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Il compleanno di Anna

12 giugno.
Anche quest’anno vorrei ricordare un compleanno.
Quello di una bambina che non è mai potuta crescere, che non ha conosciuto la pienezza della maturità, che non ha avuto la ventura di sperimentare lo scorrere del tempo che graffia il corpo con i sospiri della vecchiaia.
Dei pochi compleanni di Anna, perché così si chiamava la bambina, ve ne racconto uno in particolare: quello del 1942.
Era un venerdì, e Anna si trovava ad Amsterdam. Mi piace pensare che vi fosse un tiepido sole ad accarezzare il respiro dell’estate che si affacciava timida alle porte del cielo. Anche in Olanda, dove i papaveri si inchinano lieti al vento che sfiora i campi con leggera tenerezza.
Quel giorno Anna compiva tredici anni.
Tra i doni ricevette un diario, con la copertina a quadretti rossi. Per lei era il regalo più bello, perché Anna amava scrivere, lasciando fluire le parole a tessere emozioni in un ordito sapiente. Ricordava sempre che “la carta è più paziente degli uomini”. Non immaginava che le sue righe, un giorno, sarebbero divenute famose, lette con commozione da donne e uomini di ogni tempo e di ogni Paese.
Due giorni dopo il suo compleanno del 1942 Anna inaugurò il suo nuovo diario:
“Venerdì 12 giugno ero già sveglia alle sei: si capisce, era il mio compleanno! Ma alle sei non mi era consentito d’alzarmi, e così dovetti frenare la mia curiosità fino alle sei e tre quarti. Allora non potei più tenermi e andai in camera da pranzo, dove Moortje, il gatto, mi diede il benvenuto strusciandomi addosso la testolina. Subito dopo le sette andai da papà e mamma e poi nel salotto per spacchettare i miei regalucci. Il primo che mi apparve fosti tu, forse uno dei più belli fra i miei doni. Poi un mazzo di rose, una piantina, due rami di peonie; altri ancora ne giunsero durante il giorno. Da papà e mamma ebbi una quantità di cose, e anche i nostri numerosi conoscenti mi hanno veramente viziata. Fra l’altro ricevetti un gioco di società, molte ghiottonerie, cioccolata, un puzzle, una spilla, la Camera oscura, le Saghe e leggende olandesi di Joseph Cohen e un po’ di denaro, così che mi potrò comprare i Miti di Grecia e di Roma. Che bellezza!”
Anna, come tutte le ragazze, desiderava un’amica del cuore, a cui confidare i suoi innocenti segreti. Scrisse sul suo diario qualche giorno dopo:
“Ho dei cari genitori e una sorella di sedici anni; conosco, tutto sommato, una trentina di ragazze di alcune delle quali potreste dire che sono mie amiche. Ho dei parenti, care zie e cari zii, un buon ambiente familiare; no, apparentemente non mi manca nulla, salvo l’amica. Con nessuno dei miei conoscenti posso far altro che chiacchiere, né parlar d’altro che dei piccoli fatti quotidiani. Non c’è modo di diventare più intimi, ecco il punto. Forse questa mancanza di confidenza è colpa mia; comunque è una realtà, ed è un peccato non poterci far nulla. Perciò questo diario. Allo scopo di dar maggior rilievo nella mia fantasia all’idea di un’amica lungamente attesa, non mi limiterò a scrivere i fatti del diario, come farebbe qualunque altro, ma farò del diario l’amica, e l’amica si chiamerà Kitty”.
Il mondo era difficile in quegli anni. C’era la guerra. E il nazismo. Le truppe tedesche avevano invaso l’Olanda. Anna era ebrea. Non ve l’avevo detto? Perché avrei dovuto? Che importa? Purtroppo, per i nazisti, era invece maledettamente importante.
Anna, per non essere deportata, fu costretta a nascondersi, con i suoi genitori e un’altra famiglia, in due locali celati sopra gli uffici di una azienda. L’alloggio segreto, come lo chiamavano.
