismo, vanità, scarso senso dello stato. Anche da persone insospettabili, quali Leonardo Sciascia e Leoluca Orlando. Borsellino, non a caso, affermò che Falcone iniziò a morire dopo l’articolo di Sciascia sui “professionisti dell’antimafia”.
Nel dicembre 1987, alla chiusura del maxi-processo contro Cosa Nostra che portò a 360 condanne, il clima intorno ai magistrati si fece pesante. Il ministro della Giustizia dell’epoca, Giuliano Vassalli, il 19 gennaio 1988, nominò Antonino Meli capo dell’Ufficio istruzione di Palermo, ignorando la candidatura di Falcone.
Meli cominciò subito ad assegnare a magistrati esterni al pool le inchieste di mafia, e sul tavolo di Falcone e dei suoi colleghi piovvero invece indagini per borseggi, scippi, assegni a vuoto. Borsellino parlò allora di grandi manovre per smantellare il pool antimafia.
Fu così che si giunse alle stragi di Capaci e di via Amelio del 1992.
Ormai tutti a Palermo sapevano che Paolo Borsellino sarebbe stato ucciso: i palermitani ne chiacchieravano liberamente nei bar. Lo sapeva anche Paolo Borsellino che aveva intuito il senso di tutta l’operazione stragista, ordita da qualcuno un po’ più raffinato e intelligente di Totò Riina. Un’operazione solamente appaltata ai macellai di Cosa nostra.
La sua, come hanno raccontato alcuni pentiti, era una morte programmata da tempo, ma anticipata con una incredibile premura.
Borsellino era perfettamente consapevole di andare incontro alla morte.
Il 13 luglio, sconsolato, affermò di aver appreso dell’arrivo del tritolo a lui destinato. Il 17, due giorni prima della morte, salutò singolarmente i colleghi, abbracciandoli. Quindi chiamò l’amico don Cesare Rattoballi e chiese di confessarsi, convinto che il suo momento stesse arrivando.
La decisione di uccidere Borsellino, come detto, fu “accelerata” da personaggi esterni alla mafia. Del resto, come affermato dal Procuratore di Palermo Francesco Lo Voi, la mafia uccide raramente solo per vendetta. Borsellino, che lo aveva capito, disse a sua moglie che sarebbe stata la mafia a ucciderlo, ma quando altri lo avessero deciso. Lo stesso Riina, intercettato durante un’ora d’aria mentre era detenuto, raccontò a un altro detenuto mafioso che l’omicidio del magistrato fu una cosa decisa alla giornata, perché arrivò “quello” e disse di farlo subito. Chi era “quello”? Uno dei tanti misteri della storia italiana, uno dei più inquietanti.
Oggi molto è cambiato nel volto delle mafie e dei metodi dalle stesse utilizzati.
Secondo l’art. 416bis del Codice penale, la mafia si configura innanzitutto come una forma di criminalità organizzata, segreta, composta di persone, dotata di armi, di eserciti privati e di capitali. Ma le mafie sono anche imprese che possono gestire appalti, servizi e forniture. Sono inoltre delle banche: in un momento in cui a molti i soldi mancano, i mafiosi li hanno e li danno a chi ne ha bisogno e non li trova nel circuito economico legale; si fanno soci di imprenditori che diventano così complici e conniventi con le organizzazioni mafiose. Infine, le mafie possono influenzare il voto, in maniera diretta o indiretta, per ottenere benefici ai loro traffici.
E’ vero che oggi le mafie hanno ridotto la violenza, anche perché ciò che è successo in Sicilia negli anni Novanta – con lo scontro frontale fra Cosa Nostra gestita dai Corleonesi di Riina e lo Stato – ha portato alla sconfitta di quel pezzo di Cosa Nostra: sono stati tutti arrestati, sono morti in carcere, gli hanno portato via buona parte dei loro beni. Oggi la mafia si presenta soprattutto col volto dell’impresa e agisce nei mercati.
In Italia le operazioni finanziarie sospette, di cui periodicamente ci informa la Banca d’Italia, sono in sensibile aumento. Questo indicatore ci dice che la mafia va dove si possono fare affari, dove il denaro circola. Quando i mafiosi arrivano in un mercato, e quindi in un territorio, il loro obiettivo è di monopolizzarlo, di farla da padroni e non di mettersi in un’ottica concorrenziale.
Si rileva inoltre che oggi la mafia dominante non è più Cosa Nostra, bensì la ‘ndrangheta.
Quest’ultima risulta oggi l’associazione mafiosa italiana più pericolosa, caratterizzata da un profondo radicamento, potenza finanziaria e capacità di essere anti-Stato senza sfidarlo apertamente, ma infiltrandosi nei suoi gangli vitali” grazie ad un “rapporto con gli uomini delle istituzioni decisamente meno conflittuale rispetto alla mafia. La forza della ‘ndrangheta risiede soprattutto nella sua struttura familiare, nei legami di sangue che assicurano la continuità delle cosche e l’assenza fino a tempi recenti di casi significativi di collaboratori di giustizia, nonché nel forte consenso nei territori di origine, dove è fortemente radicata.
Va anche notato che Cosa nostra non rappresenta l’unica matrice criminale di tipo mafioso operante nella Sicilia. La DIA, Direzione Investigativa Antimafia, ha recentemente osservato in uno studio che se nel versante occidentale Cosa Nostra conserva un’immutata egemonia, benché si registri la presenza molto attiva di gruppi criminali di etnia nigeriana operanti soprattutto nel capoluogo, nell’area orientale sono invece tuttora attive compagini storicamente radicate, quali la ”stidda’,’ e altre numerose organizzazioni mafiose non inquadrabili nella struttura di Cosa Nostra. Anche in questo quadrante, inoltre, la mafia nigeriana è ben radicata e particolarmente attiva in diversi settori criminali.
Meno morti non significa minor pericolo, anzi!
Le stragi e gli omicidi accendono i riflettori, suscitano sdegno, invocano indagini e punizioni. Operare nei mercati, esercitare corruzione (attività tipicamente italica anche al di fuori del contesto mafioso), condizionare l’impresa è muoversi sottotraccia, in modo sfuggente, suscitando un minor allarme sociale. E’ attività che sconfina nell’indifferenza dei più.
Le mafie rappresentano una grande holding finanziaria, in grado di operare, seppur in misura differente, sull’intero territorio nazionale e nella quasi totalità dei settori economici e finanziari del Sistema Paese, con un giro d’affari complessivo stimato dall’Eurispes in circa 220 miliardi di euro l’anno. La stessa cifra del tanto richiamato Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza dell’Italia.
Ma non dobbiamo arrenderci.
Non dobbiamo dimenticare che la mafia è anche un modo di pensare e di comportarsi che si fonda sul privilegio e sul favore piuttosto che sul diritto, sull’omertà piuttosto che sulla trasparenza, sull’avere piuttosto che sull’essere. Una delle forze storiche delle mafie è il consenso sociale, un’altra è l’indifferenza. È importante vedere le mafie non solo nell’ambito delle leggi del Codice penale o civile. Le mafie sono una grande questione culturale, politica, economica. Non possiamo delegare questa battaglia solo alle forze di polizia e alla magistratura, agli organi di controllo. Loro devono fare la loro parte, e la fanno anche bene. Dobbiamo però considerare un principio base: la mafia è una forma di criminalità organizzata. Se vogliamo prevenirla, oltre che contrastarla e sconfiggerla, dobbiamo essere organizzati anche noi.
Inoltre non si deve pensare che la mafia sia un affare italiano. Abbiamo avuto arresti e stragi mafiose in Germania, Olanda, Spagna, Francia, repubbliche dell’Est; sono chiari segni che la mafia è già in Europa, oltre che in altre nazioni del mondo. È una realtà da non sottovalutare.
Possiamo fare tutte le leggi che vogliamo, ma i principi e la responsabilità le persone devono sentirli dentro di sé. Tutto ciò si coltiva con l’educazione e la formazione, che scacciano l’indifferenza.
Dobbiamo credere, così come credeva lo stesso Borsellino, che la lotta alla mafia deve essere un movimento culturale e morale, in grado di coinvolgere tutti, specialmente le giovani generazioni, le più pronte a rifiutare il puzzo del compromesso morale e dell’indifferenza.
Le battaglie in cui si crede non sono mai perse.
Per questo, ancora oggi, Paolo Borsellino è vivo tra noi.

