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10 maggio 1933: il rogo di Opernplatz

10 maggio 1933. Una data da non dimenticare.
Quella sera, a Berlino, nella piazza del Teatro dell’Opera, la “Opernplatz”, i nazisti organizzarono un gigantesco rogo nel quale bruciarono oltre 25.000 libri.
Altri analoghi eventi si svolsero in numerose città tedesche, ma quello di Berlino fu il più grande, poiché doveva essere un esempio per l’intero Reich. Una cerimonia sontuosa, con una coreografia quasi liturgica. Si prestò attenzione agli aspetti scenografici, alle musiche, ai canti. I libri da bruciare furono accompagnati al fuoco da una marcia alla quale presero parte i professori in toga, gli studenti e i soldati delle SA e delle SS. Una lugubre processione, una celebrazione del più becero oscurantismo.
La Germania hitleriana, dopo quella sera, divenne un deserto culturale. I pochissimi intellettuali che non espatriarono, come il filosofo Martin Heidegger, dovettero rassegnarsi al silenzio. Ma la gran pare di loro abbandonò il Paese.
Con i roghi di maggio Goebbels, da poco nominato ministro della propaganda, lanciò la sua campagna contro i libri “non tedeschi” e contro la cosiddetta “arte degenerata”. Fu l’avvio dell’imbarbarimento della vita culturale tedesca dopo l’avvento del regime nazista. L’intento dichiarato era quello di cancellare qualunque testimonianza degli intellettuali che nel XIX e XX secolo avevano dato sviluppo alla moderna cultura europea.
Durante il rogo Goebbels declamò alla folla isterica parole tragiche e ridicole al tempo stesso: “L’era dell’esagerato intellettualismo ebraico è giunto alla fine. Il trionfo della rivoluzione tedesca ha chiarito quale sia la strada della Germania e il futuro uomo tedesco non sarà un uomo di libri, ma piuttosto un uomo di carattere ed è in tale prospettiva e con tale scopo che vogliamo educarvi… pertanto fate bene, in quest’ora solenne, a gettare nelle fiamme la spazzatura intellettuale del passato”.
Nei roghi finirono migliaia di opere letterarie e artistiche di autori che, secondo il nazismo, avevano “corrotto” e “giudaizzato” una presunta “cultura tedesca” pura: gli scrittori Thomas Mann, Heinrich Mann, Bertolt Brecht e Joseph Roth. I filosofi Theodor W. Adorno, Herbert Marcuse ed Ernst Bloch. L’architetto Walter Gropius. I pittori Paul Klee, Wassili Kandinsky e Piet Mondrian. Gli scienziati Albert Einstein e Sigmund Freud. I musicisti Arnold Schönberg e Alban Berg. I registi cinematografici Georg Pabst, Fritz Lang e Franz Murnau. Insieme a centinaia di altri artisti e pensatori che avevano gettato le basi intellettuali dell’intera cultura del Novecento.
Era infatti la cultura occidentale quella che bruciava in quei roghi, in un’Europa divenuta impotente a difendere le sue opere e, negli anni successivi, i suoi cittadini.
Come si giunse a una simile declamazione di odio verso la cultura?
La principale ragione, come spesso accade, è da ricercarsi nell’economia, più precisamente nella grave crisi economica che aveva investito la Germania negli anni successivi alla conclusione della Prima Guerra Mondiale.
L’intero mondo si trovò in grave difficoltà alla fine degli anni ’20 del secolo scorso: un periodo culminato nel celebre “giovedì nero”, il 24 ottobre 1929, con il crollo della Borsa di Wall Street.
In Germania la debole Repubblica di Weimar attuò politiche deflazionistiche che portarono ad un aumento indiscriminato delle imposte e ad un aumento incredibile degli interessi. L’economia del paese andò al collasso. Il nazismo, una volta conquistato il potere sfruttando il malcontento dilagante, attuò una politica economica basata su di un forte incremento di spesa pubblica e su politiche monetarie espansive, ottenendo l’entusiastico e fanatico consenso di milioni di tedeschi. Hitler capì che l’utilizzo di strumenti tipicamente keynesiani, apparentemente paradossali per la sua visione, avrebbe determinato una crescita nel breve periodo e un forte consenso sociale. Un consenso che sarebbe aumentato se si fossero “divise” tra loro le persone più svantaggiate, creando miti e pericoli, veri o presunti, capaci di far sorgere nemici comuni ai quali attribuire ogni nefandezza possibile e dando vita a un clima di egoismo, di odio, di chiusura mentale e morale.
Odio ed egoismo: ecco l’humus ideale per cementare un consenso patologico.
Perché colpire i libri e la cultura?
Perché la cultura, e con essa i libri che la nutrono, rappresentano un’oasi di dubbio, il respiro del nuovo, una fonte di civiltà e tolleranza.
I libri sono i silos nei quali custodire le idee che possono germogliare e attecchire nella coscienza e nell’intelligenza degli esseri umani. Da loro fiorisce il senso critico e lo spirito di libertà, che è l’impulso creatore dell’intelligenza. I libri rendono fertile la ragione che, come diceva Norberto Bobbio, sarà solo un lumicino, ma è tutto quanto abbiamo per procedere nelle tenebre da cui siamo venuti alle tenebre verso le quali andiamo. Ecco perché la cultura è sempre considerata pericolosa da parte dei tiranni e dei demagoghi di ogni genere.
L’avversione verso la cultura è un denominatore comune per i regimi autoritari. Non a caso analoghe politiche di repressione culturale furono applicate dal regime staliniano nei decenni successivi. O dal regime dei khmer rossi di Pol Pot in Cambogia, dove i primi tra i milioni di cittadini sterminati furono proprio gli intellettuali, considerati parassiti irrimediabilmente contaminati dalla vecchia cultura e potenziali controrivoluzionari. Bastava possedere libri, oppure il semplice fatto di portare gli occhiali, per essere etichettati come insegnanti o studiosi e quindi essere fucilati. Oggi, non a caso, assistiamo ad analoghi atteggiamenti nella Turchia di Erdogan, dopo averli visti applicati dai terroristi dell’ISIS che, anch’essi, bruciavano libri e monumenti della cultura.
Dobbiamo ricordare tutto questo, in quanto viviamo giorni di profonda crisi economica, di diffuso impoverimento. Un periodo nel quale una insidiosa cultura dell’odio si diffonde nel mondo, ammorbando il comune sentire e coinvolgendo ogni dibattito, che diviene manifestazione di rancorosa polemica, complice anche una classe politica del tutto inadeguata e intenta solo a cavalcare un presunto consenso fatto di astiosa contrapposizione.
Un terreno propizio a tutti coloro che vogliono attaccare la democrazia e la libertà di pensiero e di critica, additando soluzioni semplicistiche.
Non dobbiamo delegare fiducia a boriosi capipopolo, né a presuntuosi soloni, latori di una verità specchio di narcisismo.
Bertrand de Saint-Vincent, in un suo editoriale sul quotidiano parigino “Le Figaro”, ha definito la cultura come “quel nutrimento per l’anima che la pandemia non deve cancellare”.
Sono d’accordo con lui, perché la prospettiva di essere lasciati, in futuro, senza cibo per la mente pare un incubo. Anche se, a qualcuno, potrà apparire un sogno.