Un luogo dove ogni possibilità di osservare l’interno dell’abitazione era stata saggiamente preclusa dalle finestre oscurate. Nessuno doveva sospettare che quell’edificio fosse abitato. La ragazza e la sua famiglia trascorsero due anni in quegli angusti locali, senza mai uscire neppure una volta.
Grazie al suo diario abbiamo appreso tante.
Anna detestava la matematica, la geometria e l’algebra, mentre adorava la storia e le materie letterarie. Tra i suoi interessi personali vi erano la mitologia greca e romana e la storia dell’arte. Insieme a una grande passione per il cinema. Che, purtroppo, le era precluso nell’alloggio segreto. Non c’erano Netflix e Amazon allora!
Scrisse Anna sul suo diario nel Natale del 1943:
“Cara Kitty, credimi, quando sei stata rinchiusa per un anno e mezzo, ti capitano dei giorni in cui non ne puoi più. Sarò forse ingiusta e ingrata, ma i sentimenti non si possono reprimere. Vorrei andare in bicicletta, ballare, fischiettare, guardare il mondo, sentirmi giovane, sapere che sono libera, eppure non devo farlo notare perché, pensa un po’, se tutti e otto ci mettessimo a lagnarci e a far la faccia scontenta, dove andremo a finire? A volte mi domando: «Che non ci sia nessuno capace di comprendere che, ebrea o non ebrea, io sono soltanto una ragazzina con un gran bisogno di divertirmi e di stare allegra?»”.
Una domanda legittima, che mi ha sempre turbato nella sua ovvietà, come certamente scuoterà i vostri cuori.
La cattiveria, tuttavia, era in agguato: un infame, mai identificato, segnalò l’alloggio segreto alla Gestapo. Il 4 agosto 1944 le Schutzstaffel – le famigerate SS – irruppero nei locali, arrestarono le due famiglie e le condussero al campo di smistamento di Westerbork. Il 2 settembre tutti quanti vennero deportati ad Auschwitz.
Dopo un mese Anna e la sorella Margot furono trasferite a Bergen-Belsen, un campo di concentramento nella bassa Sassonia.
Nel marzo del 1945, neppure conosciamo il giorno preciso, Anna si ammalò di tifo, per le terribili condizioni di vita nel lager, e morì. Aveva 15 anni. Venne gettata in una fossa comune. Pochi giorni dopo le truppe britanniche liberano il campo. Troppo tardi per Anna.
Il generale inglese Glyn Hughes, dopo aver visto il campo di sterminio dove è morta Anna, disse in lacrime: “Sono stato medico per trent’anni ed ho visto tutti gli orrori della guerra, ma non ho mai visto nulla di simile”.
Alla fine della guerra fu ritrovato, nell’alloggio segreto, il diario di Anna.
Su di esso le ultime parole scritte prima dell’arresto e della deportazione: “È un gran miracolo che io non abbia rinunciato a tutte le mie speranze perché esse sembrano assurde e inattuabili. Le conservo ancora, nonostante tutto, perché continuo a credere nell’intima bontà dell’uomo. Mi è impossibile costruire tutto sulla base della morte, della miseria, della confusione. Vedo il mondo mutarsi lentamente in un deserto, odo sempre più forte l’avvicinarsi del rombo che ucciderà noi pure, partecipo al dolore di milioni di uomini, eppure, quando guardo il cielo, penso che tutto volgerà nuovamente al bene, che anche questa spietata durezza cesserà, che ritorneranno l’ordine, la pace e la serenità. Intanto debbo conservare intatti i miei ideali; verrà un tempo in cui forse saranno ancora attuabili”.
Credo che ognuno di noi debba rammentare queste parole, per respingere ogni forma di odio. Ogni titubanza e ogni attimo di indifferenza vissuto nella convinzione che tutto ciò non ci riguardi rappresentano cedimenti intollerabili verso la “spietata durezza” di cui ci parlava Anna.