Foto Corriere della Sera

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Un esempio da non scordare

Talora impegni di varia natura trattengono dalla scrittura, ma vi sono date che non possono cadere nell’oblio. Sono quelle che ci riconducono a persone che hanno fatto migliore l’Italia e che restano ad esempio per una rinascita nazionale.
Come Giorgio Ambrosoli, assassinato a Milano l’11 luglio 1979.
Ormai quasi tutti hanno scordato quell’evento e la figura di Giorgio Ambrosoli. Un uomo che, al contrario, oggi più che mai rappresenta un esempio per il suo spirito civico e senso del dovere
In quella afosa sera d’estate di quarantaquattro anni fa Ambrosoli, dopo aver trascorso qualche ora in compagnia di alcuni amici, li aveva accompagnati a casa. Al suo ritorno, appena sceso dall’auto, fu affiancato da una Fiat 127 rossa. Una voce domandò: “Avvocato Ambrosoli?”. Avutone conferma un uomo gli disse: “Mi scusi avvocato”. E sparò quattro colpi di pistola. Giorgio morì poco dopo, sull’ambulanza. L’assassino era William Joseph Aricò, un killer conosciuto a New York come “Bill lo sterminatore”, ingaggiato dal finanziere Michele Sindona. Il quale, per questo, fu condannato all’ergastolo e, due giorni dopo la sentenza, venne trovato morto in cella per avvelenamento da cianuro di potassio.
Ambrosoli era nato nel 1933 a Milano da una famiglia di estrazione borghese e profondamente cattolica; il padre, pur essendo avvocato, lavorava in banca e l’educazione che offrì ai figli era fondata su profondi principi e su saldi valori. Durante il periodo degli studi Ambrosoli aderì a un pensiero profondamente liberale.
Laureatosi in legge non accolse il desiderio del padre, che sognava per lui un futuro in banca, e decise di dedicarsi anima e corpo all’avvocatura, specializzandosi in diritto fallimentare. Sposò Anna Lorenza Gorla, per tutti Annalori, conosciuta ai tempi dell’università, dalla quale ebbe tre figli di cui andò sempre fiero.
il 24 settembre 1974 venne chiamato dall’allora governatore della Banca d’Italia, Guido Carli, per fare luce sui castelli di carte e di inganni messi in piedi da Michele Sindona nell’ambito della Banca Privata Italiana, in stato di grave dissesto. Apparve fin da subito chiaro ad Ambrosoli quanto il finanziere siciliano si fosse mosso certo dell’impunità e, proseguendo nelle sue analisi, si convinse sempre di più che tale libertà di manovra fu concessa a Sindona proprio dal sistema. Grazie alle carte che riuscì a collazionare, Ambrosoli comprese i legami che Sindona aveva con la politica e con la massoneria deviata di Licio Gelli e della sua loggia P2. Complicità che coinvolgevano anche la mafia siciliana e alcuni settori della magistratura.
Fu in quei giorni che pronunciò una frase dal sapore profetico: «Sono solo». Un solo commissario liquidatore per un fallimento da centinaia di miliardi. Per i cinque anni successivi Ambrosoli si oppose a Michele Sindona, personaggio potente e spericolato, con alle spalle una parte preponderante del potere.
Nelle indagini Ambrosoli non si lasciò mai intimidire e completò il suo lavoro nonostante gli avvertimenti e le minacce. Scoprì tutte le carte e i più sordidi intrecci.
Fin dai primi tempi tentarono di blandirlo, di convincerlo ad assumere un atteggiamento più morbido.
La strategia adottata per fermare Ambrosoli fu un autentico “crescendo rossiniano”. Dagli ammiccamenti si passò in breve ai messaggi intimidatori, alle visite in studio di strani personaggi, poi alle minacce a lui e ai suoi collaboratori.
Lo stesso capitò al maresciallo della Guardia di Finanza Silvio Novembre, suo unico collaboratore che gli fece volontariamente anche da guardia del corpo. Una sera, uscendo dal Tribunale, il maresciallo fu avvicinato da un ex collega che gli propone di lasciare l’indagine, congedarsi dalla Guardia di finanza e accettare un lavoro meglio pagato, perché “hai due bambine da crescere”. Ma Silvio Novembre, così come Ambrosoli, era un uomo di saldi principi.
La politica lasciò solo Ambrosoli, con l’unica eccezione del ministro repubblicano Ugo La Malfa. Non fu certo un caso che un uomo solitamente così prudente e misurato come Giulio Andreotti, dopo l’omicidio di Ambrosoli, ebbe a dire: “Era uno che se l’andava a cercare”.
