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Paolo Borsellino: trant’anni con noi.

Vi sono date scolpite in modo indelebile nella storia del nostro Paese.
Una di questa è il 19 luglio 1992, esattamente trent’anni fa.
Quel giorno, a Palermo, in via d’Amelio, l’esplosione di una Fiat 126 imbottita con oltre cento chilogrammi di tritolo uccise il giudice Paolo Borsellino e gli agenti di scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cusina, e Claudio Traina.
Era domenica e Borsellino aveva trascorso alcune ore al mare con la moglie Agnese, nella villetta di Villagrazia. Alle 16,30, con la sua immancabile borsa di pelle contenente anche la celeberrima agenda rossa mai più ritrovata, il magistrato salutò la Agnese e il figlio Manfredi per andare a trovare la madre.
Alle 16 e 58 minuti, mentre Borsellino aveva appena suonato al citofono della mamma in via d’Amelio, l’autobomba esplose.
Da oltre venti giorni il magistrato, quasi avesse un presentimento, aveva sollecitato la questura affinché provvedesse alla rimozione delle auto in sosta dalla zona antistante l’abitazione della madre. La sua richiesta non fu presa in considerazione e fu proprio una vettura posteggiata a provocare la strage.
Nei giorni che precedettero la strage Borsellino aveva osservato come tanta gente andasse da lui a porgere le condoglianze per la morte di Giovanni Falcone, ucciso cinquantasette giorni prima, ricavandone tuttavia la sensazione che vedessero in lui la prossima vittima.
Quel 19 luglio rappresentò un vulnus terribile alla credibilità dello Stato. Le generazioni che si affacciavano allora alla vita, ma non solo loro, videro annichilita quella fiducia nelle istituzioni che la scuola, la televisione e, per i più fortunati, la famiglia avevano provato a inculcare.
Noi oggi consideriamo “eroi” i giudici Falcone e Borsellino, ma non possiamo scordare che tali divennero soltanto dopo la loro morte. In vita erano stati vittime di veleni, sospetti e maldicenze tali da alimentare l’intreccio che portò alla loro fine. Vennero accusati di protagonismo, vanità, scarso senso dello stato. Anche da persone insospettabili, quali Leonardo Sciascia e Leoluca Orlando. Borsellino, non a caso, affermò che Falcone iniziò a morire dopo l’articolo di Sciascia sui “professionisti dell’antimafia”.
Nel dicembre 1987, alla chiusura del maxi-processo contro Cosa Nostra che portò a 360 condanne, il clima intorno ai magistrati divenne pesante. Il nuovo ministro della Giustizia Giuliano Vassalli, il 19 gennaio 1988, nominò Antonino Meli capo dell’Ufficio istruzione di Palermo, ignorando la candidatura di Falcone.
Meli cominciò subito ad assegnare a magistrati esterni al pool le inchieste di mafia, e sul tavolo di Falcone e dei suoi colleghi piovvero invece indagini per borseggi, scippi, assegni a vuoto. Borsellino parlò allora di grandi manovre per smantellare il pool antimafia.
Fu così che si giunse alle stragi di Capaci e di via Amelio del 1992.
In quel mese di luglio tutti a Palermo sapevano che Paolo Borsellino sarebbe stato ucciso. Lo sapevamo i giornalisti che frequentavano il ‘Palazzaccio’, lo sapevano i palermitani che ne chiacchieravano liberamente nei bar. Lo sapeva anche Paolo Borsellino che ne parlò apertamente. Il magistrato aveva fatto intendere di “aver compreso”. Certo non aveva in tasca nomi e cognomi delle menti criminali coinvolte, ma aveva intuito il senso di tutta l’operazione stragista, ordita da qualcuno un po’ più raffinato e intelligente di Totò Riina e solamente appaltata ai macellai di Cosa nostra.
La sua, come hanno raccontato alcuni pentiti, era una morte programmata da tempo, ma anticipata con una incredibile premura. I pubblici ministeri che indagarono sulla sua morte scrissero che la tempistica della strage fu certamente influenzata dall’esistenza e dall’evoluzione della cosiddetta trattativa tra uomini delle istituzioni e Cosa Nostra.
Borsellino era perfettamente consapevole di andare incontro alla morte.
Il 13 luglio, sconsolato, affermò di aver appreso dell’arrivo del tritolo a lui destinato. Il 17, due giorni prima della morte, salutò singolarmente i colleghi, abbracciandoli. Quindi chiamò l’amico don Cesare Rattoballi e chiese di confessarsi, convinto che il suo momento stesse arrivando.
La decisione di uccidere Borsellino, come detto, fu “accelerata” da personaggi esterni alla mafia. Del resto, come affermato dal Procuratore di Palermo Francesco Lo Voi, la mafia uccide raramente solo per vendetta. Borsellino, che lo aveva capito, disse a sua moglie che sarebbe stata la mafia a ucciderlo, ma quando altri lo avessero deciso. Lo stesso Riina, intercettato durante un’ora d’aria mentre era detenuto, raccontò a un altro detenuto mafioso che l’omicidio del magistrato fu una cosa decisa alla giornata, perché arrivò “quello” e disse di farlo subito. Chi era “quello”? Uno dei tanti misteri della storia italiana, uno dei più inquietanti.
Roberto Tartaglia, già pubblico ministero nel pool di Palermo, si disse convinto che Paolo Borsellino potesse rappresentare un ostacolo alla prosecuzione della trattativa Stato-mafia.
Oggi alcune cose sono cambiate e le mafie hanno scelto una nuova strategia che ha permesso l’ascesa economica e territoriale. Agli omicidi eccellenti e alle bombe si sono sostituiti incentivi di natura finanziaria, quali la corruzione di pubblici ufficiali e professionisti. La pandemia ha offerto ai capitali delle mafie ulteriori possibilità di riciclo ed emersione, a causa dei problemi finanziari abbattutisi su negozi, imprese e semplici cittadini. Oggi un’altra sponda offerta alle organizzazioni mafiose è rappresentata dai bonus edilizi. Il clan camorristico dei Casalesi parrebbe essere stato il primo ad aver fiutato l’affare, avendo storicamente disponibilità di centinaia di ditte edilizie compiacenti o addirittura allo stesso riconducibili. Solamente l’istituto di Poste Italiane, una delle principali piattaforme per trasformare i crediti in soldi, avrebbe inconsapevolmente monetizzato per il clan diverse centinaia di milioni di euro. Le cifre precise sono in corso di verifica da parte dell’Agenzia delle Entrate. Ma questa è solo la punta dell’iceberg. Secondo i dati della Unità di informazione finanziaria (Uif) della Banca d’Italia, infatti, il 21,4% delle 459 segnalazioni per operazioni sospette legate alla cessione crediti d’imposta nel 2021, ha connessioni a contesti “potenzialmente riconducibili alla criminalità organizzata”. Parliamo di una cifra che si attesta sui 5,6 miliardi di Euro.
L’omicidio di Paolo Borsellino, dopo trent’anni, resta senza colpevoli.
Si sono susseguiti in numero di processi di cui è difficile persino tenere il conto.
Borsellino 1, bis, ter, quater, un giudizio di revisione per rimediare a sette ergastoli inflitti ingiustamente, poi l’atto d’accusa contro quello che è stato definito “il depistaggio più grave della storia repubblicana” e infine il giudizio, ancora in corso in secondo grado, a carico dell’ultimo superlatitante di Cosa nostra: il boss Matteo Messina Denaro.
Senza contare gli appelli e le pronunce della Cassazione. Decine di sentenze che hanno chiarito certamente il ruolo della mafia nell’attentato al giudice Paolo Borsellino e agli agenti della scorta, ma che lasciano ancora senza risposta tanti interrogativi: dalle responsabilità esterne a Cosa nostra, alla sorte dell’agenda rossa, il diario sul quale il giudice scriveva i suoi segreti, sparita nel nulla. Fino ai nomi degli autori del depistaggio delle indagini sull’eccidio. Anni di giudizi senza una verità: un paradosso tutto italiano.
Ma non dobbiamo arrenderci.
La battaglia quotidiana contro la sottocultura mafiosa, anche quella attuale, basata sull’infiltrazione, deve rimanere un impegno quotidiano nella scuola, nelle famiglie, nelle istituzioni. Dobbiamo credere, così come credeva lo stesso Borsellino, che la lotta alla mafia deve essere un movimento culturale e morale, in grado di coinvolgere tutti, specialmente le giovani generazioni, le più pronte a rifiutare il puzzo del compromesso morale e dell’indifferenza.
Le battaglie in cui si crede non sono mai battaglie perse.
Così è, e per questo ancora oggi Paolo Borsellino è vivo tra noi.