Foto: Biblioteca del Tempo
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Primo Maggio

Quest’anno è necessario ridefinire e calibrare il senso della giornata del Primo Maggio.
Se già da tempo i mutati scenari occupazionali e sociali imponevano di uscire da una iconografia tipica della metà del secolo scorso, le conseguenze di quanto occorso in quest’ultimo periodo, contraddistinto dell’epidemia, rendono necessario un ripensamento radicale, che sappia restituire a questa festa il valore fondamentale che le compete.
Lo sorso 6 aprile l’ISTAT ha diffuso i dati relativi all’occupazione nel nostro Paese. Credo che le cifre siano elequenti, nella loro cruda drammaticità. Nonostante il blocco dei licenziamenti, a febbraio gli occupati in Italia sono stati 945.000 in meno rispetto allo stesso mese del 2020. In un anno sono crollati i posti a termine (-372mila) e gli autonomi (-355mila). Ma si sono persi anche 218mila dipendenti stabili. La diminuzione è stata più intensa per gli under 35. Il tasso di disoccupazione per i giovani fino ai 24 anni è salito al 31,6%. Sono anche aumentati di 717mila unità gli inattivi, cioè coloro che non sono occupati ma nemmeno cercano un posto.
Non va meglio a livello globale. In questo ambito ci soccorrono i dati forniti dall’ILO, Organizzazione Internazionale de Lavoro, l’agenzia specializzata delle Nazioni Unite sui temi del lavoro e della politica sociale. Secondo questo Ente la crisi economica e del lavoro causata dal COVID-19 potrebbe incrementare la disoccupazione nel mondo per almeno 25 milioni di persone. Queste si sommerebbero ai 188 milioni di disoccupati nel 2019. L’OIL stima che circa 35 milioni di persone in più si troveranno in condizioni di povertà lavorativa in tutto il mondo. Gli effetti della crisi sulle ore lavorate e sul reddito sono imponenti. Nel secondo trimestre del 2020, ad esempio, le stime aggiornate prevedono una riduzione, a livello globale, delle ore lavorate pari al 17,3 per cento: questa riduzione equivale a 495 milioni di posti di lavoro a tempo pieno. Questa crisi potrebbe avere un impatto maggiore su alcuni gruppi di lavoratori e lavoratrici, aumentando le disuguaglianze. Tra questi, le persone che svolgono lavori meno protetti e meno retribuiti, i giovani, i lavoratori anziani e le lavoratrici.
Il rischio è quello di passare rapidamente da una pandemia sanitaria ad una sociale.
Il virus, lungi da rendere migliore la società, ha semmai esasperato diseguaglianze e ingiustizie.
Dall’inizio della pandemia il patrimonio dei primi 10 miliardari del mondo è aumentato di 540 miliardi di dollari complessivi, che sarebbero più che sufficienti a pagare il vaccino per tutti gli abitanti del pianeta e ad assicurare che nessuno cada in povertà a causa del virus. È quello che emerge dal rapporto della confederazione internazionale di organizzazioni no profit, Oxfam, dal titolo “Il virus della disuguaglianza”, secondo cui le mille persone più ricche della terra hanno recuperato in appena nove mesi tutte le perdite causate dall’emergenza della scorsa primavera e anzi hanno iniziato ad accumulare altra ricchezza, mentre i più poveri per riprendersi dalle catastrofiche conseguenze economiche della pandemia potrebbero impiegare più di 10 anni.
Esistono società che ormai, per dimensioni economiche, possono competere con gli Stati sovrani. Il “valore” di Microsoft, oppure di Google, è pari a quello dell’intero Recovery Fund (NextGenerationEU). Quello di Amazon è superiore.
Vi sono settori passati con minori danni dalle misure limitative e contenitive di questi mesi e altre che sono state praticamente annientate.
Molte realtà economiche, soprattutto nell’ambito del commercio, difficilmente potranno avere un futuro, mentre la vendita di beni e servizi cosiddetti “online” ha ricevuto un impulso inarrestabile. Tuttavia questo tipo di commercio non porta indotto territoriale, ma centralizza gli utili, perlopiù in Paesi a tassazione agevolata.
L’immensa massa di denaro che l’Europa ha stanziato con il Recovery Fund, meglio definito come Next generation EU, come lo ha battezzato la Commissione europea, sono una occasione imperdibile, che tuttavia deve essere gestita con intelligenza e lungimiranza, con occhio profetico sul futuro e con la capacità di discernere le tendenze consolidate di sviluppo globale.
Credo che il “Piano nazionale di ripresa e resilienza”, presentato dal Presidente del Consiglio Draghi, abbia in sé molti elementi di questa visione profetica del futuro: l’attenzione ai giovani, le misure a sostegno dell’imprenditorialità femminile, il sistema di certificazione della parità di genere che accompagni e incentivi le imprese ad adottare politiche adeguate a ridurre il gap di genere, le ingenti misure destinate alle infrastrutture, soprattutto nel Sud.
Ma anche in tema di lavoro, argomento sul quale stiamo riflettendo, con i 22 miliardi destinati alle politiche attive del lavoro e della formazione, all’inclusione sociale e alla coesione territoriale.
Le linee guide sono state poste con grande correttezza. Non a caso il britannico Financial Times, non sempre indulgente verso il nostro Paese, ha scritto nei giorni scorsi: “L’Italia è diventata un modello europeo. Neanche tre mesi dopo la nascita del governo di Mario Draghi non solo la voce di Roma viene ascoltata forte e chiara a Parigi e Berlino, ma l’Italia sta sempre di più fissando l’agenda dell’UE dettandone i temi”.
Sempre che a rovinare tutto non ci si mettano, per l’ennesima volta, le forze politiche, partiti, partitini, listarelle e caravanserragli vari, intenti quotidianamente a berciare e a battere i piedi per una manciata di consensi in più da conseguire nello psichedelico mondo dei sondaggi.0
Oggi è il giorno di “rispolverare” il pensiero riassunto nella celebre frase di De Gasperi: “un politico guarda alle prossime elezioni. Uno statista guarda alla prossima generazione”.
Solo con questo spirito potremo guardare al futuro con maggiore serenità.
Solo con questi pensieri possiamo celebrare degnamente il Primo Maggio. Con meno bande, concerti e coreografie novecentesche. Ma con attenzione autentica e programmatica al lavoro, alla sua tutela e alla sua sicurezza. Contro la corruzione, la stupidità, gli interessi costituiti.

