Il quotidiano statunitense “Politico” ha pubblicato oggi una lettera di un giornalista afghano. Eccone alcuni brani:
“Tanti giornalisti mi stanno chiamando. Ho paura per le loro vite. È la notte peggiore della mia vita per me e migliaia di altri. Pensavamo che gli americani non ci avrebbero abbandonato… Non avremmo mai potuto immaginare e credere che sarebbe successo. Non avremmo mai immaginato di poter essere traditi così gravemente dagli Stati Uniti. La sensazione di tradimento è immensa. C’erano molte promesse, molte garanzie. Si parla tanto di valori, si parla tanto di progresso, di diritti, di diritti delle donne, di libertà, di democrazia. Tutto si è rivelato vuoto. Se avessi saputo che questo impegno era temporaneo, non avrei rischiato la vita. Sto cercando un modo per andarmene. Probabilmente ho un grosso bersaglio sulla schiena. Se dicessi “non ho paura”, mentirei. La gente qui è scioccata dal ritiro degli Stati Uniti dall’Afghanistan. Non avrebbero mai potuto immaginare questo. Migliaia di persone saranno uccise. Gli Stati Uniti non hanno più l’autorità morale per dire: “Crediamo nei diritti umani. Lottiamo per i diritti umani e la democrazia”. Non mi interessa se è l’amministrazione Trump o l’amministrazione Biden. Credevo negli Stati Uniti, ma si è rivelato un grosso errore“. In questa lettera c’è davvero tutto.
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Ha senso, a distanza di decenni, rievocare eventi accaduti durante il secondo conflitto mondiale? Nel caso di fatti per certi versi “ordinari”, ancorché tragici, probabilmente no. Ma vi sono episodi che, per la loro efferatezza, non devono mai essere scordati. Affinché il loro ricordo si erga a perenne monito per il futuro, a evitare che nuovamente la barbarie più becera possa macchiare la storia. Quanto voglio ricordare oggi appartiene sicuramente a quest’ultima categoria. Si tratta di una tragedia accaduta 77 anni fa, il 12 agosto del 1944, a Sant’Anna di Stazzema, un paese sull’Appennino in provincia di Lucca. Pochi giorni prima questa località era stata qualificata dal comando militare tedesco “zona bianca”, ossia adatta ad accogliere sfollati: per questo, alla popolazione residente, si erano aggiunte centinaia di altre persone in cerca di sicurezza. Nonostante quanto assicurato, all’alba di quel 12 agosto tre reparti di “SS” salirono verso Sant’Anna, mentre un quarto chiudeva ogni via di fuga a valle. Strada facendo le truppe si fermarono a Capezzano Monte, dove fucilarono numerosi giovani. Alle sette le Schutzstaffel, le famigerate SS, raggiunsero Sant’Anna, accompagnate da collaborazionisti che fungevano da guide. Gli uomini del paese si rifugiarono nei boschi, per non essere deportati, mentre donne, vecchi e bambini restarono nelle loro case, sicuri che nulla sarebbe capitato loro, in quanto civili inermi. Non fu così. In poco più di tre ore vennero massacrati 560 civili, in gran parte bambini, donne e anziani. I nazisti li rastrellarono, li chiusero nelle stalle o nelle cucine delle case, li uccisero con colpi di mitra e bombe a mano. La vittima più giovane, Anna Pardini, aveva solo 20 giorni. Anche se in realtà non era lei la creatura più piccola morta nella strage: infatti era stato ucciso anche un “non ancora nato”. Tolto dal ventre della madre, ancora legato al cordone ombelicale, era stato ucciso su di un tavolo. Altri bambini di poche settimane vennero lanciati in aria e colpiti dagli spari come si fa al tiro al volo. Altri ancora vennero infilzati con le baionette. Non si trattò di rappresaglia. Come è emerso dalle indagini della Procura Militare si trattò di un’azione premeditata e curata in ogni minimo dettaglio. L’obiettivo era quello di distruggere il paese e sterminare la popolazione. Lo scrittore Manlio Cancogni ha descritto quanto accaduto. “I tedeschi, a Sant’Anna, condussero gli esseri umani, strappati a viva forza dalle case, sulla piazza della chiesa. Li avevano presi quasi dai loro letti; erano mezzi vestiti, avevano le membra ancora intorpidite dal sonno; tutti pensavano che sarebbero stati allontanati da quei luoghi verso altri e guardavano i loro carnefici con meraviglia ma senza timore né odio. Li ammassarono prima contro la facciata della chiesa, poi li spinsero nel mezzo della piazza, una piazza non più lunga di venti metri e larga altrettanto, chiusa tra due brevi muriccioli; e quando puntarono le canne dei mitragliatori contro quei corpi li avevano tanto vicini che potevano leggere negli occhi esterrefatti delle vittime che cadevano sotto i colpi senza avere tempo nemmeno di gridare. Quindi ammassarono sul mucchio dei corpi ancora tiepidi e forse ancora viventi, le panche della chiesa devastata, i materassi presi dalle case, e appiccarono loro fuoco. E assistendo insoddisfatti alla consumazione dei corpi spingevano nel braciere altri uomini e donne che esanimi dal terrore erano condotti sul luogo, e che non offrivano alcuna resistenza. Poi c’erano i bambini: fracassarono loro il capo con il calcio della mitraglietta, e infilato loro nel ventre un bastone, li appiccicavano ai muri delle case”. La Wehrmacht aveva dato in più occasioni l’ordine di uccidere anche i civili. Ma in nessuno di questi ordini si era mai parlato dei bambini. Sembra però che a Sant’Anna fosse stata proprio la vista dei bambini a scatenare una sorta di raptus sanguinario. “Quando li sentivano piangere, s’ innervosivano, diventavano furiosi“, hanno detto alcune sopravvissuti. Le vittime mostrarono una grande dignità. Tutti, quando capirono, attesero la morte nel silenzio più assoluto. Molti furono trovati con le foto della loro famiglia in mano per essere identificati dopo la morte. Nel settembre del ’44 i militari alleati trovarono a Sant’Anna i resti di numerosi donne e bambini e, oltre alle testimonianze dei pochissimi superstiti, raccolsero anche la deposizione di un disertore delle SS. Le copie di quei documenti furono poi inviate in Italia, ma a Roma scomparvero nel cosiddetto “Armadio della vergogna”. Si trattava di un armadio rimasto chiuso per decenni e scoperto solo nel 1994 nella cancelleria della Corte Militare di Appello presso la procura generale militare, nel Palazzo Cesi-Gaddi di Roma. Era girato contro un muro per “nasconderlo” e chiuso con una