L’odio anche oggi è presente: si insinua malignamente nel linguaggio e nella vita quotidiana. Non dobbiamo assuefarci a questa forma di barbarie: sappiate che non è mai innocua.
Per questo, anche quest’anno, ricordo il compleanno Anna.
Senz’altro lo avete capito: si chiamava Anna Frank.

Foto tratta da RuNet – Russia

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10 maggio 1933: il rogo di Opernplatz

10 maggio 1933. Una data da non dimenticare.
Quella sera, a Berlino, nella piazza del Teatro dell’Opera, la “Opernplatz”, i nazisti organizzarono un gigantesco rogo nel quale bruciarono oltre 25.000 libri.
Altri analoghi eventi si svolsero in numerose città tedesche, ma quello di Berlino fu il più grande, poiché doveva essere un esempio per l’intero Reich. Una cerimonia sontuosa, con una coreografia quasi liturgica. Si prestò attenzione agli aspetti scenografici, alle musiche, ai canti. I libri da bruciare furono accompagnati al fuoco da una marcia alla quale presero parte i professori in toga, gli studenti e i soldati delle SA e delle SS. Una lugubre processione, una celebrazione del più becero oscurantismo.
La Germania hitleriana, dopo quella sera, divenne un deserto culturale. I pochissimi intellettuali che non espatriarono, come il filosofo Martin Heidegger, dovettero rassegnarsi al silenzio. Ma la gran pare di loro abbandonò il Paese.
Con i roghi di maggio Goebbels, da poco nominato ministro della propaganda, lanciò la sua campagna contro i libri “non tedeschi” e contro la cosiddetta “arte degenerata”. Fu l’avvio dell’imbarbarimento della vita culturale tedesca dopo l’avvento del regime nazista. L’intento dichiarato era quello di cancellare qualunque testimonianza degli intellettuali che nel XIX e XX secolo avevano dato sviluppo alla moderna cultura europea.
Durante il rogo Goebbels declamò alla folla isterica parole tragiche e ridicole al tempo stesso: “L’era dell’esagerato intellettualismo ebraico è giunto alla fine. Il trionfo della rivoluzione tedesca ha chiarito quale sia la strada della Germania e il futuro uomo tedesco non sarà un uomo di libri, ma piuttosto un uomo di carattere ed è in tale prospettiva e con tale scopo che vogliamo educarvi… pertanto fate bene, in quest’ora solenne, a gettare nelle fiamme la spazzatura intellettuale del passato”.
Nei roghi finirono migliaia di opere letterarie e artistiche di autori che, secondo il nazismo, avevano “corrotto” e “giudaizzato” una presunta “cultura tedesca” pura: gli scrittori Thomas Mann, Heinrich Mann, Bertolt Brecht e Joseph Roth. I filosofi Theodor W. Adorno, Herbert Marcuse ed Ernst Bloch. L’architetto Walter Gropius. I pittori Paul Klee, Wassili Kandinsky e Piet Mondrian. Gli scienziati Albert Einstein e Sigmund Freud. I musicisti Arnold Schönberg e Alban Berg. I registi cinematografici Georg Pabst, Fritz Lang e Franz Murnau. Insieme a centinaia di altri artisti e pensatori che avevano gettato le basi intellettuali dell’intera cultura del Novecento.
Era infatti la cultura occidentale quella che bruciava in quei roghi, in un’Europa divenuta impotente a difendere le sue opere e, negli anni successivi, i suoi cittadini.
Come si giunse a una simile declamazione di odio verso la cultura?
La principale ragione, come spesso accade, è da ricercarsi nell’economia, più precisamente nella grave crisi economica che aveva investito la Germania negli anni successivi alla conclusione della Prima Guerra Mondiale.
L’intero mondo si trovò in grave difficoltà alla fine degli anni ’20 del secolo scorso: un periodo culminato nel celebre “giovedì nero”, il 24 ottobre 1929, con il crollo della Borsa di Wall Street.