Foto di Radio Monte Carlo
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Un eroe del nostro tempo

L’11 luglio 1979 veniva assassinato a Milano l’avvocato Giorgio Ambrosoli.

Ormai quasi tutti hanno scordato quell’evento e, soprattutto, la figura di Giorgio Ambrosoli. Un uomo che, al contrario, oggi più che mai rappresenta un esempio per il suo spirito civico e senso del dovere

In quella sera d’estate di quarantatre anni fa, calda ma soprattutto afosa, Ambrosoli, dopo aver trascorso qualche ora in compagnia di alcuni amici, li aveva accompagnati a casa. Al suo ritorno, appena sceso dall’auto, fu affiancato da una Fiat 127 rossa. Una voce domandò: “Avvocato Ambrosoli?“. Avutone conferma un uomo gli disse: “Mi scusi avvocato“. E sparò quattro colpi di pistola. Giorgio morì poco dopo, sull’ambulanza. L’assassino era William Joseph Aricò, un killer conosciuto a New York come “Bill lo sterminatore”, ingaggiato dal finanziere Michele Sindona. Il quale, per questo, fu condannato all’ergastolo e, due giorni dopo la sentenza, venne trovato morto in cella per avvelenamento da cianuro di potassio.

Ambrosoli era nato nel 1933 a Milano da una famiglia di estrazione borghese e profondamente cattolica; il padre, pur essendo avvocato, lavorava in banca e l’educazione che offrì ai figli era fondata su profondi principi e su saldi valori. Durante il periodo degli studi Ambrosoli aderì a un pensiero profondamente liberale.

Laureatosi in legge non accolse il desiderio del padre, che sognava per lui un futuro in banca, e decise di dedicarsi anima e corpo all’avvocatura, specializzandosi in diritto fallimentare. Sposò Anna Lorenza Gorla, per tutti Annalori, conosciuta ai tempi dell’università, dalla quale ebbe tre figli di cui andò sempre fiero.

il 24 settembre 1974 venne chiamato dall’allora governatore della Banca d’Italia, Guido Carli, per fare luce sui castelli di carte e di inganni messi in piedi da Michele Sindona nell’ambito della Banca Privata Italiana, in stato di grave dissesto. Apparve fin da subito chiaro ad Ambrosoli quanto il finanziere siciliano si fosse mosso certo dell’impunità e, proseguendo nelle sue analisi, si convinse sempre di più dell’ampia libertà di manovra concessa a Sindona proprio dal sistema. Grazie alle carte che riuscì a collazionare e alle irregolarità e falsità che scoprì di giorno in giorno, Ambrosoli comprese i legami che Sindona aveva con la politica e con la massoneria deviata di Licio Gelli e della sua loggia P2. Complicità che coinvolgevano anche la mafia siciliana e alcuni settori della magistratura.

Fu in quei giorni che pronunciò una frase dal sapore profetico: «Sono solo». Un solo commissario liquidatore per un fallimento da centinaia di miliardi. Per i cinque anni successivi Ambrosoli si oppose a Michele Sindona, personaggio potente e spericolato, con alle spalle una parte preponderante del potere.

Nelle indagini Ambrosoli non si lasciò mai intimidire e completò il suo lavoro nonostante gli avvertimenti e le minacce. Scoprì tutte le carte e i più sordidi intrecci.

Fin dai primi tempi tentarono di blandirlo, di convincerlo ad assumere un atteggiamento più morbido.

La strategia adottata per fermare Ambrosoli fu un autentico “crescendo rossiniano”. Dagli ammiccamenti si passò in breve ai messaggi intimidatori, alle visite in studio di strani personaggi, poi alle minacce a lui e ai suoi collaboratori.

Lo stesso capitò al maresciallo della Guardia di Finanza Silvio Novembre, suo unico collaboratore che gli fece volontariamente anche da guardia del corpo. Una sera, uscendo dal Tribunale, il maresciallo fu avvicinato da un ex collega che gli propone di lasciare l’indagine, congedarsi dalla Guardia di finanza e accettare un lavoro meglio pagato, perché “hai due bambine da crescere”. Ma Silvio Novembre, così come Ambrosoli, era un uomo di saldi principi.

La politica lasciò solo Ambrosoli, con l’unica eccezione del ministro repubblicano Ugo La Malfa. Non fu certo un caso che un uomo solitamente così prudente e misurato come Giulio Andreotti, dopo l’omicidio di Ambrosoli, ebbe la perfidia di dire: “Era uno che se l’andava a cercare”. Lo stesso Andreotti che, durante un ricevimento al Saint Regis di New York, aveva definito Sindona il “Salvatore della lira” ed al quale Sindona, già colpito da un mandato di cattura con richiesta di estradizione dagli Stati Uniti, scrisse da una suite del Waldorf Astoria: “Illustre presidente, nel momento più difficile della mia vita sento il bisogno di rivolgermi direttamente a lei per ringraziarla dei rinnovati sentimenti di stima che ella ha recentemente manifestato”.

Non era un rivoluzionario, Giorgio Ambrosoli, e nemmeno un oppositore dei governi di allora. Era un conservatore, profondamente cattolico, che aveva militato nella Gioventù liberale. Ma era prima di tutto un uomo delle Istituzioni, e per lui le Istituzioni erano da servire con il senso dello Stato, con il prevalere del bene generale sui conflitti di interesse, con il rispetto delle leggi, dell’etica pubblica e privata. Quando consegnò alla Banca d’Italia il primo frutto del suo lavoro accluse un biglietto per il governatore: “Con i migliori sentimenti di devozione per avermi dato modo di servire in qualche modo il Paese”.

Corrado Stajano definì Giorgio Ambrosoli, in un bellissimo libro-inchiesta, un uomo libero e solo, eroe borghese che avrebbe potuto vivere tranquillo con le sue serene abitudini e invece, per la passione dell’onestà, si batté contro un genio del male, sorretto da forze potenti palesi e occulte, e fu sconfitto.

Il 25 febbraio del 1975, dopo aver completato la ricostruzione dello stato passivo della Banca privata, Giorgio Ambrosoli scrisse alla moglie: “A quarant’anni, di colpo, ho fatto politica e in nome dello Stato e non per un partito… e ho sempre operato – ne ho la piena coscienza – solo nell’interesse del Paese […] Qualunque cosa succeda, comunque, tu sai che cosa devi fare e sono certo saprai fare benissimo. Dovrai tu allevare i ragazzi e crescerli nel rispetto di quei valori nei quali noi abbiamo creduto […] Abbiano coscienza dei loro doveri verso se stessi, verso la famiglia nel senso trascendente che io ho, verso il Paese, si chiami Italia o si chiami Europa. Riuscirai benissimo, ne sono certo, perché sei molto brava e perché i ragazzi sono uno meglio dell’altro. Sarà per te una vita dura, ma sei una ragazza talmente brava che te la caverai sempre e farai come sempre il tuo dovere costi quello che costi […] Giorgio”.