catena. Conteneva tredicimila pagine e oltre novecento fascicoli, che raccontavano la storia di quindicimila persone, coinvolte nei crimini di guerra commessi in Italia durante l’occupazione nazista. Riguardavano stragi come Sant’Anna di Stazzema, Fosse Ardeatine, Marzabotto, Monchio e Cervarolo e innumerevoli altre. In questa documentazione si identificava il nome del Comandante del battaglione di SS che operò la strage di Sant’Anna. Si trattava dell’austriaco Anton Galler, fino al 1933 oscuro fornaio, che – al termine della guerra – ritornò al suo totale anonimato di fornaio a Salisburgo. E’ la famosa “banalità del male” di cui ci parla Hannah Arendt nel saggio “Eichmann a Gerusalemme: resoconto sulla banalità del male”. Perché furono occultate quei novecento faldoni per tredicimila pagine, senza mai perseguire i colpevoli? In ossequio ai desideri di Stati Uniti e Gran Bretagna, che – una volta iniziata la Guerra Fredda – ritenevano opportuno stendere un velo sui massacri in Italia del 1944 e 1945. E’ giusto ricordare che la Germania si è ampiamente ed ufficialmente scusata per questi eccidi. Nel 2012 il ministro tedesco Michael Georg Link ha affermato che “Il governo federale continuerà ad assumersi la responsabilità storica dei crimini commessi per mano dei tedeschi” e che “faremo tutto il possibile affinché i crimini compiuti per mano dei tedeschi non vengano dimenticati“. Frank-Walter Steinmeier, Presidente tedesco, ha chiesto solennemente perdono, a nome della Germania, per tutto quello che i nazisti hanno fatto durante l’ultima guerra mondiale. Ha confessato, esprimendosi in italiano, di provare “solo vergogna”. E nella sua lingua ha voluto aggiungere: “Lo dico per i cittadini tedeschi e per i giovani che ignorano questi avvenimenti”. La Germania è il Paese che, più di ogni altro, ha saputo fare i conti con il proprio passato. Vorrei sottolineare alcune parole del Presidente tedesco: “lo dico per i giovani che ignorano questi avvenimenti”. Secondo un’indagine Censis effettuata tra studenti delle medie superiori e dell’università più del 50 per cento ignora chi fosse Mendele, il 28 per cento considera un Progrom una festa ebraica, il 58,7 per cento crede che la notte dei cristalli fosse una parata militare notturna del Terzo Reich e ritiene Himmler e Goebbels ministri della Germania. Per questo credo sia ancora importante ricordare i fatti che vi ho narrato oggi. Accadimenti dei quali si dovrebbe parlare nelle scuole, per combattere sul nascere l’odio e l’indifferenza. Tutti devono ricordare e temere questa barbarie, così come le altre atrocità del Ventesimo Secolo: i lager, i gulag, Pol Pot, i Talebani e via tristemente elencando. Perché il Male, anche quello terribile di Sant’Anna, non è opera di qualche folle isolato, ma cammina con le gambe dei fornai, degli imbianchini e dei maestri elementari. Delle persone alle quali – sino al giorno prima – nessuno prestava attenzione. Ma non è la banalità dei protagonisti a rendere meno orribile il male.
Le truppe degli Stati Uniti, seguite da quelle della “coalizione occidentale”, hanno ormai abbandonato l’Afghanistan. La Casa Bianca e il Pentagono hanno sprecato un fiume di parole per tentare di attribuire una qualche dignità al ritiro annunciato dal presidente Biden. Inutilmente, perché non v’è traccia di dignità nella decisione di Biden, peraltro in assoluta continuità con le intenzioni del suo predecessore Trump. La presenza dei militari occidentali nel paese asiatico non era un esercizio di tardo colonialismo, né, per una volta, un accaparramento di risorse naturali. Era una difesa di principi non negoziabili di dignità umana. Era un tentativo di debellare l’orrore talebano. Vogliamo fare un breve ripasso? Ventotto sono i divieti espressamente previsti per le donne, dal divieto assoluto di uscire di casa se non accompagnate da un parente stretto a quello assoluto di studio. Dal divieto all’uso di cosmetici (per le donne con lo smalto sulle unghie è previsto il taglio delle dita!) a quello di ridere ad alta voce. Dalla proibizione di mostrare le caviglie (oltre al viso e al resto del corpo, ovviamente) a quella di affacciarsi al balcone. Vi sono poi norme e divieti validi per donne, uomini e bambini. Dal divieto di ascoltare musica a quello di guardare la televisione. Dalla proibizione di leggere libri non islamici (pena la morte) a quella di applaudire alle rare manifestazioni sportive, dove è lecito solo cantare “allah-o-akbar” (Dio è grande). Dal divieto di far volare gli aquiloni sino all’obbligo per le sparute minoranze non islamiche di portare cucito sui vestiti un pezzo di stoffa gialla per poter essere evitati (vi ricorda qualcosa?). Il Presidente degli Stati Uniti ha affermato che al ritiro avrebbe fatto seguito un accordo tra i talebani e le truppe regolari dell’Afghanistan. Mentiva sapendo di mentire. In solo tre giorni i talebani hanno conquistato cinque capoluoghi di provincia, instaurando da subito il terrore. Due sono le considerazioni che sorgono spontanee. La prima, inevitabile, è che il Jihad (nella sua becera versione odierna) è vincente. Le frange terroristiche dell’islamismo sunnita non hanno mai avuto premura, confidando nella storia. Osama bin Laden diceva, rivolgendosi agli occidentali: “Voi avete gli orologi, noi abbiamo il tempo”. I fatti gli danno ragione. La lezione che sta circolando in questi giorni, con grande entusiasmo, nei forum degli estremisti jihadisti è che, sul lungo termine, il terrorismo e la violenza pagano. Vi è una ulteriore considerazione: dopo che avremo assistito – nei prossimi mesi – al riformarsi del cancro talebano in Afghanistan, non ci resterà che attendere le metastasi che – come negli scorsi anni – torneranno a diffondersi in Occidente. Come le vittorie dello Stato Islamico (peraltro nemico giurato dei talebani) entusiasmarono migliaia di esaltati estremisti, poi ridotti ai minimi termini dalla sua successiva sconfitta, così la vittoria dei talebani darà nuova linfa ed entusiasmo ai combattenti – anche in Europa – di Al Qaida. Quando, dopo aver assistito al sudario di orrore che soffocherà donne e uomini afghani, saremo raggiunti da queste metastasi sarà però troppo tardi. Altro non ci rimarrà che ricordare le pavide bugie di Biden.