Non era un rivoluzionario, Giorgio Ambrosoli, e nemmeno un oppositore dei governi di allora. Era un conservatore, profondamente cattolico, che aveva militato nella Gioventù liberale. Ma era prima di tutto un uomo delle Istituzioni, e per lui le Istituzioni erano da servire con il senso dello Stato, con il prevalere del bene generale sui conflitti di interesse, con il rispetto delle leggi, dell’etica pubblica e privata. Quando consegnò alla Banca d’Italia il primo frutto del suo lavoro accluse un biglietto per il governatore: “Con i migliori sentimenti di devozione per avermi dato modo di servire in qualche modo il Paese”.
Corrado Stajano definì Giorgio Ambrosoli, in un bellissimo libro-inchiesta, un uomo libero e solo, un eroe borghese, che avrebbe potuto vivere tranquillo con le sue serene abitudini e invece, per la passione dell’onestà, si batté contro un genio del male, sorretto da forze potenti palesi e occulte, e fu sconfitto.
Il 25 febbraio del 1975, dopo aver completato la ricostruzione dello stato passivo della Banca privata, Giorgio Ambrosoli scrisse alla moglie: “A quarant’anni, di colpo, ho fatto politica e in nome dello Stato e non per un partito… e ho sempre operato – ne ho la piena coscienza – solo nell’interesse del Paese […] Qualunque cosa succeda, comunque, tu sai che cosa devi fare e sono certo saprai fare benissimo. Dovrai tu allevare i ragazzi e crescerli nel rispetto di quei valori nei quali noi abbiamo creduto […] Abbiano coscienza dei loro doveri verso se stessi, verso la famiglia nel senso trascendente che io ho, verso il Paese, si chiami Italia o si chiami Europa. Riuscirai benissimo, ne sono certo, perché sei molto brava e perché i ragazzi sono uno meglio dell’altro. Sarà per te una vita dura, ma sei una ragazza talmente brava che te la caverai sempre e farai come sempre il tuo dovere costi quello che costi […] Giorgio”.
Giorgio Ambrosoli venne lasciato solo anche il giorno del suo funerale. Nessuna autorità, nessun rappresentante di quello Stato per il quale l’avvocato milanese si era speso con coraggio, fino all’estremo sacrificio. La signora Annalori teneva per mano i suoi figli: una lezione di dignità e compostezza nel dolore. Unico presente il governatore della Banca d’Italia, Paolo Baffi, seduto nelle ultime file, come se si vergognasse dell’assenza di tutti gli altri rappresentanti delle istituzioni. Fu l’ennesima dimostrazione dell’isolamento di una persona per bene, alla quale lo Stato aveva richiesto un compito immane e pericoloso. Una solitudine che proseguiva anche dopo la morte.
Questo è stato Giorgio Ambrosoli: un esempio per il suo senso delle istituzioni, dello Stato, del bene comune. Oggi più che mai, in un’epoca in cui ogni forza politica inneggia a diritti di ogni sorta – quand’anche discutibili – ma si vergogna a menzionare qualunque dovere, soprattutto verso lo Stato e il bene comune. Offrendo così uno spettacolo indegno del nostro rispetto.
Forze politiche che si credono forti e vincenti ma che, in realtà, sono tutte senza futuro.
Il libro “Giorgio Ambrosoli. Dolore, orgoglio, memoria”, edito dalla editrice San Paolo nel 2022, ripercorre la vicenda umana e professionale di Giorgio Ambrosoli raccontata dalla figlia primogenita Francesca.
Il volume contiene una “lettera al nonno” del nipote Stefano. Si legge in questa missiva: “Caro nonno Giorgio, sono passati 42 anni da quella notte tra l’11 e il 12 luglio 1979, quando ti hanno tolto la vita sul marciapiede di una Milano deserta. Eppure, tanti dei tuoi principi sono rimasti, e ogni anno, come un miracolo storico, quel tuo senso di libertà, giustizia e rigore morale cresce nelle coscienze di tanti”.
Vorrei che così fosse, perché il nostro Paese comincerà a cambiare quando saremo davvero in tanti a ricordare Ambrosoli, imitandone il rispetto per l’onestà e le istituzioni repubblicane. Quando troveremo normale il sacrificio personale, anche estremo, per la difesa di tali valori civici.
Per questo – anche quest’anno – non potevo esimermi dal parlare di Giorgio.