In Germania la debole Repubblica di Weimar attuò politiche deflazionistiche che portarono ad un aumento indiscriminato delle imposte e ad un aumento incredibile degli interessi. L’economia del paese andò al collasso. Il nazismo, una volta conquistato il potere sfruttando il malcontento dilagante, attuò una politica economica basata su di un forte incremento di spesa pubblica e su politiche monetarie espansive, ottenendo l’entusiastico e fanatico consenso di milioni di tedeschi. Hitler capì che l’utilizzo di strumenti tipicamente keynesiani, apparentemente paradossali per la sua visione, avrebbe determinato una crescita nel breve periodo e un forte consenso sociale. Un consenso che sarebbe aumentato se si fossero “divise” tra loro le persone più svantaggiate, creando miti e pericoli, veri o presunti, capaci di far sorgere nemici comuni ai quali attribuire ogni nefandezza possibile e dando vita a un clima di egoismo, di odio, di chiusura mentale e morale.
Odio ed egoismo: ecco l’humus ideale per cementare un consenso patologico.
Perché colpire i libri e la cultura?
Perché la cultura, e con essa i libri che la nutrono, rappresentano un’oasi di dubbio, il respiro del nuovo, una fonte di civiltà e tolleranza.
I libri sono i silos nei quali custodire le idee che possono germogliare e attecchire nella coscienza e nell’intelligenza degli esseri umani. Da loro fiorisce il senso critico e lo spirito di libertà, che è l’impulso creatore dell’intelligenza. I libri rendono fertile la ragione che, come diceva Norberto Bobbio, sarà solo un lumicino, ma è tutto quanto abbiamo per procedere nelle tenebre da cui siamo venuti alle tenebre verso le quali andiamo. Ecco perché la cultura è sempre considerata pericolosa da parte dei tiranni e dei demagoghi di ogni genere.
L’avversione verso la cultura è un denominatore comune per i regimi autoritari. Non a caso analoghe politiche di repressione culturale furono applicate dal regime staliniano nei decenni successivi. O dal regime dei khmer rossi di Pol Pot in Cambogia, dove i primi tra i milioni di cittadini sterminati furono proprio gli intellettuali, considerati parassiti irrimediabilmente contaminati dalla vecchia cultura e potenziali controrivoluzionari. Bastava possedere libri, oppure il semplice fatto di portare gli occhiali, per essere etichettati come insegnanti o studiosi e quindi essere fucilati. Oggi, non a caso, assistiamo ad analoghi atteggiamenti nella Turchia di Erdogan, dopo averli visti applicati dai terroristi dell’ISIS che, anch’essi, bruciavano libri e monumenti della cultura.
Dobbiamo ricordare tutto questo, in quanto viviamo giorni di profonda crisi economica, di diffuso impoverimento. Un periodo nel quale una insidiosa cultura dell’odio si diffonde nel mondo, ammorbando il comune sentire e coinvolgendo ogni dibattito, che diviene manifestazione di rancorosa polemica, complice anche una classe politica del tutto inadeguata e intenta solo a cavalcare un presunto consenso fatto di astiosa contrapposizione.
Un terreno propizio a tutti coloro che vogliono attaccare la democrazia e la libertà di pensiero e di critica, additando soluzioni semplicistiche.
Non dobbiamo delegare fiducia a boriosi capipopolo, né a presuntuosi soloni, latori di una verità specchio di narcisismo.
Bertrand de Saint-Vincent, in un suo editoriale sul quotidiano parigino “Le Figaro”, ha definito la cultura come “quel nutrimento per l’anima che la pandemia non deve cancellare”.
Sono d’accordo con lui, perché la prospettiva di essere lasciati, in futuro, senza cibo per la mente pare un incubo. Anche se, a qualcuno, potrà apparire un sogno.

Foto: Biblioteca del Tempo
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La Manica di Djuha

La Siria attraversa il periodo più terribile della sua storia.