In previsione della necessità di esibire il cosiddetto “green pass”, alcuni furbetti, evidentemente no-vax. hanno pensato bene di inviare i propri dati personali, copia di carta di identità e codice fiscale e una discreta quantità di denaro ad alcuni sconosciuti gestori di “gruppi” del social “Telegram” che promettevano l’invio di certificati falsificati. Come era facilmente prevedibile, dopo aver ricevuto il denaro gli anonimi gestori sono scomparsi nel nulla, tenendosi i denari incassati e – ovviamente – senza inviare nulla. I “furbetti” hanno a questo punto capito di essere stati truffati e hanno minacciato possibili denunce verso chi li ha beffati, ma ecco che arriva la seconda brutta notizia: i truffatori sono sempre rimasti completamente anonimi, invece i “furbetti” hanno riempito le loro tasche non solo di soldi, ma di dati personali. Per cui i truffaldini gestori hanno richiesto altri soldi per non divulgare in rete i dati personali e i documenti di identità di coloro che hanno chiesto il green pass falsificato. Curioso: questi furbetti trovano insopportabile esibire un documento per accedere ad alcuni eventi ma trovano normale inviare tutti i propri dati a sconosciuti malfattori! Una storia davvero triste. Da un lato truffatori incalliti, che hanno illecitamente trafugato discrete somme di denaro. Dall’altro individui alla ricerca di un certificato falso per poter aggirare la legge a scapito della salute di tutti. Le minacce e la polemica tra questi soggetti mi ricorda un’espressione molto usata in passato dalla stampa: regolamento di conti tra criminali.
2 agosto 1980. Per molti di noi sembra soltanto ieri, perché fu una giornata che non potremo mai scordare. Era il primo sabato d’agosto, che allora coincideva con quello che veniva chiamato il “grande esodo”. Si trattava di un’epoca diversa, in cui le ferie si concentravano in quel mese, con la chiusura delle grandi fabbriche del Nord, trasformando le città in spettrali fotogrammi di case vuote e negozi chiusi. A Bologna, quel giorno, faceva molto caldo. Un caldo quasi insopportabile, perché nella “bassa” l’umidità accentua la sensazione di disagio: la famosa temperatura “percepita”. La stazione ferroviaria felsinea era affollata, con tante famiglie che partivano per le ferie: valige, strepiti di bimbi, risate allegre di chi ha atteso a lungo un periodo di svago. Tutti con l’aria felice di chi aveva consegnato a quei giorni di vacanza tutti i sogni per un anno tenuti chiusi nel cassetto della laboriosa quotidianità. Improvvisamente, alle 10 e 25, il tempo si fermò. Un boato spazzò la spensieratezza e tantissime vite. 23 kg di tritolo, contenuti in una valigia, esplosero nella sala d’aspetto di seconda classe. Le lancette del grande orologio della stazione segnano ancora oggi quell’ora terribile. La deflagrazione causò il crollo dell’ala sinistra dell’edificio. Della sala d’aspetto, del ristorante, degli uffici del primo piano non restò più nulla. Una valanga di macerie si abbatté anche sul treno “Adria Express Ancona-Basilea”, fermo sul primo binario. Pochi istanti per un’apocalisse: uomini, donne e bambini persero la vita, dilaniati o schiacciati. I morti furono 85, i feriti e mutilati oltre 200. La vittima più piccola fu Angela Fresu, di appena 3 anni; e poi Luca Mauri, di 6, Sonia Burri, di 7. Fino ai più anziani: Maria Idria Avati, 80 anni, e ad Antonio Montanari, di 86. La città di Bologna si mobilitò immediatamente: molti cittadini, insieme ai viaggiatori presenti, prestarono i primi soccorsi alle vittime e contribuirono ad estrarre le persone sepolte dalle macerie. Per ore sanitari, vigili del fuoco, forze dell’ordine, Esercito e volontari lavorarono incessantemente alla ricerca di vite da soccorrere e da salvare. Una catena spontanea che in pochissimo tempo rimise in moto la città che stava ‘chiudendo per ferie’. Saltarono le linee telefoniche e i cronisti giunti sul posto, per poter raccontare l’inferno di quei momenti, utilizzarono la cabina dei controllori degli autobus sul piazzale, dove il telefono invece funzionava. Cellulari e internet ancora non esistevano, ma dagli ospedali giunse comunque l’appello a medici e infermieri di tornare in servizio. Un appello accolto da tutti. Un autobus urbano della linea 37 divenne il simbolo di quel terribile giorno, trasformandosi in un improvvisato carro funebre che trasportava le salme all’Istituto di Medicina legale. Alla guida vi era Agide Melloni, allora autista trentunenne. Raccontò alla stampa: ”Mi chiesero di portare via i cadaveri con il bus. Dal mattino alle tre di notte, con i lenzuoli bianchi appesi ai finestrini. Ma in ogni viaggio c’era qualche soccorritore con me, per sostenermi”. La solidarietà fu immensa anche nel resto del Paese. Migliaia di messaggi furono inviati al Sindaco dell’epoca, Renato Zangheri, da ogni parte del mondo. Vi era molta fiducia nel sindaco e altrettanta nel Presidente della Repubblica, Sandro Pertini. Fu proprio Pertini, nel corso dei funerali celebrati nella Basilica di San Petronio, ad affermare in lacrime di fronte ai giornalisti: “non ho parole, siamo di fronte all’impresa più criminale che sia avvenuta in Italia”. Per la strage, dopo anni di depistaggi, sono stati condannati in via definitiva tre esecutori: Valerio Fioravanti, detto Giusva, Francesca Mambro, moglie di Fioravanti, e Luigi Ciavardini, esponenti del gruppo terroristico di estrema destra denominato NAR, Nuclei Armati Rivoluzionari. Oggi tutti in libertà. Fioravanti, autore anche di numerosi altri omicidi e atti terroristici, fu condannato in tutto a 8 ergastoli, 134 anni e 8 mesi di reclusione. Ottenuta la libertà vigilata nel 2004, è un libero cittadino dal 2009. Francesca Mambro, condannata complessivamente a 9 ergastoli, 84 anni e 8 mesi di reclusione, ha ottenuto la libertà vigilata nel 2008 ed è una libera cittadina dal 2013. Molto diversa è invece la situazione per quanto riguarda i mandanti. I loro nomi stanno emergendo soltanto ora, nell’ambito del processo che la Procura Generale ha avocato a sé nel 2017, nell’ambito di un’inchiesta sull’orlo della archiviazione. Si tratta di Licio Gelli, accusato di aver distratto milioni di dollari dal crac Ambrosiano e di averne usato una parte per finanziare la strage. Del suo braccio destro Umberto Ortolani, dell’ex capo dell’ufficio Affari Riservati, Federico Umberto D’Amato e del direttore del settimanale Borghese, Mario Tedeschi. Tutti ormai defunti. A loro si è aggiunto Paolo Bellini, il killer di Alceste Campanile, accusato oggi dalla Procura generale di Bologna di avere avuto un ruolo attivo nell’orrore. Braccio della destra eversiva negli anni 70, latitante tra Brasile ed Europa con il falso nome di Roberto Da Silva negli anni ’80, negoziatore per conto dello Stato con Cosa nostra nei primi anni ’90 e sicario di ‘Ndrangheta qualche anno più tardi, il nome di Bellini attraversa in un modo o nell’altro mezzo secolo di storia e di segreti del nostro Paese. Alla sbarra ci sono anche l’ex ufficiale dell’Arma, Piergiorgio Segatel e Domenico Catracchia, amministratore di condominio di via Gradoli a Roma, covo prima delle Br e poi dei Nar. Ed è curiosa questa contiguità tra terrorismo “nero” e “rosso”. La speranza è che ora – finalmente – anche le caselle dei mandanti si riempiano con nomi e cognomi. Anche se si tratta di una giustizia parziale, con gli esecutori liberi e i mandanti quasi tutti deceduti. Resta tuttavia la consolazione ben rappresentata dalle parole del ministro della Giustizia, Marta Cartabia: “La polvere che rivestiva i corpi martoriati, quella polvere che troppo a lungo ha coperti molteplici responsabilità oggi quella polvere si sta diradando e