Giorgio Ambrosoli venne lasciato solo anche il giorno del suo funerale. Nessuna autorità, nessun rappresentante di quello Stato per il quale l’avvocato milanese si era speso con coraggio, fino all’estremo sacrificio. La signora Annalori teneva per mano i suoi figli: una lezione di dignità e compostezza nel dolore. Unico presente il governatore della Banca d’Italia, Paolo Baffi, seduto nelle ultime file, come se si vergognasse dell’assenza di tutti gli altri rappresentanti delle istituzioni. Fu l’ennesima dimostrazione dell’isolamento di una persona per bene, alla quale lo Stato aveva richiesto un compito immane e pericoloso. Una solitudine che proseguiva anche dopo la morte.

Questo è stato Giorgio Ambrosoli: un esempio per il suo senso delle istituzioni, dello Stato, del bene comune. Oggi più che mai, in un’epoca in cui ogni forza politica inneggia a diritti di ogni sorta – quand’anche discutibili – ma si vergogna a menzionare qualunque dovere, soprattutto verso lo Stato e il bene comune.

Il nostro Paese comincerà a cambiare quando saremo in tanti a ricordare Ambrosoli, imitandone il rispetto per l’onestà e le istituzioni repubblicane. Quando troveremo normale il sacrificio personale, anche estremo, per la difesa di tali valori civici.

Per questo – anche quest’anno – ho voluto parlare di Giorgio.

14-7-1979 – MILANO : FUNERALI AMBROSOLI. Anna Lorenza, vedova Ambrosoli, con i figli Francesca, Filippo ed Umberto. ANSA ARCHIVIO
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Buona Festa della Repbubblica!

2 giugno. Festa della Repubblica.
In ogni Paese la Festa nazionale è un evento di importanza assoluta: pensate al 14 luglio nella vicina Francia, oppure al 4 luglio per gli statunitensi.
In Italia, al contrario, il 2 giugno non è mai diventato un momento di celebrazione e coinvolgimento popolare. Al punto che dal 1977 al 2001, per ben ventiquattro anni, la festività fu soppressa, riservando qualche modesta celebrazione, perlopiù di impronta militare, alla prima domenica di giugno. Una specie di festa della mamma o dei nonni, insomma. Facendo del nostro Paese l’unico privo di una celebrazione nazionale, dato che con la stessa legge del 1977 fu abolita anche la Festa dell’Unità Nazionale, che si celebrava il 4 novembre a memoria della vittoria nella Prima Guerra mondiale.
Nulla avviene a caso.
In molti avevano pensato, in quel lontano 1946, che l’Italia potesse iniziare un inarrestabile cammino di crescita morale e culturale. Approfittando di quello che Piero Calamandrei definì un autentico “miracolo della ragione”: una Repubblica proclamata per libera scelta di popolo mentre era ancora sul trono il re.
Al contrario tale momento di gioia e di festa fu ben presto offuscato, o forse deliberatamente emarginato.
Il nostro è un Paese che non ama la storia, men che meno la sua.
Ancora oggi i testi scolastici poco si occupano della nascita della Repubblica e, comunque, in modo superficiale e anacronistico. Generalmente liquidano il 2 giugno in cinque righe e restituiscono una visione molto semplificata dell’origine della Repubblica, nata malamente in un’Italia spaccata in due e con una debole legittimazione popolare. Visione che una banale analisi da “rotocalco” dei dati sarebbe sufficiente a smontare. Lo storico Maurizio Ridolfi ha osservato che bastano solo due cifre per scardinare l’immagine di un’Italia settentrionale interamente proiettata verso la Repubblica e un’Italia meridionale interamente monarchica: il 40 per cento degli italiani che votarono per il re viveva tra Torino, Milano e Padova. E il 20 per cento dei voti repubblicani era concentrato nel Meridione, e fu decisivo!
Neppure i partiti usciti dal secondo dopoguerra amavano fino in fondo il 2 giugno. Le forze moderate e centriste per il timore di un nazionalismo che potesse ricordare alcuni aspetti del “ventennio”. Il mondo cattolico per una diffusa e per certi versi inconscia ostilità verso lo Stato seguita a Porta Pia, al Sillabo e al celebre non expedit. La sinistra per la sua diffidenza verso le manifestazioni di patriottismo e le esibizioni militari. Allora, perlomeno, quando era impensabile che il leader del principale partito di sinistra fosse candidato alla segreteria generale della NATO.
Venne così meno la risorsa identitaria del patriottismo costituzionale, ossia quella che meglio qualifica e protegge il carattere democratico-pluralistico della res publica attraverso il principio del riconoscimento reciproco dell’identità culturale e della legittimità politica delle parti in competizione democratica, principio in base al quale ciascuna parte interpreta sulla scena la propria legittima versione della patria repubblicana, dalla posizione di maggioranza vincitrice o da quella di minoranza all’opposizione.
Abbiamo scordato che la Repubblica, e con lei la Costituzione, sono una grande vittoria, in un Paese che non è più capace di raccontare vittorie ma preferisce celebrare vittime. I nostri costituenti non sono morti per la Repubblica, ma sono rimasti vivi per costruirla e difenderla. Calamandrei diceva ai ragazzi che la Carta non è una macchina che una volta messa in moto va avanti da sé: perché si muova bisogna ogni giorno rimetterci dentro il combustibile, ossia l’impegno e la responsabilità. Della nostra legge fondamentale rimane oggi il mito (la costituzione più bella del mondo) ma non la consapevolezza di un sentimento collettivo.
Occorre ristabilire il primato del 2 giugno quale Festa fondante del nostro Paese.
E’ necessaria una festa nazionale che ci induca a riflettere sul nostro Paese, sui suoi tanti problemi ma anche sulle sue infinite potenzialità.
Per raccoglierci intorno a un denominatore comune che ci porti a uno slancio di rinascita.
Dobbiamo liberarci di molte zavorre che rallentano l’Italia e la portano a essere una realtà di cui talora, confessiamolo, ci vergogniamo un po’.
Della corruzione, della “furbizia”, di quell’individualismo meschino che ammorba la società.
Da quel “particolarismo” che da geografico si è mutato in difesa degli interessi di singole categorie che ambiscono a essere caste.
Di una classe politica ormai palesemente inidonea a governare il Paese.
Diceva De Gasperi, citando a sua volta il predicatore unitariano James Freeman Clarke, che mentre un politico pensa alle prossime elezioni, un uomo di stato deve avere a cuore la prossima generazione.
Noi abbiamo una classe politica che guarda ai sondaggi e ha come termine ultimo la prossima consultazione elettorale!
Ci occorre una autentica Festa Nazionale, che ci ricordi anche le meraviglie del nostro Paese, la sua storia, la sua cultura, l’arte e le lettere. La cultura che ha unificato il Paese, che ha saputo esprimere Svevo e Pirandello, D’Annunzio e Pascoli, Pavese e Vittorini. Che ha dato vita a forme d’arte inimitabili.
Che ci renda fieri della nostra appartenenza. Non con un sentimento di arido nazionalismo, ma con una feconda consapevolezza che ci induca a combattere i troppi mali che affliggono l’Italia.
E’ compito della cultura agevolare questo. E’ compito della scuola.
Cessiamo di penalizzare la scuola con investimenti vergognosi. L’Italia è all’ultimo posto nell’Europa per gli investimenti nell’istruzione, con il 7.9% della spesa contro una media superiore al 10%. Germania e Francia sono sopra il 10%, addirittura la Svizzera e l’Islanda al 16%. Persino la Grecia ci supera con l’8,5%.
Dobbiamo vivere di un patriottismo che non sfoci nel nazionalismo, ma che si apra ad un respiro europeo, con l’ambizione di essere protagonista. Di un Europa diversa però, che non sia né un mero e arcigno revisore di conti altrui né un asettico bancomat a cui attingere nei periodi di crisi. Bensì una cassa di risonanza di valori e cultura.
Forse l’Europa si è estesa troppo negli ultimi anni, accogliendo Paesi che non ne condividono appieno i valori fondanti. Molti Paesi dell’Est Europa sono forse stati accolti con eccessivo slancio, in quanto portatori di una propria interpretazione dei principi democratici che sono alla base della idea fondante dell’Unione Europea. Si tratta di un contrasto che mette in evidenza una profonda diversità sulla visione dell’Unione e sul suo futuro. Mettere in discussione i principi legati allo Stato di Diritto significa prospettare un diverso ruolo dell’UE nel rispetto dei diritti dell’uomo basati sulla Carta dei diritti fondamentali. Neppure in una bocciofila si entra senza condividere integralmente lo statuto!
Festeggiamo dunque la nostra Festa Nazionale, con la discrezione della consapevolezza.
Rammentiamo che la nostra Repubblica, la Costituzione e le nostre istituzioni sono ciò che ci siamo dati nel momento in cui eravamo sobri, a valere per i momenti in cui siamo sbronzi.
Buona Festa della Repubblica!