Foto Corriere della Sera

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Un Primo Maggio su cui riflettere.

E’ necessario ridefinire e calibrare il senso della giornata del Primo Maggio.
Se già da tempo i mutati scenari occupazionali e sociali imponevano di uscire da una iconografia tipica della metà del secolo scorso, le conseguenze di quanto occorso in questi ultimi anni rendono necessario un ripensamento radicale, che sappia restituire a questa festa il valore fondamentale che le compete ma, soprattutto, che permetta di ridare al lavoro quella centralità che non solo gli spetta di per sé, ma che gli è anche attribuita dal primo articolo della nostra Costituzione.
I mutamenti intervenuti sono ormai sotto gli occhi di tutti.
Il tasso di occupati in Italia, a ottobre 2022, era il 60,5 per cento. Il più basso degli Stati dell’Unione europea. La media Ue, infatti, è del 70%, il tasso della Germania supera il 77%, e quelli di Grecia, Spagna e dei paesi dell’Est Europa sono comunque superiori a quello italiano.
Inoltre, è la qualità dell’occupazione a preoccupare. Nel 2008 si contava un numero di contratti precari inferiore a quelli attuali: 2,3 milioni contro i 3 milioni del 2022. A crescere sono anche i part-time involontari: tra il 2008 e il 2020 sono passati da 1,3 milioni a 2,7 milioni.
Vi è quindi la precarietà (dei nuovi contratti attivati lo scorso anno sette su dieci sono a tempo determinato), ma anche un depauperamento salariale: il nostro è l’unico Paese dell’area Ocse nel quale, dal 1990 al 2020, il salario medio annuale è diminuito (-2,9%), mentre in Germania è cresciuto del 33,7% e in Francia del 31,1%.
Anche il mercato del lavoro sta subendo trasformazioni radicali, con l’accentramento delle risorse nelle mani di un piccolo numero di multinazionali di dimensioni sempre più smisurate. La Wallmart, multinazionale statunitense, ha fatturato oltre 500 miliardi di dollari, pari al PIL di paesi come la Svezia o il Belgio. Purtroppo, alla immensa ricchezza si accompagna una diminuita attenzione verso i lavoratori. Pensate che Google ha annunciato recentemente 50 mila licenziamenti. Nonostante ciò, Sundar Pichai, amministratore delegato di Alphabet, la holding proprietaria di Google, ha percepito nel 2022 un compenso di 226 milioni di dollari (per i nostalgici della lira potremmo dire uno stipendio annuo di 438 miliardi di lire).
Difficile non restare sconcertati e, consentitemi, indignati!
Ancora più potenti sono oggi i fondi di investimento, società di gestione che investono, come un unico patrimonio, in attività finanziarie. Gli statunitensi Vanguard, BlackRock e State Street Global Advisor sono i tre maggiori fondi comuni di investimento nel mondo. Insieme gestiscono 16 trilioni di dollari (16 miliardi di miliardi di dollari!): 10 volte l’intero PIL italiano, 4 volte il PIL tedesco, più dell’intero PIL di tutta l’Europa.
Questi tre fondi sono i maggiori azionisti nel 90% delle società quotate nelle listini ristretti delle Borse. Hanno inoltre significative partecipazioni, che spesso ne garantiscono il controllo, nelle grandi aziende farmaceutiche (Pfizer e Astrazeneca, per esempio) così come nelle multinazionali che producono armi, tra cui Lockheed Martin Corporation, Bae Systems, Northrop Grumman Corporation & Orbital Atk.
Nelle guerre c’è sempre qualcuno che ci guadagna, come vedete!
Pensate al potere di questi tre fondi, anche se è difficile il solo immaginarlo. Non a caso negli Stati Uniti si dice che siano il quarto ramo del governo. Ma in realtà – spesso – possono rappresentare l’autentico e reale soggetto decisionale. Un esperto del settore, il prof. Marco Contini, ha affermato che il potere, quello vero, quello che può determinare spread, Inflazione e crisi, non è più nelle mani della politica, ma di queste tre società, alle quali, non a caso, ci si riferisce come a the Specter of Giant Three.
Parlando di lavoro non possiamo trascurare il recente sviluppo della intelligenza artificiale, quale quella di OpenaAI, ideatrice del celeberrimo ChatGPT. Secondo gli analisti del settore, 300 milioni di posti di lavoro a tempo pieno in tutto il mondo potrebbero essere automatizzati dalla nuova ondata di intelligenza artificiale che ha generato piattaforme come ChatGPT rendendo non più necessario il ruolo umano.