lascia nuovi contorni e nuovi profili dell’accaduto”. Il 2 agosto 1980 rappresentò il punto peggiore di un periodo di stragi che insanguinarono il Paese, mettendo a repentaglio gli ordinamenti della nostra democrazia, investita da una violenza del tutto nuova per modalità, tensione e durata. Tra due giorni, non a caso, ricorre un altro anniversario, quello della strage dell’Italicus. La notte del 4 agosto 1974 una bomba esplose sul treno proveniente da Roma e diretto a Monaco di Baviera, provocando la morte di 12 persone. In realtà avrebbero dovuto essere molte di più: il convoglio, infatti, viaggiava in ritardo. Se fosse stato puntuale l’esplosione sarebbe avvenuta in una galleria lunga diciotto chilometri, senza possibilità di salvezza per tutti i mille passeggeri. Tuttavia il Paese sconfisse la paura innescata dai terroristi. Si trattava tuttavia di un’Italia diversa da quella attuale, saldamente ancorata ai valori fondanti della convivenza civile nata con la Repubblica. Rappresentata da forze politiche che, indipendentemente dalle naturali e persino opportune differenze strategiche e prospettiche, si richiamavano tutte al nocciolo duro e inviolabile dei valori espressi nella Costituzione Repubblicana. Il tanto vituperato, a torto, “arco costituzionale”. Le schegge occulte dei poteri deviati, mai fino in fondo individuate e perseguite, fallirono nel loro insano tentativo di condurre la nazione nel baratro dell’angoscia a motivo del senso di unità del Paese. Quel valore che, negli anni successivi, è stato scientificamente distrutto da un interessato disegno di alcune forze politiche e dall’insipiente negligenza di altre. Quel due di agosto del 1980, spontaneamente, milioni di persone in tutta Italia, e io tra loro, scesero nelle piazze, senza bandiere di partito, per affermare con forza: “noi non ci arrendiamo!”, non cederemo agli architetti del terrore, agli stregoni dell’angoscia. Fu la manifestazione di un ardore democratico che fece scudo alle istituzioni repubblicane contro il bieco becerume del terrore. Temo che oggi tale reazione sarebbe impensabile. No, non siamo diventati migliori.
Non pensavo di scrivere in merito alle manifestazioni di questi giorni contro il cosiddetto green pass. La mia cultura personale, saldamente formatasi e costantemente irrigata dal pensiero democratico, liberale e progressista, mi ha sempre indotto a rispettare ogni manifestazione di dissenso quale libera estrinsecazione della propria opinione. Tuttavia quanto occorso recentemente si pone oggettivamente all’esterno del lecito dissenso correttamente posto. Vi sono stati, certamente, tentativi di strumentalizzazione. Abbiamo visto simboli e stendardi di Forza Nuova e Casa Pound affiancarsi a bandiere anarchiche e dei centri sociali. Nihil sub sole novum. Queste formazioni di opposta origine si odiano (forse!) ma sempre sono pronte ad affiancarsi nel cavalcare rabbia e malcontento nel tentativo (quasi sempre vano!) di farsene portavoce. Ben più inquietante, invece, è la foga e la violenza verbale – e talora non solo verbale – che ha contraddistinto il manifestare chiassoso di coloro che pure non si sono fatti abbindolare dai patetici pifferai degli opposti estremismi. Si pone un duplice livello di analisi: legale e sostanziale. Che l’introduzione del green pass non sia uno sfregio alla costituzione è stato ampiamente illustrato. Per questo non approfondisco il tema. Invito semmai alla lettura del divertente articolo del prof. Alfonso Celotto “Diventa anche tu un no casc” pubblicato sull’edizione odierna del quotidiano “La Ragione”, un giornale che può essere letto gratuitamente su internet (https://laragione.eu/) o acquistato in edicola al prezzo di 50 centesimi. Ma vi è un aspetto sostanziale, come detto, molto più preoccupante. Pur ammettendo che vi siano rispettabili posizioni di dubbio e financo di dissenso che amerebbero manifestarsi in un sereno ed educato confronto, ciò che lascia attoniti è il vociare violento dei manifestanti: un che di nichilista e rabbioso. Non si odono posizioni costruttive di alternativa, poiché si tende a sommergere le piazze con un compulsivo quanto vuoto urlo di “Libertà! Libertà”. Pare di udire le piazze di pochi anni fa, che riempivano l’aria dell’urlo “Onestà! Onestà”, contribuendo al successo di un partito che, lucrando sulla rabbia anti-partitica e anti-potere, ha fatto proprio della conquista del potere e della permanenza al governo a qualunque costo il proprio tratto distintivo. Esprimendo un Presidente del Consiglio che non si è fatto scrupolo alcuno a guidare dapprima un governo completamente orientato a destra e quindi, con impeccabile trasformismo, un governo a trazione diametralmente opposta. E che avrebbe proseguito a farlo con Lello Ciampolillo e con l’accozzaglia di tutti i fuoriusciti da ogni partito, se il Presidente Mattarella non avesse diversamente guidato le cose. Con buona pace di giornalisti come Travaglio, che fanno del livore il loro tratto caratteristico e che si esprimono spesso con quelli che l’edizione odierna de “Il Foglio” definisce semplici “rutti” meritevoli di sonore “pernacchie”. Ma ancora peggio è assistere all’inaudito sfoggio di simbologie richiamanti pagine orribili della nostra storia recente. L’assimilazione del green pass all’eugenetica nazista verso gli ebrei, in una sorta di shoah nei confronti dei no-vax, ovvero la presunta analogia di tale strumento all’introduzioni delle leggi razziali determinano l’inesistenza anche del livello più infimo del quoziente intellettivo e, soprattutto, della visione etica e morale del mondo. Ci si pone al di fuori da ogni possibilità di civile dialogo. Chissà se i facinorosi manifestanti hanno pensato – per un attimo solo – alle vittime dell’epidemia, alle colonne di camion militari carichi di bare e, soprattutto, al dolore delle famiglie che hanno perso i loro cari senza neppure poterli avere accanto negli ultimi istanti. Perché in fondo se senza misure di cautela rischiassero la vita soltanto gli scalmanati delle piazze si potrebbe anche assecondare il loro pensiero, agevolando una sorta di darwiniana selezione naturale che porterebbe soltanto bene all’umanità. Purtroppo le conseguenze di cedimenti in tema di green pass e di campagna vaccinale sarebbero pagate anche da altri: gli anziani non ancora vaccinati e coloro che non possono farlo per motivi di salute in primis Ma il dramma coinvolgerebbe anche la nostra disastrata economia, passibile di nuove e devastanti chiusure. Voglio citarvi alcune parole senz’altro condivisibili: “Il certificato verde segna un primo passo verso la definitiva eliminazione degli ostacoli alla libera circolazione che tanto hanno danneggiato la nostra economia. E voglio rassicurare sul diritto dei cittadini alla non discriminazione”. Non sono parole di Draghi né di altri esponenti del governo. Sono affermazioni di Giorgia Meloni del 19 marzo 2021. Parole di una leader politica che stimo essere una donna intelligente ma che troppo spesso si lascia trascinare da una “tattica” da bar sport rispetto ad un’autentica “strategia”, non riuscendo a dar vita a una destra moderna ed europea e restando quindi invischiata in un’area di vaga opposizione casinista e al limite del cialtronaro. Applichiamo quindi le disposizioni sul green pass, in attesa di estenderle in misura massiccia anche al mondo del lavoro. Sono l’unica strada verso la libertà, quella vera: la libertà dall’isolamento, dalla malattia, dalla crisi economica e dalla morte. E se qualcuno dovrà rinunciare a una pizza o a un Margarita perché non vaccinato non credo sia un grave problema. La libertà è altro. E pensare che avremmo dovuto uscirne migliori!