Foto de “Il Messaggero”
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Il 25 aprile e la Pace

25 aprile. Una data fondamentale per il nostro Paese.
Non solo per “qualcuno”, non per “una parte” dell’Italia. Ma una festa di tutti, nessuno escluso; qualunque siano le proprie convinzioni.
In questo giorno non si festeggia una vittoria militare: la guerra, in Italia, terminò infatti il 3 maggio. Si festeggia una riscossa civile. Come disse Piero Calamandrei “il carattere che distingue la Resistenza da tutte le altre guerre, anche da quelle fatte da volontari, anche dall’epoca garibaldina, è stato quello di essere più che un movimento militare, un movimento civile”.
Troppo spesso, infatti, rammentiamo la Resistenza armata a scapito di quella “disarmata”, disconoscendo la dignità, la forza, la caparbietà di tanti “civili” – in gran parte donne, vecchi e bambini – che dall’entrata in guerra dell’Italia fino alla Liberazione dovettero convivere con la disoccupazione e la fame mai saziata dai razionamenti. Furono eroiche soprattutto le donne che per tanti mesi lavorarono per un salario di fame, fecero lunghe ed estenuanti code per comprare qualcosa per i propri figli a casa, sempre con il pensiero costante al figlio o al marito in qualche lontano fronte di guerra.
In quel giorno del 1945 era nata l’illusione che l’idea stessa di guerra fosse sconfitta e che ci attendesse un futuro di pace e benessere.
Un’illusione, purtroppo.
I conflitti non sono mai cessati. Già nel 1946 iniziarono la guerra in Indocina e quella civile in Grecia. Ma neppure un anno, da allora, è trascorso senza battaglie e vittime. Solo che queste erano quasi sempre lontane dal cosiddetto Occidente e, di conseguenza, meno degne di attenzione da parte dei mezzi di informazione.
Ora, al contrario, anche il nostro continente è scenario di un conflitto, che si aggiunge, giova rammentare, agli altri 58 sparsi per il mondo, come ci ricorda l’organizzazione “The Armed Conflict Location & Event Data Project (ACLED)”.
Non che sia la prima volta per l’Europa nel dopoguerra. Ben rammentiamo, infatti, il conflitto nei Balcani all’inizio degli anni ’90, con decine di migliaia di vittime, per la gran parte donne e bambini. Quanto accadde in quegli anni fece impallidire l’operato del nazismo: ricordiamo solamente la strage di Srebrenica, avvenuta con la complicità dei “caschi blu” dell’ONU presenti, che consegnarono addirittura donne e bambini agli aguzzini e fornirono i buldozer per coprire le fosse comuni. Nel 2015 un’inchiesta del giornale britannico “The Observer”, sulla base di alcuni documenti declassificati dalla Gran Bretagna, dimostrò gravissime responsabilità di Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna e delle stesse Nazioni Unite che, in nome della realpolitik, preferirono accettare le migliaia di morti di Srebrenica pur di raggiungere un accordo con Milošević. Ma, lo sappiamo, non tutte le vittime sono eguali, neppure in Europa.
In questi giorni è l’Ucraina scenario di una nuova battaglia.
Una guerra che ci riporta in pieno Novecento. Senza tecnologie, droni e aerei senza pilota, ma con cannoni, bombe, carri armati e soldati.
E’ necessario usare ogni sforzo diplomatico, nessuno escluso, per giungere a una immediata cessazione delle ostilità.
Non credo che insistere nell’armare una delle parti, ancorché sia la parte aggredita, con ordigni sempre più sofisticati e potenti sia nell’interesse della pace. Semmai giova a ben altri interessi.
Nel 1972, nel corso dell’inchiesta dell’Washington Post denominata “scandalo Watergate”, Mark Felt, confidente segreto dei giornalisti Woodward e Bernstein, usò la celebre frase “follow the money” (seguite i soldi), poi ripresa da Giovanni Falcone con eccellenti risultati contro la mafia.
Seguendo il denaro capiamo come il perdurare del conflitto giova ai gruppi industriali che sostengono più fermamente, da dietro le quinte, i mastini della guerra dei salotti atlantisti. L’industria bellica, le compagnie di combustibili fossili minacciati dalla conversione energetica, la lobby dell’industria pesante hanno sempre considerato la guerra e le ricostruzioni un’immancabile occasione per enormi profitti. L’autoesclusione della Russia, se dura, dal mercato del gas, del petrolio e dell’agricoltura di base lascia spazio ai suoi competitor che, a prezzi di molto più alti, sono pronti a incassare gli extraprofitti. La sintesi di questa realtà è racchiusa in una frase di John D. Rockfeller riferita ai mercati finanziari: “Compra quando scorre il sangue nelle strade”.
Giova, soprattutto, alla potentissima industria delle armi. Negli ultimi dieci giorni l’amministrazione americana ha stanziato circa un miliardo di dollari in forniture all’Ucraina per fronteggiare l’avanzata russa nel Paese. Una cifra che raddoppia se si tiene conto del totale delle forniture inviate da Washington a Kiev in poco più di un anno, ovvero da quando Joe Biden è diventato capo della Casa Bianca. Numeri impressionanti che dimostrano un cambio di marcia netto rispetto ai predecessori, Trump e Obama, che non solo avevano stanziato fondi ben inferiori, ma avevano anche effettuate spedizioni di materiale non letale. L’industria italiana delle armi, in primis Leonardo, è anch’essa tra i beneficiati dalla guerra. Azienda tra le prime nel mondo e con notevoli addentellati con i partiti politici. Tanto potente che la Fondazione Med-Or, dalla stessa fondata e presieduta dall’ex ministro in quota PD Marco Minniti, ha sottoscritto un accordo di collaborazione per la predisposizione di analisi e studi sperimentali di previsione strategica con il Ministero degli Esteri: in altre parole il governo ha come consigliere per gli scenari esteri una fondazione dell’azienda di armi.
Ritengo che oggi lo sforzo di tutti i Paesi debba essere quello di porre fine alle ostilità, dando vita a ogni iniziativa diplomatica. Di perseguire un accordo che tenga ovviamente conto delle necessità inderogabili dell’Ucraina, che è e rimane il Paese aggredito, ma che, al tempo stesso, abbia la lungimiranza di rispettare le esigenze di sicurezza della Russia, in particolar modo quella di non avere intorno a sé Paesi armati da potenze avversarie.
Si tratta della cosiddetta “Dottrina Monroe”, elaborata proprio dagli Stati Uniti negli anni venti dell’800, che vietava l’intromissione di forze esterne in America Latina. Ricordate la crisi di Cuba del 1962, allorquando l’allora Unione Sovietica stava per installare missili con testate nucleari nell’isola e J. F. Kennedy, in un discorso alla nazione, prospettò l’ipotesi di un conflitto nucleare? I missili puntati sulle proprie città dalla propria soglia non piacciono a nessuno!
In questa ricorrenza è davvero importante invocare la pace!
Perché il 25 aprile non è una Festa di guerra, ma di Pace e di Liberazione dalla violenza in ogni sua forma.
In questo senso penso che la più bella celebrazione di questa ricorrenza abbia avuto luogo stamane, con un giorno di anticipo. Alludo alla Marcia per la Pace di Assisi, dove un fiume di persone di diversa estrazione, provenienza e ideologia, alle quali ha rivolto il suo saluto e ringraziamento Papa Francesco, hanno sfilato chiedendo la cessazione della guerra. Il portavoce dei francescani ha detto che, pur nella consapevolezza dei diversi ruoli tra aggressore e aggredito, l’invito a fermarsi deve essere unanime.
Un 25 aprile come festa di Liberazione e di riunificazione, ma anche di pace.
Perché la pace non è sufficiente a garantire la libertà. Ma senza la pace non può esistere libertà.
Buon 25 aprile.