Angelo Morbelli – “Per 80 centesimi!”
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La festa di tutti gli italiani

25 aprile.
Una data fondamentale per il nostro Paese.
Non solo per “qualcuno”, non per “una parte” dell’Italia. Ma una festa di tutti gli italiani, nessuno escluso; qualunque siano le proprie convinzioni.
In questo giorno non si festeggia una vittoria militare: la guerra, in Italia, terminò infatti il 3 maggio. Si festeggia una riscossa civile. Come disse Piero Calamandrei “il carattere che distingue la Resistenza da tutte le altre guerre, anche da quelle fatte da volontari, anche dall’epoca garibaldina, è stato quello di essere più che un movimento militare, un movimento civile”.
Troppo spesso, infatti, rammentiamo la Resistenza armata a scapito di quella “disarmata”, disconoscendo la dignità, la forza, la caparbietà di tanti “civili” – in gran parte donne, vecchi e bambini – che dall’entrata in guerra dell’Italia fino alla Liberazione dovettero convivere con la disoccupazione e la fame mai saziata dai razionamenti. Furono eroiche soprattutto le donne che per tanti mesi lavorarono per un salario di fame, fecero lunghe ed estenuanti code per comprare qualcosa per i propri figli a casa, sempre con la paura del successivo bombardamento notturno e con il pensiero costante al figlio o al marito in qualche lontano fronte di guerra.
Il 25 aprile si ricorda la vittoria della democrazia sull’oppressione, della dignità umana contro la barbarie della guerra, dell’occupazione e dell’odio.
Lasciatemi usare le parole di Norberto Bobbio: “eravamo ridiventati uomini con un volto solo e un’anima sola. Eravamo di nuovo completamente noi stessi. Ci sentivamo di nuovo uomini civili. Da oppressi eravamo ridiventati uomini liberi. Quel giorno, o amici, abbiamo vissuto una tra le esperienze più belle che all’uomo sia dato di provare: il miracolo della libertà”.
La libertà. Ecco il valore prezioso per tutti gli italiani che si festeggia il 25 aprile!
Per questo il significato di questa ricorrenza è oggi così attuale. Perché le vittorie sbiadiscono, i successi militari si appannano. Ma la libertà è il respiro più vero della civiltà.
Non dobbiamo imbalsamare questa Festa riferendola a un preciso momento storico. Guai a cadere nella trappola della memoria fine a se stessa, della retorica scontata.
Dobbiamo fare del 25 aprile un fondamento sul quale costruire una società rinnovata, nella quale i popoli non si debbano mai più chiudere in una belligerante autarchia, ma abbiano in sé il respiro dell’universalità e della ormai inevitabile interconnessione globale. Un mondo nel quale il concetto ottocentesco di “indipendenza” si schiuda al nuovo valore dell’interdipendenza. Questa è la parola nuova in cui, se non si vuole che il domani ripeta e aggravi gli orrori di ieri, si dovrà riassumere il nuovo senso della libertà, quello da cui potrà nascere un avvenire diverso dal passato: una libertà che unisca gli individui e i popoli, che scandisca la loro dipendenza scambievole; che rivendichi una giustizia da difendere prima negli altri che in noi.
Senza giustizia la libertà è mutilata, ma senza libertà la giustizia è vuoto egualitarismo tirannico.
Resistere non è un grido contro qualcuno. È chiedere unità. È ricominciare la speranza.
Se faremo nostro questo pensiero il 25 aprile non sarà più soltanto rievocazione, ma fertile base verso rinnovati orizzonti.
Sarà, come deve essere e come è, la festa di tutti gli italiani. Nessuno escluso.
Buon 25 aprile!