Non si tratta, forse per la prima volta nella storia, di ruoli legati a un lavoro intenso e usurante e alla fatica fisica. Si tratta di attività intellettuale, di concetto. I settori più interessati sono l’ambito legale, amministrativo e sanitario, dove si prevede una riduzione del 28% dei compiti svolti da esseri umani.
Come vedete ci troviamo dinnanzi a uno scenario radicalmente mutato rispetto a quello del Novecento.
Giulio Tremonti, con il quale mi sono trovato molto spesso in disaccordo, ha tuttavia fornito un quadro preciso di questa situazione, parlando del disastro che è sotto gli occhi di tutti, prodotto della scelta di delocalizzare la produzione in paesi privi di qualunque tutela e di qualsivoglia morale, della caduta del potere politico, ormai dominato dalla finanza, della caduta dell’idea dello stato sociale e dello strapotere dei cosiddetti giganti della finanza e delle multinazionali, che sono ormai i nuovi Stati.
In questo contesto reiterare strumenti di pensiero tipici del Novecento è tanto anacronistico quanto funzionale allo status quo.
Il massimalismo imbibito di un retropensiero già sconfitto è la via per non cambiare nulla.
Dobbiamo sin da subito individuare alcune strade da percorrere nel nostro Paese, con alcuni essenziali obiettivi.
Tutelare i redditi dall’inflazione e innalzare il livello salariale medio, considerando che i lavoratori a rischio povertà raggiungono il 13%.
Combattere il fenomeno del precariato. Se realmente si vuole – come giusto che sia – un incremento della natalità non è certo un piccolo risparmio fiscale a essere determinante, bensì la certezza di un futuro lavorativo.
Altri obiettivi urgenti sono più accentuati controlli contro il “lavoro nero”, norme a contrasto del fenomeno della delocalizzazione industriale (il trasferimento delle aziende in Paesi con costo-lavoro più basso, quali Pakistan, Bangladesh, Vietnam, ecc.) e una nuova normativa sulle cooperative. Strumento nobile nato agli albori del secolo scorso, quello delle cooperative è ormai un mondo inquinato dal crescente e preponderante numero di finte realtà che nascono (e di solito muoiono velocemente per evitare i controlli) solo per prestare manodopera sottopagata e peggio tutelata ad altre aziende. In molti casi una forma di caporalato mascherato con un sottile velo di finta legalità.
Chi può occuparsi di questi interventi?
Lo scenario offerto dei soggetti politici italiani è scoraggiante. Alcune forze sono funzionali al dominio della finanza, altre sono divenute sempre più dedite alla tutela dei diritti civili (e spesso anche dei capricci) che non ai bisogni sociali. Altre ancora sono ininfluenti per la lettura superficialmente massimalista della situazione.
Se potessi dare un suggerimento, valido per le problematiche del lavoro ma che si potrebbe sviluppare sui principali temi politici, penserei alla creazione di un laboratorio di idee, una sorta di think tank, formato da esperti provenienti dalle formazioni che si richiamano al riformismo socialista e liberale e al cattolicesimo democratico, in grado di definire un progetto di ampio respiro per la crescita e il rinnovamento etico.
Se così sarà, se saremo in grado di modificare il percorso intrapreso, allora il Primo Maggio tornerà al valore che gli compete.
Non più solo marcette e concerti, ma autentica Festa del Lavoro e del Lavoratore. Scindere infatti il lavoro dal lavoratore è stato l’errore esiziale degli scorsi anni, che ha portato a una progressiva visione quale processo produttivo meccanicistico.
Come sottolinea in un recente studio l’economista gesuita Étienne Perrot S.I., il passaggio dal termine “personale” (es. ufficio del personale) a “risorsa umana” (ufficio risorse umane) è indicativo del trionfo del materialismo utilitaristico in azienda, con la trasformazione del lavoratore da persona a mero centro di costo e strumento produttivo.
Dobbiamo riportare nuovamente l’uomo al centro del mondo del lavoro.
E di ogni realtà.
Aspettando questo, comunque, buon Primo Maggio.