19 luglio 1992: una data indimenticabile per il nostro Paese.
Quel giorno, a Palermo, in via d’Amelio, l’esplosione di una Fiat 126 imbottita con oltre cento chilogrammi di tritolo uccise il giudice Paolo Borsellino e gli agenti di scorta: Agostino Catalano, 43 anni, Emanuela Loi, la prima donna poliziotto entrata a far parte di una squadra di agenti addetta alla protezione di obiettivi a rischio, Vincenzo Li Muli, 22 anni, Walter Eddie Cusina, 30 anni e Claudio Traina, 26 anni.
Una pagina tra le più tragiche nella storia del nostro Paese.
Quel giorno Borsellino e la moglie Agnese avevano trascorso alcune ore al mare, nella villetta di Villagrazia. Con loro anche un amico, Pippo Tricoli, docente dell’Università di Palermo. Quest’ultimo rivelò in seguito che Borsellino gli confidò di essere preoccupato per la sua vita. Alle 16,30, con la sua immancabile borsa di pelle, contenente anche la celeberrima agenda rossa, il magistrato salutò la moglie e il figlio Manfredi per andare a trovare la madre.
Alle 16 e 58 minuti, mentre Borsellino aveva appena suonato al citofono della mamma in via d’Amelio, l’autobomba esplose.
Da oltre venti giorni il magistrato, quasi avesse un presentimento, aveva sollecitato la questura affinché provvedesse alla rimozione delle auto in sosta dalla zona antistante l’abitazione della madre. La sua richiesta non fu presa in considerazione e così fu proprio una vettura posteggiata a provocare la strage.
Nei giorni che precedettero la strage Borsellino aveva osservato: ”tanta gente viene a farmi le condoglianze per la morte di Falcone, di sua moglie e degli agenti della scorta, ma io quasi ricavo la sensazione che questi miei interlocutori vedano in me la prossima vittima”.
Cinquantasette giorni prima infatti, a Capaci, era stato assassinato il suo collega ed amico Giovanni Falcone, insieme alla moglie Francesca Morvillo e a tre agenti della scorta.
Quel 19 luglio rappresentò un vulnus terribile alla credibilità dello Stato. Le generazioni che si affacciavano allora alla vita, ma non solo loro, videro annichilita quella fiducia nelle istituzioni che la scuola, la televisione e per i più fortunati la famiglia avevano provato a inculcare.
Noi oggi consideriamo “eroi” i giudici Falcone e Borsellino, ma non possiamo scordare che tali divennero soltanto dopo la loro morte. In vita erano stati vittime di veleni, sospetti e maldicenze tali da alimentare l’intreccio che portò alla loro fine. Vennero accusati di protagonismo, vanità, scarso senso dello stato. Anche da persone insospettabili, quali Leonardo Sciascia e Leoluca Orlando. Borsellino, non a caso, affermò che Falcone iniziò a morire dopo l’articolo di Sciascia sui “professionisti dell’antimafia”.
Nel dicembre 1987, alla chiusura del maxi-processo contro Cosa Nostra che portò a 360 condanne, il clima intorno ai magistrati divenne pesante. Il nuovo ministro della Giustizia Giuliano Vassalli, il 19 gennaio 1988, nominò Antonino Meli capo dell’Ufficio istruzione di Palermo, ignorando la candidatura di Falcone.
Meli cominciò subito ad assegnare a magistrati esterni al pool le inchieste di mafia, e sul tavolo di Falcone e dei suoi colleghi piovvero invece indagini per borseggi, scippi, assegni a vuoto. Borsellino provò a reagire. Dichiarò in un’intervista: “ci hanno tolto la titolarità delle grandi inchieste antimafia. Le indagini di polizia giudiziaria sono bloccate. La squadra mobile di Palermo non è stata ricostituita. Ho l’impressione di grandi manovre per smantellare il pool antimafia”.
Fu così che si giunse alle stragi di Capaci e di via Amelio del 1992.
In quel mese di luglio tutti a Palermo (e non solo!) sapevano che Paolo Borsellino sarebbe stato ucciso. Scrisse Francesco La Licata: “lo sapevamo noi giornalisti che frequentavamo il ‘Palazzaccio’, lo sapevano i palermitani che ne parlavano liberamente nei bar. Lo sapeva anche Paolo Borsellino che ne parlò apertamente, ossessionato dal timore di non riuscire a fare in tempo. Infatti Borsellino aveva fatto intendere di ‘aver compreso’. Certo non aveva in tasca nomi e cognomi delle menti criminali coinvolte, ma forse aveva intuito il senso di tutta l’operazione stragista, ordita da qualcuno un po’ più raffinato di Totò Riina, ma affidata ai macellai di Cosa nostra”.
La sua, come hanno raccontato alcuni pentiti, era una morte programmata da tempo, ma anticipata con una “premura incredibile”. I pubblici ministeri che indagarono sulla sua morte scrissero che la tempistica della strage fu certamente influenzata dall’esistenza e dall’evoluzione della cosiddetta trattativa tra uomini delle istituzioni e Cosa Nostra.
Borsellino sapeva di andare incontro alla morte.