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Un risparmio importante

La crisi economica sta opprimendo l’intero mondo.
Nel nostro Paese intere categorie sono ormai sull’orlo del collasso e, tra pochi mesi, la conclusione del blocco dei licenziamenti potrebbe determinare un’ondata di disoccupazione difficilmente quantificabile.
Le disuguaglianze economiche, lungi dall’essere appiattite, hanno raggiunto picchi mai raggiunti in precedenza.
Tutto questo, insieme alla sfiducia ormai diffusa verso la classe politica e la stessa forma democratica, potrebbe portare a preoccupanti problemi di ordine pubblico.
In questo contesto gli Stati tutti, nella logica di attutire i problemi, si stanno indebitando come mai in precedenza.
Questo determina, come ovvio, la necessità di tagliare spese pubbliche non necessarie per dirottare risorse verso la ricostruzione delle economie nazionali.
Tra le voci di spesa mai menzionate, anche se ingenti, vi è quella relativa al mantenimento delle testate nucleari.
Alcuni dati significativi sono apparsi sull’edizione odierna di “Specchio” , inserto settimanale del quotidiano “La Stampa” e di quelli del Gruppo editoriale GEDI.
Vediamo qualche dato.
Le testate nucleari nel mondo sono circa 13.400. La più fornita è la Russia, con 6.375, seguita dagli Stati Uniti con circa 5.800.
I Paesi che detengono armi nucleari sono nove: USA, Russia, Cina, Francia, Regno Unito, India, Pakistan, Corea del Nord e Israele.
Alcuni altri Paesi, pur non disponendo di testate nucleari proprie, ospitano sul proprio territorio quelle degli Stati Uniti. Sono Turchia (50 testate), Italia (40), Germania (20), Belgio (20) e Paesi Bassi (20).
Il solo mantenimento di queste armi, al fine di mantenerle operative e gestire i sistemi di sicurezza e puntamento, è estremamente costoso e varia, ovviamente, per ciascun Paese. Si passa dai 36 miliardi di dollari degli Stati Uniti agli 11 della Cina, dai 9 della Russia agli 8 del Regno Unito.
Coinvolgendo anche, come ovvio, i Paesi che si limitano a ospitarle.
Con una spesa complessiva, per tutti gli stati detentori, di circa 73 miliardi di dollari.
Non voglio essere banale: non si tratta di una spesa immensa. Il solo scostamento di bilancio deciso dal nostro governo pochi giorni fa è di 40 miliardi di euro, ossia di 47 miliardi di dollari.
Ma certamente di una spesa di cui si potrebbe fare a meno. Qualcuno ha calcolato che la cifra per il mantenimento delle testate equivale a quello di 300 mila posti letto in terapia intensiva e 250 mila tra medici e inferrnieri.
Ma non si tratta solo di risparmio, ma della sicurezza generale dell’umanità e del nostro pianeta.
Non voglio essere banale, ho detto, ma neppure retorico. Non ipotizzo un disarmo totale. Non è tempo di utopie e di sogni infantili. La crescente insicurezza geopolitica, i sempre più pericolosi regimi autoritari, il sorgere di “dittatori” che paiono talora perdere il senso dell’intelletto e della ragionevolezza, il brontolio costante del terrorismo internazionale rendono indispensabile il mantenimento di un sistema di difesa, meglio ancora se, per quanto riguarda il nostro continente, forte di un coordinamento europeo.
Ma ritengo altresì che un efficiente sistema militare di difesa possa prescindere dalla presenza di 13.400 testate nucleari, le quali costituiscono un permanente pericolo di estinzione di massa del pianeta.
Forse conviene rifletterci.

Foto vladtime.ru Летчики США употребляли ЛСД при охране ядерных ракет Источник
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Il cacciatore di pirati in Africa