Disegno di Money
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Una data da ricordare

12 dicembre 1969. Un venerdì pomeriggio. A Milano faceva freddo. Una tipica giornata dell’inverno meneghino di allora, con un’umidità che strigliava le ossa e una luce flebile nel plumbeo di un cielo disadorno.
Sant’Ambrogio era da poco trascorso e Natale si avvicinava in punta di piedi. In Piazza del Duomo i bambini passeggiavano avvolti in colorate sciarpe di lana, amorevolmente sferruzzate dalle nonne. Il profumo dei dolcetti stuzzicava l’attesa.
Un Natale semplice, in cui la recente povertà si avventurava incredula in un benessere sobrio e non urlato. Con meno luminarie ma più aspettative. Con la semplicità dei piccoli presepi accovacciati nel muschio.
Nella adiacente Piazza Fontana la sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura era ancora aperta e gremita di clienti, molti dei quali – a ragione del mercato del venerdì – provenivano da fuori Milano.
Verso le 16 e 30 i dipendenti osservavano l’orologio con il desiderio di chiudere la banca.
Alle 16 e 37 un potente ordigno esplose nel salone centrale della banca. Si trattava di sette chili di tritolo, chiusi in una valigetta sistemata sotto un ampio tavolo al centro del locale. Gli effetti furono devastanti: il pavimento fu squarciato, formando un’autentica voragine: diciassette persone restarono uccise e altre ottantotto furono ferite. La fossa creatasi, secondo i testimoni, era piena di corpi mutilati che bruciavano.
Non fu l’unico attentato di quella giornata. Qualche minuto prima, infatti, un altro ordigno era stato rinvenuto nella vicina sede della Banca Commerciale Italiana, in piazza della Scala. Tra le 16 e 55 e le 17 e 30, inoltre, altre tre esplosioni si verificarono a Roma: una, all’interno della Banca Nazionale del Lavoro di via San Basilio; altre due sull’Altare della Patria di piazza Venezia.
Una giornata terribile, che colpì al cuore il Paese, smarrito ed incredulo dinnanzi ad eventi che mai aveva sperimentato dalla fine della guerra.
Quel giorno prese il via il periodo più oscuro della storia italiana, caratterizzato da quella che venne definita “strategia della tensione”. Anni nei quali fu attaccata alle sue radici la democrazia, investita da una violenza mai sperimentata.
Quella di Piazza Fontana fu solo la prima di una infinita serie di stragi e attentati volti a scardinare l’ordinamento democratico: Piazza della Loggia, l’Italicus, la Questura di Milano, Peteano…. Sino all’orrore della Stazione ferroviaria di Bologna nel 1980.
Eventi terribili, ai quali si affiancò la defatigante serie di agguati e omicidi, con cadenza quasi quotidiana, commessi dalle Brigate Rosse e dai gruppi che le fiancheggiavano.
Un altro avvenimento, oggi pressoché scordato, ebbe luogo il 7 dicembre 1970.
Quella notte ebbe luogo il tentato colpo di stato organizzato da Junio Valerio Borghese. Un evento ormai scordato da tutti.
I pochi che ancora ricordano tendono a ritenerla una farsa da operetta messa in atto da quattro vecchi rimbambiti. Una versione simile a quella descritta da Mario Monicelli nel film satirico del 1973 “Vogliamo i colonnelli”, con Ugo Tognazzi maschera grottesca e ridicola.
In effetti un golpe organizzato con l’ausilio di 187 forestali ed alcune decine di estremisti poco credibile lo sembra davvero. Ma così non è.
La possibilità di un colpo di stato in Italia era stata telegrafata a Washington il 7 agosto 1970 dall’ambasciatore statunitense a Roma, Graham Martin. Quest’ultimo non considerò l’operazione “Tora-Tora” (come venne definita in codice) un’iniziativa di vecchi idealisti.
Il Fronte Nazionale, organizzazione di estrema destra diretta dal Valerio Borghese, ricevette cospicui finanziamenti, nell’ordine di miliardi di lire (che allora erano cifre impressionanti). Da chi? Non è mai stato accertato.
Il piano del golpe prevedeva l’occupazione del Ministero degli Interni, di quello della Difesa e della sede della Rai, insieme al rapimento del presidente della Repubblica Giuseppe Saragat e all’omicidio del capo della Polizia Angelo Vicari.
Al Viminale già dal pomeriggio, si erano insediati alcuni golpisti vestiti da operai.
Alle 22 e 30 giunsero davanti al ministero una cinquantina di estremisti di destra che entrarono nell’armeria, asportando i circa duecento mitra che vi erano custoditi. L’operazione fu favorita da alcuni emissari interni al ministero. Tra questi Salvatore Drago, uomo di Avanguardia nazionale, ma al tempo stesso legato al servizio segreto civile, alla mafia e alla loggia segreta P2, altrettanto attiva nel progetto eversivo. Le plurime appartenenze di Salvatore Drago sono lo specchio dell’articolazione nella quale si mosse questo tentativo.
Il colpo di Stato non fu portato a termine, perché Borghese ricevette una telefonata da qualcuno, sempre rimasto sconosciuto, che gli diede l’ordine di sospendere l’operazione.
Lo storico Aldo Giannuli dell’università di Milano ha recentemente dichiarato al Corriere della Sera: “il golpe Borghese non è stato capito e inquadrato correttamente: o è stato visto come una buffonata di quattro rimbambiti, oppure come un vero colpo di Stato fallito. La verità sta nel mezzo: le persone coinvolte erano tante, ma non bastavano per instaurare un regime militare». In ogni caso il rischio che si sparasse sulle strade e che ci scappasse qualche centinaio di morti è stato reale.
Esiste un termine spagnolo per definire quanto accadde la notte del 7 dicembre 1970: è la parola “intentona”, ossia una specie di colpo di stato virtuale che serva da avvertimento.
Una notte, quella del 7 dicembre del 1970, rimasta avvolta dal mistero e ormai dimenticata.
Liquidata anche dalla Cassazione nel 1986, con una sentenza secondo la quale “La Corte ritiene che i clamorosi eventi della notte in argomento si siano concretati in un conciliabolo di quattro o cinque sessantenni”.
Ben diverso il parere della CIA. Nei documenti recentemente desecretati si legge che il Dipartimento di Stato statunitense era perfettamente a conoscenza del tentativo di colpo di stato, ritenendo che il fallimento fu imputabile essenzialmente al rifiuto dei Carabinieri di aderire al progetto.
La CIA attribuì al Vaticano il ruolo decisivo nel bloccare l’operazione eversiva.
Altri tempi, ci verrebbe da pensare. Parlare oggi di golpe e di carri armati per le strade parrebbe irrealistico. Ma non illudiamoci.
Allora lo spirito democratico era solido e tenacemente diffuso tra la gente.
Oggi ritengo che la democrazia, e non solo nel nostro Paese, sia molto più fragile.
Non solo perché ritenuta meno essenziale – come dimostrato da un’indagine demoscopica a livello europeo dell’Università di Cambridge – ma perché data troppo spesso per scontata. Con il paradosso creato da chi, denunciando improbabili regimi, in realtà li evoca.
Oggi non occorrerebbero più mezzi blindati. Sarebbe sufficiente “pilotare” le opinioni, condizionando i comportamenti. Cosa resa facile dall’enorme diffusione dei social. Consideriamo che un controllo sostanziale di questi mezzi, così come di altri settori nevralgici dell’economia globale, è oggi in mano a tre fondi (Vanguard, BlackRock, Wellington) che valgono, insieme, 14.500 miliardi di dollari, ossia, per rendere l’idea, il PIL italiano moltiplicato per dieci.
Nulla di illecito, si intende. Ma che rende necessario un attento monitoraggio e opportune regole certe. Senza le quali la nostra democrazia sarà sempre più fragile. Anche senza carri armati per le strade.