Il 13 luglio, sconsolato, dichiarò: “So che è arrivato il tritolo per me”. Il 17, due giorni prima della strage, fra lo stupore di tutti salutò singolarmente i colleghi, abbracciandoli.
La decisione di uccidere Borsellino, come detto, fu “accelerata” da personaggi esterni alla mafia. Del resto, come affermato dal Procuratore di Palermo Francesco Lo Voi, “la mafia uccide raramente solo per vendetta”. Borsellino, che lo aveva capito, disse a sua moglie espressamente: “Sarà la mafia a uccidermi, ma quando altri lo decideranno”. Lo stesso Riina, intercettato durante un’ora d’aria mentre era detenuto, raccontò a un altro detenuto mafioso che l’omicidio del magistrato “fu una cosa decisa alla giornata, perché venne quello da me e mi disse subito, subito”. Chi era “quello”? Uno dei tanti misteri della storia italiana, uno dei più inquietanti.
Roberto Tartaglia, già pubblico ministero nel pool di Palermo e oggi consulente della Commissione Antimafia, ha affermato che l’accelerazione della strage di Via D’Amelio è cosa certa: i magistrati si convinsero che il giudice Paolo Borsellino potesse rappresentare un ostacolo alla prosecuzione della trattativa Stato-mafia.
Oggi alcune cose sono cambiate e la mafia ha scelto una nuova strategia. La nuova strategia, caratterizzata dalla rinuncia a clamorosi atti di sangue, lungi dal comportare la scomparsa della mafia, ne ha permesso l’ascesa economica e territoriale anche al di fuori dell’isola originaria. Agli omicidi eccellenti e alle bombe si sono sostituiti incentivi di natura finanziaria: la corruzione di pubblici ufficiali e professionisti, accompagnata da minacce in caso di resistenza. Con l’obiettivo di infiltrare l’economia legale del nostro paese, partecipando a gare d’appalto e a bandi europei. L’epidemia di coronavirus offre ai capitali mafiosi ulteriori possibilità di riciclo ed emersione, a causa dei problemi finanziari abbattutisi su negozi e imprese dal 2020.
Quel 19 luglio 1992, dopo l’esplosione che fu udita in tutta Palermo, Antonino Caponnetto disse mesto: “E’ tutto finito!”.
Ma così non era. Così non deve essere! La battaglia quotidiana contro la sottocultura mafiosa, anche quella attuale, basata sull’infiltrazione, deve rimanere il primo obiettivo della scuola, delle famiglie, delle istituzioni. Dobbiamo far nostre le parole dello stesso Borsellino: “la lotta alla mafia non deve essere soltanto un’opera di repressione, ma un movimento culturale e morale, che coinvolga tutti, specialmente le giovani generazioni, le più adatte a sentire subito la bellezza del fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e, quindi, della complicità”.
Lo stesso Antonino Caponnetto, negli ultimi anni della sua vita, girò l’Italia per raccontare nelle scuole la storia dei due eroi, affermando che “le battaglie in cui si crede non sono mai battaglie perse”.
Così è. Per questo ancora oggi Borsellino è vivo tra noi e continua ad essere un esempio.
L’11 luglio 1979 veniva assassinato a Milano l’avvocato Giorgio Ambrosoli, una figura – purtroppo – ormai scordata dai più. Era una tipica giornata estiva milanese, calda ma soprattutto afosa, in una città in attesa della pausa di agosto. Quella sera Ambrosoli, dopo aver trascorso qualche ora in compagnia di alcuni amici, li aveva accompagnati a casa. Al suo ritorno, appena sceso dall’auto, fu affiancato da una Fiat 127 rossa. Una voce domandò: “Avvocato Ambrosoli?“. Avutone conferma un uomo gli disse: “Mi scusi avvocato“. E sparò quattro colpi di pistola. Giorgio morì poco dopo, sull’ambulanza. L’assassino era da William Joseph Aricò, un killer conosciuto a New York come “Bill lo sterminatore”, ingaggiato dal finanziere Michele Sindona. Il quale, per questo, fu condannato all’ergastolo. Ambrosoli era nato il 17 ottobre del 1933 a Milano da una famiglia di estrazione borghese e profondamente cattolica; il padre, pur essendo avvocato, lavorava in banca e l’educazione che offrì ai figli era fondata su profondi principi e su saldi valori. Durante il periodo degli studi Ambrosoli aderì a un pensiero profondamente liberale. Laureatosi in legge all’Università Statale di Milano, non accolse il desiderio del padre, che sognava per lui un futuro in banca, e decise di dedicarsi anima e corpo all’avvocatura, specializzandosi in diritto fallimentare. Sposò Anna Lorenza Gorla, per tutti Annalori, conosciuta ai tempi dell’università, dalla quale ebbe tre figli di cui andò sempre fiero. il 24 settembre 1974 venne chiamato dall’allora governatore della Banca d’Italia, Guido Carli, per fare luce sui castelli di carte e di inganni messi in piedi da Michele Sindona nell’ambito della Banca Privata Italiana, in stato di grave dissesto. Apparve fin da subito chiaro ad Ambrosoli quanto il finanziere siciliano si fosse mosso certo dell’impunità e, proseguendo nelle sue analisi, si convinse sempre di più dell’ampia libertà di manovra concessa a Sindona proprio dal sistema. Grazie alle carte che riuscì a collazionare e alle irregolarità e falsità che scoprì di giorno in giorno, Ambrosoli comprese i legami che Sindona aveva con la politica e con la massoneria deviata di Licio Gelli e della sua loggia P2. Complicità che coinvolgevano anche la mafia siciliana e alcuni settori della magistratura. Fu in quei giorni che pronunciò una frase dal sapore profetico: «Sono solo». Un solo commissario liquidatore per un fallimento da centinaia di miliardi. Non era raro a quei tempi, ma neppure comune. E soprattutto era anomalo in quel caso, considerando le forze in gioco. Per i cinque anni successivi Ambrosoli, che all’epoca aveva 41 anni, fronteggiò Michele Sindona, personaggio potente e spericolato, con alle spalle una parte preponderante del potere. Nelle indagini Ambrosoli non fece sconti a nessuno, non si lasciò mai intimidire e completò il suo lavoro nonostante gli avvertimenti e le minacce. Scoprì tutte le carte e i più sordidi intrecci. Fin dai primi tempi tentarono di blandirlo, di convincerlo ad assumere un atteggiamento più morbido. La strategia adottata per fermare Ambrosoli fu un autentico “crescendo rossiniano”. Dagli ammiccamenti si passò in breve ai messaggi intimidatori, alle visite in studio di strani personaggi, poi alle minacce a lui e ai suoi collaboratori. Lo stesso capitò al maresciallo della Guardia