“Il cacciatore di pirati in Africa”.
No, non si tratta dell’ultimo romanzo di Wilbur Smith e neppure di un’opera poco conosciuta di Emilio Salgari.
E’ il titolo dell’articolo del “Corriere della Sera” di oggi con cui il quotidiano ci parla del contrammiraglio Luca Pasquale Esposito che, dalla tolda della fregata «Carabiniere», comanda l’operazione europea antipirateria «Atalanta» nei mari africani.
La pirateria non è infatti un fenomeno confinato nei libri di storia o d’avventura, ma – al contrario – è in ascesa e preoccupa gli armatori. Nel 2020, secondo i dati del rapporto sulla pirateria dell’Ufficio marittimo della Camera di commercio internazionale, sono stati 195 gli attacchi subiti dalle imbarcazioni nel mondo contro i 162 dell’anno prima. Del resto le prede possibili sono tante: il 90 per cento del trasporto delle merci avviene via mare. Così i corsari sequestrano petroliere o cargo e ottengono riscatti per milioni di dollari. Rapiscono anche marinai: 135 lo scorso anno.
Per questo, dal 2008, l’Europa ha varato l’operazione antipirateria «Atalanta» che ha ridotto al lumicino gli attacchi. Oggi la missione è comandata dal contrammiraglio Luca Pasquale Esposito. Dalla tolda della fregata «Carabiniere», guida l’equipaggio di 153 uomini e 13 donne della Marina militare.
La pirateria è un crimine e l’obiettivo degli interventi militari è quello di sventarne i tentativi e assicurare alla giustizia i pirati perché subiscano un processo.
Oltre a stroncare la pirateria l’operazione ha contribuito a combattere il traffico di droga e di armi nei mari africani.
Dobbiamo essere grati al contrammiraglio Esposito: per la sua attività e per il prestigio che ancora una volta le nostre Forze Armate donano al nostro Paese.
Con buona pace di qualche scrittrice in cerca di un po’ di visibilità che, con sprezzo del ridicolo, ha assimilato gli uomini in divisa ai dittatori, alludendo al generale Figliuolo, nominato Commissario Straordinario per l’emergenza Covid-19, che – con la sua divisa – incuterebbe paura.
Ci sarebbe da indignarsi, se non fossimo troppo impegnati a ridere.

Foto Marina Militare
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Aboliamo le Regioni

Il giornalista, o forse sarebbe meglio dire il polemista Andrea Scanzi, sempre in prima fila a strepitare, con il suo modo spesso un po’ volgare, contro presunti furbi e furbetti è stato vaccinato ad Arezzo contro il coronavirus in forza della sua dichiarazione con la quale si è definito “caregiver” di genitori fragili da un hotel di Merano dove trascorreva una settimana di relax. Dopo l’istruttoria aperta dal Presidente della Regione Giani sarà ora la Procura della Repubblica di Arezzo a valutare l’eventuale sussistenza di irregolarità ovvero se si possa trattare soltanto di una notevole caduta di stile.
Nel frattempo a Napoli molti tra i collaboratori del Presidente De Luca hanno ricevuto la vaccinazione, superando una lunghissima lista di ultraottentenni e soggetti fragili. La cosa, in questo caso, appare formalmente ineccepibile, in quanto la stessa Regione Campania aveva previsto la vaccinazione di dirigenti e componenti dell’Unità di crisi, ancorché impegnati quotidianamente dietro a una scrivania di un appartato ufficio. Del resto fu proprio il Presidente De Luca tra i primi a farsi vaccinare in Italia ancora nel mese di dicembre.
La situazione è vergognosa un po’ ovunque. Già nel mese di gennaio Cristina De Rold, in un articolo pubblicato su “Il Sole 24 Ore”, stimava in oltre centomila i vaccinati che non rientravano nelle categorie indicate come prioritarie, ossia ospiti delle RSA, personale sanitario o socio-sanitario, e over 80.
A confermare che non tratti soltanto di una mia valutazione personale sono giunte ieri le autorevoli parole del Presidente del Consiglio Draghi, il quale ha affermato: “Per quanto riguarda la copertura vaccinale di coloro che hanno più di 80 anni, persistono purtroppo importanti differenze regionali, che sono molto difficili da accettare. Mentre alcune Regioni seguono le disposizioni del Ministero della Salute, altre trascurano i loro anziani in favore di gruppi che vantano priorità probabilmente in base a qualche loro forza contrattuale”
Mi duole ammetterlo, ma ancora una volta nel nostro Paese si evidenzia quella che si potrebbe definire la “sindrome di Schettino”, ossia l’irrefrenabile desiderio di porsi in salvo, a qualunque costo, prima degli altri e, il più delle volte, a discapito del prossimo.
Vi è tuttavia anche un’ulteriore constatazione evidenziata per l’ennesima volta dal disastro nel Paese in tema di vaccinazioni che segue una altrettanto deludente e sfaccettata gestione dell’epidemia.
Credo sia giunta l’ora di dirlo con chiarezza: tra le numerose riforme che si impongono nel nostro Paese ve n’è una particolarmente necessaria: l’abolizione delle Regioni, con la necessaria modifica del testo costituzionale.
Mi rendo conto d’essere voce isolata nel dire questo, eppure credo di interpretare un diffuso sentire, magari non esplicitato.
Negli anni le Regioni sono divenuto solo centri di potere e di affari, di appalti e di sottogoverno.
Serbatoi di potere e di clientele per i partiti.
Otto anni fa, nel 2013, la Corte dei Conti e la magistratura svolsero una inchiesta sui rimborsi spese di Presidenti, Assessori e consiglieri delle regioni italiane. Un’operazione allora definita “rimborsopoli”.
Sedici regioni su venti vennero travolte dalle indagini e i consiglieri interessati, in molte realtà, superarono il 60% degli eletti. Tra le spese rimborsate (e quindi pagate da noi contribuenti) figuravano tosaerba, campanacci per bovini, biancheria intima, biglietti per partite di calcio, cibo per gatti, pranzi di nozze, sushi…
Vi è quindi una “questione morale” ma, ancor più, una esigenza di razionalità ed efficienza.
Le Regioni hanno fallito il loro obiettivo.
Inoltre si basano su confini del tutto arbitrari, disegnati a tavolino nell’Ottocento da Pietro Maestri per quelle che lo stesso chiamava “compartimenti statistici” e non “regioni” e che nessun cultore di studi economici, etnici o ambientali ha mai definito tali.
Se volessimo riferirci a un concetto di territorialità dovremmo semmai guardare alle Province, messe in rete e comunque dipendenti da un unico potere centrale. Sono proprio le Province a ricordare l’Italia dei Comuni di antica memoria, quella fatta di piccole imprese, che funzionano perché legate a un territorio in modo reale e sano e non sulla base di costruzioni strumentali solo a guadagnare qualche voto, solo perché in contrapposizione con lo Stato.
Le Regioni, nell’attuale situazione, sono parodie dello Stato, per imitare un sistema federale che non esiste e che non ha ragione di esistere in Italia. Servono solo a limitare gli orizzonti e ad aumentare i cost senza alcuna efficienza: la frammentazione delle ferrovie, della sanità e della scuola ne sono gli esempi più lampanti.
E allora è così assurdo il sogno di abolirle?