Foto de “Il Domani d’Italia”

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Una data fondamentale.

25 aprile. Una data fondamentale per il nostro Paese.
Non solo per “qualcuno”, non per “una parte” dell’Italia. Ma una festa di tutti, nessuno escluso; qualunque siano le proprie convinzioni.
In questo giorno non si festeggia una vittoria militare: la guerra, in Italia, terminò infatti il 3 maggio. Si festeggia una riscossa civile. Come disse Piero Calamandrei “il carattere che distingue la Resistenza da tutte le altre guerre, anche da quelle fatte da volontari, anche dall’epoca garibaldina, è stato quello di essere più che un movimento militare, un movimento civile”.
Troppo spesso, infatti, celebriamo la Resistenza nei suoi episodi militari, scordandoci di quella per così dire “disarmata”. Così facendo, tuttavia, trascuriamo la dignità, la forza, la caparbietà di tanti “civili” – in gran parte donne, vecchi e bambini – che dall’entrata in guerra dell’Italia fino alla Liberazione dovettero convivere con la disoccupazione e la fame mai saziata dai razionamenti. Furono eroiche soprattutto le donne che, per tanti mesi, lavorarono per un salario da fame e fecero lunghe ed estenuanti code per comprare qualcosa da portare a casa, sempre con il pensiero costante al figlio o al marito in qualche lontano fronte di guerra.
Da quella esperienza, e solo grazie ad essa, nacque la nostra Costituzione.
Forse non perfetta, certamente frutto di compromesso tra le grandi ideologie che si confrontarono in quegli anni. Eppure – non scordiamolo – dopo tre quarti di secolo, dopo molti tentativi di sfigurarne i connotati, è ancora in quei preziosi articoli la fonte della nostra convivenza, la prima regola del nostro stare insieme.
Da quel testo sortirono principi generali basilari.
Il principio della democrazia e della libertà di pensiero, innanzitutto, certamente rispettato in questi decenni.
Così come quello della eguaglianza sostanziale, che si può declinare in una crescente equità sociale. Principio, questo, piuttosto in crisi nel corso degli ultimi anni.
La Resistenza ha dato vita alla nostra Costituzione, ma non dobbiamo scordare che il suo respiro è certamente europeo.
I movimenti di resistenza nacquero infatti ovunque in un’Europa divisa e soggiogata dal nazionalsocialismo: in Polonia, Francia, Olanda, Danimarca, Cecoslovacchia. Financo in Germania, pur nella straordinaria difficoltà della situazione.
Vi era consapevolezza di questo, nei costituenti. Così come di un nuovo mondo che sorgeva e guardava oltre gli ormai angusti confini statuali. Vittorio Emanuele Orlando, Presidente della Assemblea Costituente, disse che lo stesso ricordo della Rivoluzione francese del 1789 si impiccioliva al confronto della nuova rivoluzione, riguardando essa i rapporti a livello globale e il mutamento dello Stato di nazione, che dovrà cedere l’assolutezza della sovranità e prepararsi alla maniera di futura sovranità di Stato limitata da una organizzazione superiore.
Questa la grande speranza nata dalle ceneri del secondo conflitto mondiale: quella che, insieme ad alcuni totalitarismi, fosse stata sconfitta l’idea stessa di guerra e che il futuro sarebbe stato di pace e benessere sovranazionale.
Un’illusione, purtroppo. Oggi lo sappiamo.
I conflitti non sono mai cessati. Già nel 1946 iniziarono la guerra in Indocina e quella civile in Grecia. Ma neppure un anno, da allora, è trascorso senza battaglie e vittime. Solo che queste erano quasi sempre lontane dal cosiddetto Occidente e, di conseguenza, meno degne di attenzione da parte dei mezzi di informazione.
Si auspicava che, almeno in Europa, la fine (apparente) della cosiddetta guerra fredda potesse allontanare per sempre l’ipotesi di un conflitto.
Sappiamo che così non è stato e così non è.
Al contrario, il ritorno in auge di ideologie fondate su un nazionalismo sovranista, proprio a seguito del venir meno della divisione del continente in zone di influenza, ha portato alla deflagrazione di nuove e drammatiche guerre sul suolo europeo.
Oggi assistiamo al conflitto in Ucraina, sulla cui narrazione esclusivamente “atlantista” da parte dei media mi permetto di nutrire qualche riserva. Sudditanza alla quale si sono prontamente adeguate le forze politiche dell’attuale governo.
Ma il primo vero conflitto europeo successivo alla Seconda Guerra Mondiale scoppiò nei Balcani all’inizio degli anni ’90, con decine di migliaia di vittime, per la gran parte donne e bambini. Quanto accadde in quegli anni fece impallidire l’operato del nazismo: ricordiamo solamente la strage di Srebrenica, avvenuta con la complicità dei “caschi blu” dell’ONU presenti, che consegnarono addirittura donne e bambini agli aguzzini e fornirono i buldozer per coprire le fosse comuni.
La guerra balcanica non ci ha insegnato nulla. Soprattutto non abbiamo compreso che armare le fazioni non conduce alla pace. Semmai giova a ben altri interessi.
Soprattutto alla potentissima industria delle armi.
Secondo il Kiel Institute for the World Economy, un centro di ricerca indipendente con sede in Germania, nello scorso annoi l’amministrazione Biden ha mobilitato risorse pari a oltre 73 miliardi di euro per aiuti militari alla Ucraina, seguita dall’Unione Europea con 35 miliardi. L’Italia ben si colloca in tale classifica con oltre un miliardo di aiuti militari.
Come illustrato dall’area studi di Mediobanca, il fatturato dei trenta principali gruppi mondiali che operano nella produzione di armi ha superato, nel 2022, i duemila miliardi di dollari.
Come dar torto a Papa Francesco quando – con voce inascoltata – denuncia una terza guerra mondiale “a pezzetti”? E, aggiungo io, con immensi profitti per ristretti gruppi di persone.
Festeggiamo quindi il 25 aprile, insieme.
Celebrando la liberazione del nostro Paese, innanzitutto.
Ma non limitando lo sguardo a una mera celebrazione del passato.
Forti del ricordo spingiamo lo sguardo nel futuro.
In un recupero di valori portanti: a livello individuale, perché l’assenza di valori etici e civili condivisi genera quel vuoto morale che affonda nella violenza la nostra società.
A livello istituzionale, perché uno Stato non più sorretto da uno scheletro di valori fondanti, si avventura in una democrazia anonima e senza padri, tendenzialmente estranea alla storia.
A livello globale, anche. Perché il 25 aprile non è una Festa di guerra, ma di pace e di liberazione dalla violenza in ogni sua forma.
Perché la pace non è sufficiente a garantire la libertà. Ma senza la pace non può esistere libertà.
Buon 25 aprile.

Foto Comune d’Este

cultura · società

8 marzo: la Giornata della donna, non la festa.