di Finanza Silvio Novembre, suo unico collaboratore che gli fece volontariamente anche da guardia del corpo. Una sera, uscendo dal Tribunale, il maresciallo fu avvicinato da un ex collega che gli propone di lasciare l’indagine, congedarsi dalla Guardia di finanza e accettare un lavoro meglio pagato, perché “hai due bambine da crescere” e “tua moglie malata sarebbe curata meglio negli Stati Uniti”: ma Silvio Novembre, così come Ambrosoli, era un uomo di saldi principi. La politica lasciò solo Ambrosoli, con l’unica eccezione del ministro repubblicano Ugo La Malfa. Non fu certo un caso che un uomo solitamente così prudente e misurato come Giulio Andreotti, dopo l’omicidio di Ambrosoli, ebbe la perfidia di dire: “Era uno che se l’andava a cercare”. Non era un rivoluzionario, Giorgio Ambrosoli, e nemmeno un oppositore dei governi di allora. Ve l’ho detto: era un conservatore, profondamente cattolico, che aveva militato nella Gioventù liberale. Ma era prima di tutto un uomo delle Istituzioni, e per lui le Istituzioni erano da servire con il senso dello Stato, con il prevalere del bene generale sui conflitti di interesse, con il rispetto delle leggi, dell’etica pubblica e privata. Quando consegnò alla Banca d’Italia il primo frutto del suo lavoro accluse un biglietto per il governatore: “Con i migliori sentimenti di devozione per avermi dato modo di servire in qualche modo il Paese”. Corrado Stajano definì Giorgio Ambrosoli, in un bellissimo libro-inchiesta, un “Eroe borghese”. Borghese perché non indossava divise e non aveva bandiere. Anzi, ne onorava una soltanto: il tricolore a cui era devoto. Il 25 febbraio del 1975, dopo aver completato la ricostruzione dello stato passivo della Banca privata, Giorgio Ambrosoli scrisse alla moglie: “A quarant’anni, di colpo, ho fatto politica e in nome dello Stato e non per un partito… e ho sempre operato – ne ho la piena coscienza – solo nell’interesse del Paese […] Qualunque cosa succeda, comunque, tu sai che cosa devi fare e sono certo saprai fare benissimo. Dovrai tu allevare i ragazzi e crescerli nel rispetto di quei valori nei quali noi abbiamo creduto […] Abbiano coscienza dei loro doveri verso se stessi, verso la famiglia nel senso trascendente che io ho, verso il Paese, si chiami Italia o si chiami Europa. Riuscirai benissimo, ne sono certo, perché sei molto brava e perché i ragazzi sono uno meglio dell’altro.. Sarà per te una vita dura, ma sei una ragazza talmente brava che te la caverai sempre e farai come sempre il tuo dovere costi quello che costi […] Giorgio”. Giorgio Ambrosoli venne lasciato solo anche il giorno del suo funerale. Nessuna autorità, nessun rappresentante di quello Stato per il quale l’avvocato milanese si era speso con coraggio, fino all’estremo sacrificio. La signora Annalori teneva per mano i suoi figli: una lezione di dignità e compostezza nel dolore. Unico presente il governatore della Banca d’Italia, Paolo Baffi, seduto nelle ultime file, come se si vergognasse dell’assenza di tutti gli altri rappresentanti delle istituzioni. Fu l’ennesima dimostrazione dell’isolamento di una persona per bene, alla quale lo Stato aveva richiesto un compito immane e pericoloso. Una solitudine che proseguiva anche dopo la morte. Ha detto Ferruccio De Bortoli: “Ambrosoli ebbe la sfortuna di coltivare, con perseveranza ambrosiana e calvinista, un minoritario senso delle regole in un Paese allora palude di manovre, di vendette e di ricatti”. Giorgio Ambrosoli: una persona, onesta, ferma. Un uomo che deve essere un modello e un esempio per il suo senso delle istituzioni, dello Stato, del bene comune. Oggi più che mai! Il nostro Paese comincerà a cambiare quando saremo in tanti a ricordare Ambrosoli, imitandone il rispetto per l’onestà e le istituzioni repubblicane. Quando troveremo normale il sacrificio personale, anche estremo, per la difesa di tali valori civici. Quando di tanti di noi si potrà dire: sono quelli “che se la vanno a cercare”.
Il 23 maggio 1992 ha premuto il pulsante che ha fatto esplodere l’autostrada che collega l’aeroporto di Punta Raisi con Palermo, uccidendo Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Ha strangolato con le sue mani e poi sciolto nell’acido il tredicenne Giuseppe Di Matteo, che aveva visto crescere e con il quale aveva “giocato alla playstation”. Lui stesso non ha saputo quantificare ai magistrati il numero preciso delle sue vittime: “Molte più di 100, ma meno di 200: forse 150”. Si tratta di Giovanni Brusca, boss della mafia corleonese, soprannominato “U verru” (il maiale) o anche “scannacristiani”. Brusca, dopo poco meno di 25 anni di detenzione, è tornato ieri in libertà per fine pena e posto sotto protezione da parte della polizia di stato. Va detto: il rilascio è avvenuto nel rispetto delle norme vigenti. In forza della normativa sui pentiti considerati attendibili, peraltro fortemente voluta, per ironia della sorte, dallo stesso Giovanni Falcone ma approvata solo dopo la sua morte, Brusca è stato condannato a 30 anni. Con la liberazione anticipata che si applica a tutti i detenuti — 45 giorni di sconto ogni sei mesi passati in cella, unico beneficio concesso anche ai mafiosi — sono diventati venticinque. Con un ulteriore premio per buona condotta e per il comportamento corretto tenuto negli oltre 80 permessi premio ottenuti in questi anni, ieri per Brusca si sono aperte definitivamente le porte del penitenziario. E’ vero: la legge è stata rispettata. Tuttavia vi è qualcosa che turba profondamente tutti noi. Nonostante il pentimento giudicato credibile di Brusca, infatti, la stessa strage di Capaci, come abbiamo visto pochi giorni fa, resta densa di misteri e di fatti mai chiariti. Da un punto di vista sostanziale, inoltre, non posso che essere turbato dal fatto che l’autore della strage di Capaci e di un numero tale di omicidi e infanticidi da non riuscire a ricordarne il numero (“Molti più di 100, ma meno di 200: forse 150”) possa essere oggi libero e sotto protezione. Diceva Terenzio: “ius summum saepe summa est malitia”, ossia somma giustizia è spesso somma malizia. E Cicerone, con una frase ancora più celebre, affermava “summum ius, summa iniuria”, con ciò intendendo che l’applicazione rigida di una norma può diventare un’ingiustizia. Oggi è successo questo.