Foto di Fondazione Ugo Spirito

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Ricordate questa foto!

Guardate questa foto. E ricordatela.

Rammentatela domani, quando l’onda retorica del 25 novembre vi sommergerà in un profluvio di immagini e di belle frasi erroneamente attribuite.

Ma soprattutto tenetela presente quando udirete le roboanti e indignate dichiarazioni dei partiti politici e dei loro leader, tutti affratellati dallo sdegno per la violenza sulle donne.

Perché quando si tratta di impegnarsi realmente in tale direzione la risposta è tutta in questa foto, scattata ier l’altro, il 22 novembre.

La Ministra per le Pari Opportunità Elena Bonetti, vestita di rosso, mascherina compresa, perché il rosso è il colore scelto per la Giornata contro la Violenza sulle donne, illustra alla Camera una mozione sull’argomento, enunciando alcune importanti misure a sostegno delle vittime, tra cui il microcredito di libertà e il reddito di libertà.

Peccato che su 630 deputati siano presenti in 8!

Un sintomo profondo del disinteresse della politica per un tema che è divenuto solo strumento di propaganda e palestra di retorica.

Quando Elena Bonetti ha scandito, ad alta voce, che sono 108 le donne vittime di femminicidio quest’anno, l’eco della sua voce nell’aula vuota è divenuta un “j’accuse” irrevocabile verso un’intera classe politica.

Non sto facendo del facile qualunquismo.

Non si tratta di porsi contro il sistema basato sulla democrazia parlamentare che, al contrario, è il miglior metodo di governo ad oggi conosciuto.

Non si tratta di criticare il metodo democratico, ma di bollare di incapacità, egoismo e inefficacia la classe politica che incarna questo sistema.

Non è il metodo da cambiare, ma le persone che lo incarnano oggi.

Per questo non dobbiamo scordare questa foto!

Foto “Il Messaggero”
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Non solo il 25 novembre!

A Reggio Emilia Juana Cecilia Hazana Loayza, una donna di origini peruviane, è stata trovata morta in un parco pubblico. Sul collo aveva un’ampia ferita da arma da taglio. A infliggerla sarebbe stato Mirko Genco, ventiquattrenne di Parma, che da tempo perseguitava la donna.
A Sassuolo, poche ore prima, Nabil Dahir aveva barbaramente ucciso la sua ex compagna Elisa Mulas, la mamma della donna, Simonetta Fontana, e i due figli di 2 e 5 anni.
Lo stesso giorno Anna Bernardi è stata uccisa dal marito nella loro casa: dopo averle tagliato la gola l’uomo ha provato a togliersi la vita, Senza riuscirci.
Potrei proseguire per molte pagine. Quelle necessarie a contenere i nomi e le storie delle 108 vittime di femminicidio nei primi dieci mesi del 2021.
Sono consapevole che se parlerà a lungo tra pochissimi giorni, il 25 novembre, giornata contro la violenza delle donne.
Ma sono altresì convinto che proprio la pletora di commemorazioni e l’onda lunga di addolorato sdegno dettato dalla ricorrenza rendano il tema tanto solenne e liturgico quanto destinato a svanire il giorno dopo nell’oblio del quotidiano.
Per questo scrivo queste considerazioni oggi, in una data diversa da quella destinata alla commemorazione, nella speranza che la riflessione sia più attenta e meno scontata.
108 vittime in 11 mesi: una donna morta ogni tre giorni. Stando ai dati del Viminale 96 omicidi sono stati commessi in ambito familiare e 68 donne sono state uccisa da partner o ex partner.
Mentre il totale degli omicidi in Italia, nel corso degli ultimi 5 anni, è diminuito del 28%, il numero dei femminicidi è invece notevolmente aumentato. Questi ultimi, rispetto al totale delle uccisioni, sono infatti aumentati dal 35 al 44 per cento. Ormai quasi un omicidio su due, in Italia, è un femminicidio.
Nonostante le tante “panchine rosse” si rischia ormai, proprio per la frequenza del crimine e l’assuefazione allo stesso, di rendere invisibili le vittime, con un faro che ormai si accende solamente il 25 novembre, con una ritualità che si insinua stancamente nella rassegnazione.
Che fare per arginare questa tragedia?
Innanzitutto dobbiamo ragionare in termini di adeguamento giuridico.
E’ vero che, nel corso degli ultimi anni, alcune novazioni sono state introdotte, dalla legge del 2013 al cosiddetto codice rosso del 2019, ma i risultati ancora non si vedono.
Se è vero che – come risulta dai dati pubblicati dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla violenza sulle donne – il 63% delle vittime non aveva mai denunciato le violenze subite, è tuttavia triste che coloro che lo hanno fatto ne abbiano tratto ben poco beneficio.
Si tratta, in prima istanza, di una mancata “formazione” del personale deputato a raccogliere le denunce e ad assumere i provvedimenti conseguenti.
Leggendo la relazione della Commissione cogliamo perfettamente, in molti casi, un modo di ragionare che ci proietta indietro nel tempo. In molti piccoli centri, in cui dovrebbe essere proprio il fattore della conoscenza personale ad aiutare nella lettura della violenza e del rischio, alcune delle donne uccise hanno chiesto aiuto alle forze dell’ordine rappresentando la paura e la difficoltà di denunciare o la presenza di armi e sono state dissuase dal farlo, sono state rassicurate e rimandate a casa. In alcuni casi le forze di polizia, non distinguendo tra violenza domestica e lite familiare, nonostante il tangibile terrore della donna, si sono limitate a “calmare gli animi” (come si legge testualmente nei verbali).
Ai pubblici ministeri la Commissione rimprovera invece una difficoltà a riconoscere la violenza nelle relazioni intime e una non adeguata conoscenza dei fattori di rischio.
Anche qui si tratta di un problema di formazione. Un giudice deve cogliere segnali, decodificare comportamenti, inoltrarsi nei risvolti psicologici di chi agisce con violenza. Allora saprà valutare meglio il rischio che corre la donna e di conseguenza prendere provvedimenti adeguati. Il che non sempre significa affidarsi alla mera applicazione del diritto, perché agire secondo legge non sempre basta a scongiurare il peggio,
Dobbiamo a mio parere giungere, in caso di comportamenti persecutori verso la donna, al “braccialetto elettronico”, oggi impossibile in quanto serve il permesso dell’interessato e non esiste alcuna norma che indichi il carcere quale alternativa a tale strumento.
Ma aldilà dell’aspetto normativo è essenziale anche una svolta culturale. La relazione della Commissione Parlamentare ha rilevato alcune problematiche persino nel linguaggio usato nelle sentenze e nelle molte archiviazioni. Spesso la pregressa condotta violenta dell’uomo viene definita “relazione burrascosa, tumultuosa, turbolenta, instabile…”, anche a fronte di precedenti denunce della vittima per gravi maltrattamenti. Le vittime di femminicidio vengono spesso chiamate per nome, gli imputati per cognome, così generando una discriminazione anche linguistica, non giuridicamente giustificabile. Le vittime non sono descritte rispetto al loro contesto sociale e professionale, ma indicate come madri, mogli e figlie, cioè rispetto al loro ruolo familiare. Infine quando svolgono attività di prostituzione vengono chiamate prostitute e non con nome e cognome, così stigmatizzandole in partenza.
Ma il vero nucleo di cambiamento culturale è rappresentato dal binomio scuola e famiglia, laddove devono essere eradicati stereotipi arcaici ma pericolosi ancora presenti per creare una nuova visione di genere basata su rispetto e uguaglianza.
Molte scuole si stanno attivando per realizzare progetti promossi dal Dipartimento delle Pari Opportunità e finanziati dalla Commissione Europea per prevenire la violenza sulle donne. L’educazione alla parità tra i sessi e alla prevenzione della violenza di genere deve entrare a far parte del Piano dell’Offerta Formativa di ogni istituto e investire in maniera trasversale tutte le discipline, anche mediante la scelta oculata dei libri di testo.
Sono queste le iniziative necessarie a combattere la piaga del femminicidio.
Senz’altro più efficaci delle panchine rosse inaugurate ogni 25 novembre, in una giornata per molti sconfinata nella retorica.