8 marzo: Giornata internazionale della Donna.
Giornata, si badi bene. Non Festa.
Anche perché ben poco avrebbero da festeggiare le donne.
Certo non le donne iraniane, uccise, perseguitate e ora anche avvelenate per giungere a chiudere le scuole femminili.
Così come quelle afghane, alle quali è stata impedita a priori la possibilità di accedere all’istruzione.
A scuola, comunque, non possono andare neppure le 12 milioni di bambine, quasi sempre sotto i 15 anni, che ogni anno in Africa e Bangladesh vengono date in sposa a uomini, perlopiù maturi e attempati.
Ancor meno avrebbero da festeggiare le 3 milioni di bambine africane costrette a subire, nel corso del 2022, una delle diverse forme di mutilazione genitale.
Tragedie che avvengono in luoghi remoti, direte voi.
Certo! Grazie a Dio il cammino civile, culturale ed etico percorso nel mondo occidentale rende per noi impensabile una simile barbarie.
Ma ciò non toglie che anche da noi la situazione sia ben lungi dall’essere idilliaca.
Lo potrebbero confermare – se fossero vive – le 124 donne vittime di femminicidio nel 2022 e tutte coloro che anche quest’anno continuano a morire per mano – il più delle volte – del proprio partner o da chi non si rassegna a non esserlo più.
Possiamo poi scordare la violenza sessuale? Un crimine di questo genere viene denunciato ogni 132 minuti, con una media quotidiana di 11 tra stupri e abusi (e sono solo quelli non taciuti dalle vittime) e più di 300 nuovi fascicoli d’indagine al mese. Queste sono le statistiche operative elaborate e diffuse dalla Direzione centrale di Polizia Criminale.
Ma non esiste solo la violenza pura.
Vi è anche quel sottile e ancor più viscido mondo fatto di molestie, battutine, pregiudizi e ammiccamenti.
Un recente studio delle Fondazione Libellula svolto sui luoghi di lavoro ci conferma l’esistenza anche in questo ambito di una situazione allarmante. Più di una donna su 2 (il 55%) si dichiara vittima di una manifestazione diretta di molestia. Il 22% ha dichiarato di aver avuto contatti fisici indesiderati e il 53% ha subito complimenti espliciti non graditi. Le conseguenze si riflettono in una limitazione del proprio comportamento per paura che possa essere male interpretato o portare a conseguenze negative: il 58% delle donne intervistate non reagisce efficacemente di fronte ad una molestia, di queste il 38% non vuole passare come una persona troppo aggressiva o “quella che se la prende”, mentre l’11% non sa come fare.
Capirete che parliamo di un problema di sottocultura insito all’interno del contesto professionale italiano e che necessita di un profondo lavoro di educazione, sensibilizzazione e, vorrei aggiungere, di previsione di idonee sanzioni. Il linguaggio e gli atteggiamenti non verbali limitano e danneggiano infatti la dimensione professionale delle donne sul posto ove sono occupate. Per troppe di loro i luoghi di lavoro rappresentano contesti poco sicuri, psicologicamente e fisicamente complicati.
Ci troviamo anche dinnanzi a penalizzazioni intrinseche anche nell’accesso stesso all’impiego.
L’occupazione cresce, ma non intacca il divario di genere. Pur avendo toccato quota 60,5% lo scorso ottobre, i tassi di occupazione di uomini e donne continuano a restare distanti (rispettivamente 69,5% e 51,4%), con un gap di genere del 18%.
Il tasso di disoccupazione femminile è al 9,2% contro il 6,8% degli uomini, divario che aumenta per i giovani fra i 15 e i 24 anni con tassi del 32,8% per le ragazze e il 27,7% per i ragazzi.
Anche la sfera della non partecipazione vede ancora penalizzate le donne con un tasso di inattività del 43,3% contro il 25,3% degli uomini.
Con dati, addirittura, in progressivo peggioramento per le donne. Se confrontiamo, infatti, le cifre del 2022 con quelle del 2021 vediamo che i tassi di occupazione crescono di più per gli uomini che per le donne (+1,7% contro +1,4%) e che la disoccupazione cala in misura maggiore per gli uomini (-1,2% contro -0,9%).
Secondo il “Rapporto globale sul divario di genere 2022” del World Economic Forum, l’Italia si colloca al 63° posto su 146 paesi nell’indice globale sulla base dei fattori economia, istruzione, salute e politica. Una posizione in ulteriore discesa, tuttavia, se si valuta esclusivamente il sottoindice riferito agli aspetti economici e di opportunità femminile. La posizione dell’Italia in tale ambito, al 110° posto, è in fondo alla classifica dei paesi europei e segue Stati come Angola, Nicaragua e Tajikistan.
Converrete con me che vi è poco da festeggiare e molto su cui riflettere.
Per questo l’8 marzo è la Giornata della donna e non certo la Festa.
Un giorno in cui porre al centro del dibattito i diritti di parità, di eguale accesso al lavoro, di sicurezza fisica e morale.
Ho l’impressione che, nell’ultimo periodo, si sia posto un eccessivo accento su alcune tipologie di diritti, per lo più legati alla sfera sessuale e di manifestazione della stessa.
Ma i diritti primari ed essenziali sono in realtà quelli politici ed economici, che consentano – come dicevo – eguaglianza tra i generi, paritario diritto al lavoro, identica retribuzione e un dignitoso sostentamento.
Occorre quindi che le riflessioni di oggi possano svilupparsi in comportamenti individuali conseguenti e – da parte della politica – in adeguate iniziative legislative.
Non occorrono tonnellate di sgargianti mimose, utili solo all’economia dei vivaisti. Non occorrono ipocriti e narcotici festeggiamenti, cene e carnevalate varie.
Anche l’iniziativa proposta dal ministro Sangiuliano di consentire, domani, l’ingresso gratuito per le donne in musei, parchi archeologici, complessi monumentali, castelli, ville e giardini storici e altri luoghi della cultura statali, ancorché non disprezzabile, giace ancora al di qua del confine del mutamento, fermandosi nel comodo campo di un cortese paternalismo.
L’eguaglianza delle donne non è un favore verso questo genere, è una doverosa spinta di civiltà e di crescita culturale ed economica.
Dice un proverbio cinese che le donne sostengono la metà del cielo.
Rendendo migliore anche l’altra metà.