Testo tratto dal libro di Saverio Lodato “Ho ucciso Giovanni Falcone” – Mondadori
23 maggio 1992. Un sabato. Alle 17 e 56, sull’autostrada che collega l’aeroporto di Punta Raisi con Palermo, un’esplosione aprì un grande cratere: sotto all’asfalto era stata piazzata mezza tonnellata di esplosivo, fatta saltare dal sicario della mafia Giovanni Brusca, acquattato sulla collina sovrastante. Nello scoppio morirono il magistrato Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Fu l’”Attentatuni”, il più importante della storia di Cosa Nostra. I primi testimoni descrissero una scena di guerra, con ulivi centenari sradicati da terra e un intero pezzo di autostrada sostituito da una voragine. Pochi mesi prima, il 30 gennaio 1992, si era concluso il maxiprocesso di Palermo, con numerosi ergastoli comminati a diversi boss mafiosi. Giovanni Falcone sapeva di essere nel mirino: l’assassinio di Giuseppe Montana e Ninni Cassarà, due tra i suoi più stretti collaboratori, era stato un messaggio inequivocabile. Ancora oggi molti misteri aleggiano su quella strage che segnò profondamente la storia del Paese. Poniamoci qualche domanda. Perché Falcone non è stato ucciso a Roma, dove spesso camminava senza neppure la scorta? Riina aveva inviato a Roma, non a caso, un commando omicida composto dai più qualificati killer mafiosi, salvo poi richiamare gli uomini a Palermo a seguito di un nuovo progetto. Perché? Secondo il pentito Spatuzza, Riina pronunciò queste parole: “Cambia tutto. Non c’è più solo la mafia”. Chi altro partecipò al progetto? Perché le motivazioni della strage di Capaci – come di quelle che seguirono –erano note solo ai massimi vertici di Cosa Nostra e neppure ai più fidati luogotenenti? Perché l’esplosivo utilizzato, oltre a quello consueto da cava, conteneva tracce di “Semtex” prodotto nella Repubblica Ceca e utilizzato solo in ambito militare? Perché una tecnica di realizzazione così spettacolare ma di difficile esecuzione? Non si è trattato di un’esplosione che ha coinvolto obiettivi fermi, ma auto lanciate ad oltre 170 chilometri orari, con precisione perfetta. Un’operazione alla portata di esperti appartenenti a squadre speciali militari perfettamente addestrate, non di picciotti della mafia! Colui che avrebbe dovuto premere il telecomando, tale Pietro Rampulla, non partecipò all’attentato adducendo improvvisi motivi familiari. Vi sembra logico che l’esecutore principale possa mancare al più spettacolare attentato mafioso di tutti i tempi prendendosi… un giorno di ferie? Nei pressi del cratere furono trovati guanti in lattice. Allora non era possibile, ma oggi si sono potute determinare sugli stessi le tracce genetiche, che appartengono a una donna. Una donna sul luogo della strage? Impossibile nello stile di Cosa Nostra. Chi era? Perché era sul posto? E ancora: chi c’era a bordo dell’aereo misterioso che sorvolava il tratto Palermo-Punta Raisi nel giorno della strage? Testimoni lo raccontano in più fasi processuali. Perché uomini in mimetica si trovavano sul tetto della Mobiluxor, il mobilificio a ridosso dell’autostrada A29? C’è anche questo nei racconti, resi in più fasi processuali, di alcuni testimoni. Tanti misteri, quindi. Per i quali esigere risposte adeguate. Basta con l’Italia dei misteri, è necessario pretendere la trasparenza della verità. La stagione degli attentati è terminata nel 1993, con le bombe a Firenze, Milano e Roma. A essa ha fatto seguito una fase di “inabissamento” voluta da Bernardo Provenzano – al vertice dell’organizzazione criminale siciliana fino al suo arresto nel 2006 – e tuttora in corso. La nuova strategia, caratterizzata dalla rinuncia a clamorosi atti di sangue, lungi dal comportare la scomparsa della mafia, ne ha permesso l’ascesa economica e territoriale anche al di fuori dell’isola originaria. Agli omicidi eccellenti e alle bombe si sono sostituiti incentivi di natura finanziaria: la corruzione di pubblici ufficiali e professionisti, accompagnata da minacce in caso di resistenza. Con l’obiettivo di infiltrare l’economia legale del nostro paese, partecipando a gare d’appalto e a bandi europei. La mafia è oggi meno potente della ‘ndrangheta, ma conserva un ruolo cruciale nell’economia criminale del nostro paese anche in virtù dei suoi legami internazionali. Il pericolo delle sue infiltrazioni, in termini di riciclaggio e di acquisizione di realtà economiche, è oggi ancora maggiore a causa della crisi innescata dall’epidemia. L’Europa (ma in questo gli Stati Uniti non hanno dato una risposta migliore) non ha un piano per fermare il flusso di riciclaggio e usura che la pandemia ha generato. Le mafie approfittano della crisi per movimentare il proprio denaro più velocemente. Perché i controlli si sono abbassati: l’antiriciclaggio – inconfessata verità – può reggere quando ci si trova in una situazione economica positiva e sana ma quando manca liquidità, quando i consumi entrano in una spirale di crisi, il denaro torna ad essere utile a tutti senza sondarne l’origine. Quando manca il pane nessuno chiede da quale forno provenga: antica regola che le mafie conoscono benissimo. Da anni le organizzazioni criminali sono ben inserite in tutto il tessuto economico europeo e non si stanno lasciando sfuggire l’occasione che la Covid Economy ha creato. Quell’economia, generata dalla pandemia, che porta enorme fortuna per pochissimi e il disastro per tutti gli altri. Per la realtà fatta di negozi, piccole imprese, alberghi, ristoranti, trasportatori, ludoteche, bar. L’Europa intera si deve porre l’obiettivo di difendere la sua economia reale. Il giro d’affari delle organizzazioni criminali è immenso. Solo quelle italiane (di cui ci sono dati scientifici perché le più studiate) guadagnano cifre immense: la ‘ndrangheta circa 60 miliardi di euro all’anno; la Camorra tra i 20 e i 35 miliardi. Questo significa che la massa di denaro di cui dispongono è così grande che di certo non devono aspettare alcun recovery fund. Per questo gli aiuti europei vanno monitorati, non dati a pioggia. Ha giustamente affermato Mario Draghi che i fenomeni corruttivi rappresentano un grave pericolo di ingerenza criminale da parte delle mafie e un fattore disincentivante sul piano economico per gli effetti depressivi sulla competitività e la libera concorrenza. Ci occorre una classe politica che, per una volta, si mostri all’altezza del momento che stiamo vivendo. Vi è la necessità che i partiti tutti sappiano innanzitutto fare pulizia al loro interno, anche per non accentuare il distacco tra politica e paese reale. Pensate che, secondo un sondaggio curato da Demos nel novembre 2020, per l’83 per cento dei cittadini sono proprio i politici nazionali ad aver favorito l’espansione delle mafie in Italia, mentre per l’81 per cento i colpevoli sarebbero anche i partiti e i politici locali. Una autentica mina per la democrazia rappresentativa. Respingere le mafie, dare risposte concrete e rapide ai cittadini. Ripristinare la fiducia nella politica. Questo, oggi, è il miglior modo per ricordare Giovanni Falcone.