Foto di Canal de Denúncias

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Kristallnacht e il muro

La notte tra il 9 e il 10 novembre del 1938 si verificò un’ondata di violenza antisemita che si propagò in tutta la Germania, nell’annessa Austria e nella regione dei Sudeti della Cecoslovacchia, da poco occupata dalle truppe tedesche.
In tutto il Reich tedesco centinaia di sinagoghe furono attaccate, soggette ad atti di vandalismo, saccheggiate e distrutte. Molte furono date alle fiamme. Ai vigili del fuoco fu ordinato di lasciar bruciare le sinagoghe, ma di evitare che le fiamme si propagassero agli edifici vicini. Le vetrine di migliaia di negozi ebrei furono distrutte e la merce rubata. I cimiteri ebraici furono profanati. Molti ebrei furono attaccati da squadre di truppe d’assalto (SA).
Venne in seguito chiamata “la notte dei cristalli”, dalla parola tedesca Kristallnacht, espressione che deve il suo nome alle schegge dei vetri frantumati che tappezzavano le strade tedesche all’indomani del pogrom e che provenivano delle finestre delle sinagoghe, delle case e delle vetrine dei negozi di proprietà di ebrei e che erano stati saccheggiati e distrutti durante i disordini.
Il governo nazionalsocialista dichiarò nei giorni successivi che la Kristallnacht era stata la reazione emotiva dell’opinione pubblica all’assassinio di Ernst vom Rath. Vom Rath, un funzionario presso l’Ambasciata tedesca di Parigi, assassinato in un attentato il 7 novembre da Herschel Grynszpan, un diciassettenne ebreo polacco. Ma non era andata così. Gli atti di violenza furono istigati soprattutto dagli ufficiali del Partito Nazista, dai membri delle SA e dalla Gioventù hitleriana. Nonostante l’apparenza di “disordini spontanei” che il pogrom assunse, le direttive generali impartite dai vertici nazisti contenevano indicazioni ben precise: i rivoltosi “spontanei” non dovevano commettere azioni dannose verso persone o proprietà di cittadini non ebrei; non dovevano attaccare gli stranieri (anche nel caso di ebrei stranieri) e dovevano sequestrare gli archivi delle sinagoghe prima di distruggerle insieme alle altre proprietà delle comunità ebraiche e inviare tutto il materiale d’archivio ai Servizi di sicurezza (Sicherheitsdienst o SD). Gli ordini includevano che i poliziotti dovessero arrestare gli ebrei, soprattutto giovani e di buona costituzione fisica, fino a riempire le carceri.
Le unità delle SS e della Gestapo, seguendo queste direttive, ne arrestarono oltre 30.000 e trasferirono la maggior parte di loro dalle prigioni locali a Dachau, Buchenwald, Sachsenhausen e ad altri campi di concentramento. La Kristallnacht rappresenta il primo caso in cui il regime nazista imprigionò in massa gli ebrei basandosi solo sulla loro etnia. A centinaia morirono nei campi in seguito ai brutali trattamenti ricevuti. Altri furono rilasciati nei tre mesi successivi, a patto che avviassero le pratiche per espatriare dalla Germania.
Quasi nessuno rammenta oggi questo avvenimento, che fu il principio di un cammino che condusse alla “Shoah”. Ricordarlo è invece necessario, perché ci mostra come da episodici disordini, ancorché manovrati, nasce spesso il cammino lastricato d’odio che conduce alle più terribili aberrazioni umane.
Lo è ancor più in questi giorni, in cui folle di dimostranti, sparute ma ignoranti, percorrono le vie delle nostre città accusando di comportamento nazista il governo italiano ed evocano scenari da campi di sterminio. Offendendo, con tali mascalzonate, la memoria e la vita di coloro che veramente furono vittime dei perfidi regimi del Novecento.
Se realmente fossimo governati da un sistema di tipo dittatoriale e nazista dubito fortemente che domattina questi figuri si sveglierebbero sereni nei loro letti.
Quasi a fare da contraltare alla Kristallnacht, in questi giorni si celebra anche il ricordo di un evento ben più lieto: la caduta del muro di Berlino.
La sera del 9 novembre 1989, nel corso di una conferenza stampa, il portavoce del governo della Germania Est, Guenter Schabowski, incalzato dall’allora corrispondente dell’ANSA a Berlino Est, Riccardo Ehrman, annunciò, forse per un malinteso, la modifica con effetto “immediato” delle “norme per i viaggi all’estero”: in particolare sarebbero state permessi gli spostamenti a Berlino Ovest per qualsiasi motivo.
Tale dichiarazione spinse decine di migliaia di berlinesi dell’est verso i posti di frontiera fra le due parti della città. Le guardie, colte di sorpresa da un afflusso così massiccio, chiesero ordini su come comportarsi, ma comunque alzarono le sbarre bianche e rosse permettendo a tutti di passare senza controlli.
Per tutta la notte, una marea festante attraversò il varco proibito, unendosi ad altrettante migliaia di cittadini dell’Ovest che applaudivano. Abbracci tra parenti e amici, costretti a vivere divisi per decenni. Fiaccole, birra e spumante, accompagnarono la folla. In quelle stesse ore fu distribuito un tabloid stampato a tempo di record, con il titolo “Berlino è di nuovo Berlino”. Le immagini di quella notte sono rimaste scolpite nella memoria di tutti noi: sono quelle dei tanti giovani che scavalcarono il muro aiutandosi a vicenda, poi i picconi e i martelli usati dalla sommità della barriera, ormai demolita nelle mente e che presto lo sarebbe stata nei fatti.
Un muro, quello di Berlino, che era rimasto in piedi per 28 anni, causando la morte di 943 persone: i tedeschi della Germania dell’Est che negli anni della Guerra Fredda vennero uccisi nel tentativo di fuggire in Occidente.
Questi due episodi devono essere un monito: è lenta e spesso impercettibile la deriva verso i regimi, ma ancor più lungo e doloroso è il cammino verso la libertà.