Foto Rizzoli Libri

cultura · società

Il giorno della Memoria

Il 27 gennaio 1945 l’Armata Rossa aprì i cancelli di Auschwitz.
L’ONU, nel 2005, ha stabilito che in questa data venga celebrata la Giornata della Memoria, in ricordo della Shoah, un vocabolo ebraico che ci parla di orrore e dolore. Questa espressione è presente nel libro di Isaia 47,11: “Ti verrà addosso una SCIAGURA che non saprai scongiurare; ti cadrà sopra una calamità che non potrai evitare. Su di te piomberà improvvisa una CATASTROFE che non prevederai”.
Gli ebrei non furono le uniche vittime dei campi di sterminio, ma lo furono in modo speciale e tragico. Gli storici più accreditati, tra cui Raul Hilberg, ritengono che la cifra delle vittime ebraiche si aggiri tra 5.200.000 e 6.000.000.
Non fu neppure il primo genocidio della storia. Ad aprire il XX secolo fu quello degli armeni, operato dai turchi intorno al 1915 nell’indifferenza generale della comunità mondiale. Una tragedia che fornì lo spunto ad Adolf Hitler per il disegno di annientamento degli ebrei.
Oggi per noi è difficile anche il solo immaginare quanto accadde nei campi di sterminio.
Dobbiamo riflettere su come sia stato possibile annientare ogni senso di umanità, non solo nei carnefici ma anche nelle vittime. Elsa Binder, diciassettenne ebrea che viveva nella Polonia invasa dalla Germania nazista e quindi deportata, raccontava che i superstiti non erano più in grado di ridere. Una parola divertente era sufficiente a suscitare un senso di colpa. Un semplice momento di serenità evocava una processione di amici scomparsi.
Sono passati quasi ottant’anni da quei giorni. Ma è ancora importante ricordare. Perché lungi dall’essere patrimonio di un passato sepolto, l’antisemitismo è ancora non solo presente nella nostra società ma – per certi versi – in crescita.
Si parla, in Italia, di antisemitismo “a bassa intensità”, che è però pervasivo e continuamente messo in circolazione. Un atteggiamento di questo tipo non significa che non vi siano conseguenze: è proprio il divenire quasi “senso comune” che lo rende pericoloso, perché finisce per derubricare i suoi effetti per cose normali, non intenzionali, innocue. Insomma, scherzi senza conseguenze.
I recenti rapidi mutamenti sociali, dovuti anche alla crisi pandemica con il conseguente sviluppo di ogni sorta di teoria complottista, hanno accentuato il fenomeno. Con la complicità dei cosiddetti “social”. Questi infatti sono governati da algoritmi che mettono in contatto persone che la pensano nello stesso modo, divenendo uno specchio che rafforza le proprie convinzioni; non hanno moderatore; estremizzano le posizioni degli utenti; e infine amplificano le voci di minoranza.
Possiamo fare molto per cambiare le cose. Credo che, in primis, occorra valorizzare la storia del popolo ebraico ed equilibrare il rapporto tra identità e memoria. Quindi svincolare il lavoro sull’antisemitismo dall’Olocausto e ancorarlo maggiormente all’antichità della storia ebraica nel suo complesso.
Sviluppare la conoscenza della cultura ebraica, la comune matrice con quella cristiana e gli sviluppi del suo pensiero.
Ma è anche un lavoro individuale, da svolgere su noi stessi. Marco Aurelio scriveva nei “Ricordi” che ciascuna persona, ogni mattina, dovrebbe interrogarsi sul compito più difficile: come esercitare al meglio il mestiere di uomo.
E’ il senso profondo che ha originato il “Giardino dei Giusti”, nato a Milano nel 2003 e ormai diffuso in altre duecento città. Una realtà che vuole insegnare alle persone di ogni nazione e cultura a diventare parte della grande catena dei Giusti che in ogni tempo ed in ogni luogo si assumono una responsabilità per il bene dell’umanità.
I Giardini dei Giusti insegnano alcuni concetti fondamentali con il racconto delle storie migliori degli uomini. La prima è che chi opera per il bene non è mai solo, anche se molto spesso costa fatica e anche incomprensione. Inoltre che essere parte di una rete della bontà infonde non solo coraggio, ma anche la forza di agire assieme agli altri, come sosteneva Baruch Spinoza, quando argomentava del “conatus collettivo” che permette al singolo uomo di superare la sua fragilità.
Elie Wiesel, scrittore ebraico trasferitosi negli Stati Uniti alla fine della guerra, dopo esser stato prigioniero ad Auschwitz, Monowitz e Buchenwald fra il 1944 e il 1945, ha raccontato l’impiccagione di un bambino insieme a due adulti. Narrava che mentre I due adulti già erano morti, la terza corda non era ancora immobile perché il bambino viveva ancora. Lottò fra la vita e la morte per oltre mezz’ora, agonizzando sotto gli occhi degli altri prigionieri. Qualcuno domandò: «Dov’è dunque Dio?». E Wiesel rispose: «Dov’è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca…»”.
Impegniamoci affinché la nostra indifferenza non ci induca, ancora una volta, ad appendere a una forca Dio e la nostra umanità.

Foto Gariwo