Immagine dal quotiano Giudicarie.com
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La tragedia del nostro Paese

Un anno fa, il 18 marzo 2020, vennero pubblicate le foto di decine di camion dell’esercito incolonnati, uno dietro l’altro, nel silenzio dell’alba, per trasportare i morti di Bergamo, per i quali non c’era più posto nel camposanto della città, verso i forni crematori di altre regioni.
Fu con quell’immagine che percepimmo tutti la tragedia rappresentata dal Covid.
Sino a quel 18 marzo dello scorso anno i morti per questo virus erano 2.978. Oggi sono oltre 103.000.
Tutti abbiamo una persona cara che ha sofferto, è stata ricoverata, spesso, purtroppo, è morta.
In assoluta solitudine. Perché questa malattia fa sì che si muoia soli, senza neppure una persona cara accanto per l’ultimo conforto.
Eppure, nonostante questo, ancor oggi vi sono non solo folli negazionisti, ma anche “minimizzatori”. Quelli del “Sì, va bene, però…”. Con una penosa serie di tesi, osservazioni, distinguo…
Mi rammentano il Don Ferrante del XXXVII capitolo dei “Promessi Sposi” di Manzoni:

…primo parlar che si fece di peste, don Ferrante fu uno de’ più risoluti a negarla, e sostenne costantemente fino all’ultimo, quell’opinione; non già con ischiamazzi, come il popolo; ma con ragionamenti, ai quali nessuno potrà dire almeno che mancasse la concatenazione.
“In rerum natura,” diceva, “non ci son che due generi di cose: sostanze e accidenti; e se io provo che il contagio non può esser né l’uno né l’altro, avrò provato che non esiste, che è una chimera. E son qui. Le sostanze sono, o spirituali, o materiali. Che il contagio sia sostanza spirituale, è uno sproposito che nessuno vorrebbe sostenere; sicché è inutile parlarne. Le sostanze materiali sono, o semplici, o composte. Ora, sostanza semplice il contagio non è; e si dimostra in quattro parole. Non è sostanza aerea; perché, se fosse tale, in vece di passar da un corpo all’altro, volerebbe subito alla sua sfera. Non è acquea; perché bagnerebbe, e verrebbe asciugata da’ venti. Non è ignea; perché brucerebbe. Non è terrea; perché sarebbe visibile. Sostanza composta, neppure; perché a ogni modo dovrebbe esser sensibile all’occhio o al tatto; e questo contagio, chi l’ha veduto? chi l’ha toccato? Riman da vedere se possa essere accidente. Peggio che peggio. Ci dicono questi signori dottori che si comunica da un corpo all’altro; ché questo è il loro achille, questo il pretesto per far tante prescrizioni senza costrutto. Ora, supponendolo accidente, verrebbe a essere un accidente trasportato: due parole che fanno ai calci, non essendoci, in tutta la filosofia, cosa più chiara, più liquida di questa: che un accidente non può passar da un soggetto all’altro. Che se, per evitar questa Scilla, si riducono a dire che sia accidente prodotto, dànno in Cariddi: perché, se è prodotto, dunque non si comunica, non si propaga, come vanno blaterando. Posti questi princìpi, cosa serve venirci tanto a parlare di vibici, d’esantemi, d’antraci… ?”
“Tutte corbellerie,” scappò fuori una volta un tale.
“No, no,” riprese don Ferrante: “non dico questo: la scienza è scienza; solo bisogna saperla adoprare. Vibici, esantemi, antraci, parotidi, bubboni violacei, furoncoli nigricanti, son tutte parole rispettabili, che hanno il loro significato bell’e buono; ma dico che non han che fare con la questione. Chi nega che ci possa essere di queste cose, anzi che ce ne sia? Tutto sta a veder di dove vengano.”…
“La c’è pur troppo la vera cagione,” diceva; “e son costretti a riconoscerla anche quelli che sostengono poi quell’altra così in aria… La neghino un poco, se possono, quella fatale congiunzione di Saturno con Giove. E quando mai s’è sentito dire che l’influenze si propaghino…? E lor signori mi vorranno negar l’influenze? Mi negheranno che ci sian degli astri? O mi vorranno dire che stian lassú a far nulla, come tante capocchie di spilli ficcati in un guancialino?… Ma quel che non mi può entrare, è di questi signori medici; confessare che ci troviamo sotto una congiunzione così maligna, e poi venirci a dire, con faccia tosta: non toccate qui, non toccate là, e sarete sicuri! Come se questo schivare il contatto materiale de’ corpi terreni, potesse impedir l’effetto virtuale de’ corpi celesti! E tanto affannarsi a bruciar de’ cenci! Povera gente! brucerete Giove? brucerete Saturno?”
His fretus, vale a dire su questi bei fondamenti, non prese nessuna precauzione contro la peste; gli s’attaccò; andò a letto, a morire, come un eroe di Metastasio, prendendosela con le stelle.
”.