Foto Vatican News

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Una strategia per il futuro

Si è conclusa nei tempi stabiliti l’evacuazione – ma forse sarebbe meglio chiamarla fuga – delle truppe americane dall’Afghanistan, insieme a quella dei militari degli altri paesi occidentali che avevano collaborato.
Nel corso di un discorso alla nazione il Presidente Biden ha dichiarato che “l’evacuazione è stata un successo straordinario”.
Ma la decisione di abbandonare a se stessa una popolazione è stata una scelta altrettanto straordinaria?
Su questo argomento, nei giorni scorsi, Tony Blair, già premier laburista della Gran Bretagna e figura imponente del riformismo del secolo scorso, ha pubblicato un interessante intervento sul sito della Fondazione “Tony Blair Institute for Global Change”.
L’apertura stessa dell’articolo è un assunto perfetto di quanto accaduto: “L’abbandono dell’Afghanistan e del suo popolo è tragico, pericoloso, inutile, non nel loro interesse e non nel nostro”.
Chiaro ed esaustivo.
Successivamente Blair pone una serie di quesiti sui quali, nelle prossime settimane, sarà opportuno riflettere a fondo: “All’indomani della decisione di restituire l’Afghanistan allo stesso gruppo da cui è scaturita la carneficina dell’11 settembre, e in un modo che sembra quasi progettato per ostentare la nostra umiliazione, la domanda posta da alleati e nemici allo stesso modo è: l’Occidente ha perso la sua volontà strategica? Ovvero: è in grado di imparare dall’esperienza, pensare strategicamente, definire i propri interessi e su questa base impegnarsi? Il lungo termine è un concetto che l’Occidente è ancora in grado di afferrare? La natura della sua politica è ancora compatibile con l’affermazione del tradizionale ruolo di leadership globale?”.
L’alleanza occidentale intervenne nel territorio afghano, non scordiamolo, a seguito del rifiuto dei Talebani di interrompere la protezione sino ad allora concessa al gruppo terroristico di al Qaida, autore dell’attacco alle Torri Gemelle che causò oltre tremila vittime.
In seguito, soprattutto dopo l’uccisione del suo leader Osama Bin Laden, la missione assunse progressivamente una diversa attenzione alle necessità della popolazione afghana. Si creò un impegno a trasformare l’Afghanistan da un santuario terrorista fallito in una democrazia funzionante: ancora embrionale ma in via di ripresa. Un’ambizione forse un po’ temeraria, ma dotata di una indiscutibile nobiltà e, comunque, figlia di una strategia.
Ben diversa da una strategia è stata la decisione del ritiro: semplicemente la concretizzazione di una decisione politica basata su meri sondaggi demoscopici. Figlia di una obbedienza a uno slogan politico populistico sulla fine delle “guerre per sempre“, come se il nostro impegno nel 2021 fosse lontanamente paragonabile al nostro impegno di 20 o addirittura dieci anni fa, considerando che il numero delle truppe era diminuito al minimo e nessun soldato alleato aveva perso la vita in combattimento per 18 mesi.
Ci ricorda ancora Tony Blair a proposito della fuga: “Lo abbiamo fatto nella consapevolezza che, sebbene immensamente fragili, negli ultimi 20 anni ci sono stati reali miglioramenti. E chiunque lo contesti, legga i lamenti strazianti di ogni segmento della società afghana su ciò che temono sarà perduto. Miglioramenti nel tenore di vita, nell’istruzione, in particolare delle ragazze, nella libertà. Non ancora quello che volevamo. Ma neppure niente. Qualcosa che valeva la pena difendere. Valeva la pena proteggere. Lo abbiamo fatto quando i sacrifici delle nostre truppe avevano reso quelle fragili conquiste qualcosa che era nostro dovere preservare. Lo abbiamo fatto quando l’accordo del febbraio 2020, a sua volta pieno di concessioni ai talebani, era stato violato quotidianamente. Lo abbiamo fatto mentre ogni gruppo jihadista in tutto il mondo esultava”.
Credo che il vulnus principale di questa debacle sia la perdita assoluta di ogni credibilità da parte del mondo occidentale e della sua cultura e tradizione democratica.
Chiunque abbia preso impegni con i leader occidentali li considererà comprensibilmente una valuta instabile”, dice ancora Blair.
Ma – quel che è peggio – abbiamo perso ogni credibilità nei confronti delle popolazioni che aspirano a liberarsi da un barbarico medioevo.
In un’intervista concessa a un giornalista del quotidiano “Il Foglio”, lo scrittore afghano Ali Eshani, che ora risiede in Italia. afferma: “Tutto il progresso afghano è stato possibile solo grazie alla presenza occidentale. Ci sono donne che hanno iniziato a fare le parrucchiere, che sono diventate giornaliste e medici. Che hanno studiato. Ora stanno chiudendo tutto. I Talebani ammazzeranno anche le parrucchiere. Non dovevano lasciare l’Afghanistan. Chi si fiderà più dell’America? Tanti afghani mi dicono che sono stati abbandonati. I giovani erano tutti contenti della presenza occidentale!“.
Credo che le prossime debbano essere settimane dense di riflessione e di analisi.
Una traccia per queste riflessioni è indicata nel citato scritto di Tony Blair: “Se l’Occidente vorrà portare nel 21° secolo i propri irrinunciabili valori, ci vorrà impegno. Tra alti e bassi. Quando è difficile oltre che quando è facile. Occorre fare in modo che gli alleati abbiano fiducia e che gli avversari siano prudenti. E’ necessario accumulare una reputazione per la costanza e il rispetto dell’orizzonte dei valori e per l’abilità nella sua attuazione. E’ opportuno che una parte della destra politica capisca che l’isolamento in un mondo interconnesso è controproducente e che una parte della sinistra accetti l’idea che l’intervento a volte può essere necessario per sostenere i nostri valori”.
Da queste riflessioni e dalle scelte che ne scaturiranno dipenderà la visione che il mondo ha di noi e la nostra visione di noi stessi.

Foto del “Corriere della Sera”

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Noi siamo migliori

Si chiama Annamaria Tribuna.
Per la precisione Maggiore Annamaria Tribuna, perché è un ufficiale e un pilota dell’Aeronautica Militare italiana. Una pilota “combat ready” (pronta al combattimento) sui C-130J, esperta di missioni ad altissimo livello.
L’altro ieri, sulla pista di Kabul, era ai comandi di un C130 della nostra Aeronautica Militare con a borgo numerosi profughi afghani e alcuni giornalisti.
A seguito di alcune raffiche di mitragliatrice partite dai pressi dello scalo Annamaria ha effettuato una serie di manovre evasive per proteggere il velivolo e i passeggeri. Nessuno è rimasto ferito e nessun danno è stato riportato dal velivolo.
Un ufficiale di cui andiamo fieri. Una donna.
Nel frattempo i talebani hanno invitato i leader religiosi locali a fornire loro un elenco di ragazze di età superiore ai 15 anni e vedove con meno di 45 anni per costringerle a sposare i combattenti talebani, hanno dato la caccia alle donne magistrato, ritenendo blasfemo che una donna possa essere giudice, hanno stabilito che per le donne sia meglio restare a casa e non lavorare e le hanno cacciate dalla televisioni e dalla radio.
I loro rivali dell’ISIS, impegnati a mostrarsi ancor più fanatici, ne hanno fatte saltare in aria a decine nei pressi dell’aeroporto di Kabul, ovviamente insieme ai loro bambini.
Dobbiamo avere il coraggio di dirlo: non siamo eguali a loro. Un abisso etico, culturale e morale ci divide.
Saremo anche cinici, molte volte egoisti, troppo spesso indifferenti. Ma ci sono principi e valori essenziali e non negoziabili che appartengono al nostro patrimonio culturale e non al loro.
Per questo migliaia di donne terrorizzate tentano la fuga dall’Afghanistan, così come tanti ragazzi che, pur non avendo vissuto il regime talebano di vent’anni fa, hanno imparato a conoscerlo in pochi giorni.
Per questo la smobilitazione decisa dalla coppia Trump e Biden – peraltro trasformatasi in una fuga disordinata e indecorosa – è un errore di portata storica che offende la storia.
Abbiamo un dovere morale verso i nostri valori essenziali e non negoziabili.
Abbiamo un obbligo storico verso tante donne e ragazzi afghani.
Perché noi non siamo come i Talebani o come l’Isis.
Noi siamo diversi e, lasciatemelo dire, siamo migliori.

In una foto dell’Aeronautica Militare il capitano Tribuna, 6 dicembre 2020. Grazie all’ANSA.