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8 marzo: nulla da festeggiare, molto su cui riflettere

8 marzo: Giornata internazionale della Donna.
Una ricorrenza, anche quest’anno, diversa dal solito.
Una giornata priva di quella pletora di orpelli e banalità che ne offuscavano il reale significato: nessuna mimosa, niente cene, nessun evento ludico.
L’assenza di questi paludamenti ci permette però di cogliere meglio i reali problemi sui quali occorre soffermarci, perché quella odierna è la Giornata della Donna, non la Festa, come vorrebbero esigenze commerciali.
Il primo di questi problemi è certamente la violenza che quotidianamente le donne subiscono. Undici vittime di femminicidio dall’inizio dell’anno. Una tendenza apparentemente inarrestabile: a partire dal 2000 le donne uccise in Italia sono state 3.344.
Oltre a quella estrema del femminicidio permangono molte altre forme di violenza sulle donne. Secondo un recente studio dell’Università di Padova, in Italia il 31,5% delle donne tra i 16 e i 70 anni ha subito una qualche forma di violenza fisica o sessuale nel corso della propria vita. Significa che sono circa 7 milioni le donne che, almeno una volta nella vita, sono state vittime di qualche tipo di violenza. 4 milioni e 353 mila donne hanno subito violenza fisica, 4 milioni 520 mila violenza sessuale, 1 milione 157 mila le forme più gravi della violenza sessuale come lo stupro (652 mila) e il tentato stupro (746 mila).
Dobbiamo anche riflettere sul rapporto tra la donna e il mondo del lavoro.
L’Eu Gender Equality Index ha certificato come il nostro rimanga “l’ultimo Paese in termini di divari nel campo del lavoro”. Lo scorso anno il tasso di occupazione femminile risultava ancora inchiodato al 50,1% (e con la pandemia è sceso di nuovo sotto questa soglia), marcando una distanza di ben 17,9 punti percentuali da quello maschile. I divari territoriali sono molto ampi: il tasso di occupazione delle donne è pari al 60,2% al Nord e al 33,2% al Sud.
In Italia, inoltre, il calo dell’occupazione femminile durante l’emergenza Covid è stato il doppio rispetto alla media Ue, con 402mila posti di lavoro persi tra aprile e settembre 2020.
Nel solo mese di dicembre dello scorso anno si sono persi 101 mila posti di lavoro: 99 mila di questi erano occupati da donne.
Rimane insopportabile anche la differenza di reddito tra generi: “L’Italia presenta oggi uno dei peggiori gap salariali tra generi in Europa”. Sono parole del premier Mario Draghi, il quale è stato chiaro nel suo discorso programmatico al Senato: il divario di genere in Italia deve essere una priorità e, fra le azioni da intraprendere, c’è quella di colmare la differenza di salario fra uomini e donne.
Vi è ancora quell’odioso e strisciante fenomeno del sessismo volgare e intimidatorio. Un atteggiamento pericolosamente diffuso e, purtroppo, non limitato a fasce limitate e marginali del mondo maschile.
Da quanto detto appare chiaro che non occorrono mimose o frasi melense che durino lo spazio di una giornata. E’ necessario un sostanziale cambiamento di mentalità ma soprattutto, nelle more di questo, occorrono precisi provvedimenti legislativi idonei a governare e accelerare questa trasformazione.
Per quanto riguarda il contrasto alla violenza si impone lo stanziamento in via prioritaria di finanziamenti adeguati per il contrasto alla violenza e l’elaborazione di soluzioni che permettano di fornire una risposta coordinata: i centri anti violenza e le case rifugio nel nostro paese sono poche e senza fondi. Uno studio dell’organizzazione WAVE (Women Against Violence Europe) ha mostrato come nonostante la Convenzione di Istanbul del Consiglio d’Europa prescriva che ogni Stato disponga di un posto letto in casa rifugio ogni 10.000 abitanti, nel nostro paese manchi l’87% del numero previsto.
E’ altresì necessario riformare profondamente la normativa del cosiddetto “codice rosso”, che si sperava potesse intervenire efficacemente sul tema e che, invece, si è rivelata un fallimento. Il problema è che si è fatta una mera enunciazione di principi, senza la necessaria copertura finanziaria. La legge, infatti, è a “invarianza finanziaria”, ossia non prevede ulteriori fondi. Va fatto tutto con le risorse che già ci sono – e che, la realtà ha dimostrato, non bastano. Non sono previste disponibilità per permettere alle procure di fare fronte ai tempi e ai numeri; non ci sono fondi per potenziare i Centri anti violenza, né per la formazione del personale che si ritrova a raccogliere la denuncia delle donna.
Così accade che, poche settimane fa, Clara Ceccarelli, una donna minacciata da tempo dal proprio ex compagno, si sia pagata il proprio funerale nella certezza di finire assassinata, cosa effettivamente avvenuta pochi giorni dopo.
Per quanto attiene la discriminazione in campo economico e del lavoro possiamo e dobbiamo far nostre le proposte provenienti dall’Europa, ben più lungimirante dell’Italia su questo tema. L’uguaglianza di genere e le pari opportunità per tutti, secondo le direttive UE, dovranno essere tenuti in considerazione nella preparazione e attuazione dei piani per la ripresa e la resilienza, che saranno presentati dagli Stati membri al fine di beneficiare delle risorse del Dispositivo per la ripresa e la resilienza Next generation EU con una dotazione finanziaria di 672,5 miliardi di euro, di cui circa 209 miliardi per l’Italia. Secondo quanto prevede il nuovo regolamento istitutivo del dispositivo, recentemente approvato in via definitiva da Parlamento europeo e Consiglio, i piani dovranno esplicitare le modalità con cui le misure dovrebbero contribuire alla parità di genere. Il Presidente Draghi ne è ben consapevole e l’ha posto tra gli obiettivi del governo nel suo intervento al Senato. Così deve essere.
Per quanto concerne l’ingiuria sessista occorre passare dal biasimo all’azione, anche legale. Occorre che tutti i protagonisti vengano perseguiti in sede penale. Così come è necessario che, laddove l’apparato pubblico possa intervenire direttamente, lo faccia. Per cui se un professore universitario si rivolge a una donna impegnata in politica non già dicendo che le sue tesi sono sbagliate e incompetenti (tesi peraltro condivisibile) ma apostrofando questa donna come “vacca” e “scrofa” deve subito essere subito sospeso dall’insegnamento, come fortunatamente avvenuto: non deve essere per lui possibile interfacciarsi con la platea studentesca, affinché non possa trasmettere la volgarità e lo squallore che alberga nel suo pensiero. Se un cosiddetto opinionista, peraltro straniero, non trova pensiero più intelligente che definire “escort” la moglie di un presidente sulla base di un pregiudizio (o – forse – di becera invidia) ci troviamo dinnanzi a un piccolo e insignificante uomo, che non deve più apparire alla televisione pubblica.
Più in generale qualunque soggetto insulti una donna con frasi sessiste, nella vita o sui social, deve essere perseguito penalmente e rispondere adeguatamente della sua meschinità.
Tutto questo in attesa di un nuovo pensiero diffuso, in cui la donna sia non già eguale ma naturalmente sinergica all’uomo, in un processo di armonioso sviluppo basato sulla eguaglianza e sul rispetto.
Che non è cosa di un giorno, ma conquista definitiva.
Dice un proverbio cinese che le donne sostengono la metà del cielo.
Ma io aggiungo che così facendo rendono migliore anche l’altra metà.

politica · società

Una violenza non più tollerabile

Ancora un messaggio di violenza e di odio da un rapper.
Si tratta di Fuma, giovane rapper udinese, che nel videoclip del singolo “Audi” canta in un garage mentre un poliziotto è appeso, esanime, a testa in giù e un bambino assiste alla scena.
Il testo è altrettanto chiaro: “fanculo alla volante all’angolo”, “non so tu che dici, prendere un proiettile per i miei amici, mentre camionette prendono fuoco”…
Non solo: nel video è presente un bambino che assiste all’osceno entusiastico dimenarsi di un branco di scalmanati, gli stessi che inneggiano sotto al corpo penzolante dell’agente di polizia appeso a testa in giù.
Indecente e vergognoso. In un periodo di crescente violenza, scandita dal timore di imminenti tensioni sociali, non è tollerabile consentire messaggi di odio verso le forza dell’ordine.
I poliziotti sono donne e uomini, sono madri e padri, sorelle e fratelli, oltre che garanti della sicurezza soprattutto dei più deboli. Persone che anche in questo periodo di covid sono sempre state in prima linea, mettendo quotidianamente a repentaglio la loro salute.
Mi aspetto che anche Audi intervenga sul caso, a tutela dell’onorabilità del suo marchio. Il nome della casa automobilistica infatti non solo è il titolo del brano, ma è anche ricorrente nel testo. Inoltre il rapper protagonista del video sfoggia vistosamente i simboli del marchio.
E’ necessaria una ferma risposta a questa infamia. Sia perché si tratta di brani essenzialmente destinati a un pubblico di giovanissimi, spesso minori, sia perché è giunta l’ora di mettere fine a una demenziale propaganda intrisa di odio e di violenza.

politica · società

Le radici della violenza

Ogni qual volta ci troviamo a condannare la violenza sulle donne ribadiamo che fertile humus di questa piaga sono i luoghi comuni e le offese sessiste verso di loro.

Quando queste offese avvengono addirittura sulle reti pubbliche televisive lo sconforto ci dovrebbe sgomentare.

L’ennesimo triste esempio è di pochi giorni fa, allorquando nel corso della trasmissione “Unomattina”, su RAI 1, l’opinionista Alan Friedman, collegato via Skype per commentare l’addio di Trump alla Casa Bianca, aveva definito la moglie Melania come una “escort”.

Affermazione, purtroppo accompagnata da qualche risatina in studio.

Non si possono più tollerare questi atteggiamenti, così come non è accettabile che la differenza di opinioni e di pensiero possa in alcun modo costituire un’attenuante alla volgarità.

Un insulto sessista è una canagliata, che sia diretto a Melania Trump, a Teresa Bellanova, a Laura Boldrini, a Giorgia Meloni o alla cassiera del bar sotto casa!

Concordo pienamente con quanto scritto da Mara Carfagna: “Garbo e rispetto sono, innanzitutto, un obbligo dell’educazione, quella che ci hanno insegnato le nostre madri e le nostre nonne: la cosa più tradizionale e identitaria che io possa immaginare, la più popolare che mi venga in mente. Ma, oggi, il rifiuto interiore del sessismo – quello che dovrebbe impedire di far commenti sulle donne come i vecchi pappagalli a bordo strada – dovrebbe essere anche precondizione di ogni impegno politico e giornalistico”.

Mi aspetto che la RAI, in ossequio al suo ruolo di servizio pubblico, si astenga per un lungo periodo dall’invitare tale presunto opinionista nelle proprie trasmissioni.

Melania Trump non è una “escort”, ma più semplicemente la moglie di Donald Trump.

Così come Friedman non è un opinionista, ma più semplicemente un poveraccio.