Rivolgendo il mio pensiero a questa martoriata terra e, naturalmente, ai suoi abitanti mi piace ricordare una breve favola siriana, carina e con una certa morale, come si diceva una volta.
Protagonista è Djuha.
Djuha è un personaggio molto popolare nel folclore arabo sin dal decimo secolo, e le sue avventure si sono diffuse ovunque vi sia stata una presenza culturale araba. E’ conosciuto come Djawha nella Nubia, Djahan a Malta e Giufà in Sicilia.
E’ una figura divertente, sagace, mutevole e coinvolta in tante avventure pittoresche. Ciò che affascina è la sua originalità di pensiero, le beffe ed una certa istintiva scaltrezza, realistica e prosaica, nei riguardi dei suoi interessi.
Eccolo in una brevissima fiaba, nella quale, rivolgendosi alla sua… manica, irride a coloro che danno più importanza all’abito ed alla ricchezza che non al cuore dell’uomo.
Storia, a mio parere, tuttora attualissima.
LA MANICA DI DJUHA
Un giorno Djuha era invitato a pranzo, e arrivò nei suoi soliti stracci, per cui fu squadrato con sospetto sulla porta della casa dell’ospite, e non gli fu permesso di entrare. Dopo aver indossato i suoi abiti più eleganti e aver sellato la sua mula, tornò alla casa dell’ospite con l’aspetto di un uomo ricco e importante. Questa volta il servo lo salutò con rispetto e lo fece sedere accanto agli ospiti d’onore. Mentre stendeva la mano per prendere un pezzo di carne arrosto, la sua manica per caso scivolò nel piatto.
“Rimboccati quella manica”, gli sussurrò l’uomo che sedeva vicino a lui.
“No”, rispose Djuha “questo non lo farò”.
E rivolgendosi alla sua manica, disse: “Mangia, mia cara manica, mangia pure e saziati! Tu hai più diritto di me a questo banchetto, poiché in questa casa hanno più rispetto per te che per me”.
Favola della Siria

Il venditore di tappeti – Jamal Al Bayati
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Ricordando Gianni Rodari

Ha senso, in questi giorni difficili, parlare di cultura? Io credo fermamente di sì. Forse ancor più in questo periodo. Perché, come diceva Aristotele, la cultura è un ornamento nella buona sorte e un rifugio nell’avversa.
Quindi, in questa prospettiva, ricordiamo oggi Gianni Rodari, morto il 14 aprile del 1980.
Lo scrittore, pedagogista e giornalista, il cui vero nome era Giovanni Francesco Rodari, nacque a Omegna, sul lago d’Ortail 23 ottobre 1920.
In questa cittadina Gianni, un bambino con una corporatura minuta e un carattere piuttosto schivo, frequentò le scuole elementari.
All’età di dieci anni, a seguito dell’improvvisa morte del padre, si trasferì in provincia di Varese, zona della quale la mamma era originaria.
Gianni si iscrisse al ginnasio presso il seminario di Seveso, mettendosi in luce per le ottime capacità che lo portarono ad essere il migliore della classe, e conseguì il diploma nelle scuole Magistrali nel 1937, a soli diciassette anni.
Nel frattempo abbinò allo studio un corposo impegno sociale, militando nell’Azione Cattolica dove svolse le funzioni di presidente nell’ambito della sua zona di residenza. A tale attività si aggiunse la passione per la scrittura. Ancora sedicenne pubblicò alcuni racconti sul settimanale cattolico “L’azione giovanile” e iniziò una collaborazione con il periodico “Luce”.
Nel 1941 Rodari, giudicato rivedibile alla visita medica per il servizio militare a causa della sua corporatura eccessivamente minuta, vinse il concorso per maestro e incominciò ad insegnare nei paesi della provincia di Varese.
Gli orrori della guerra e, soprattutto, la morte del fratello Cesare in un campo di concentramento nazista avvicinarono Rodari alla Resistenza e, quindi, al Partito Comunista, a cui si iscrisse nel 1944.
Dopo la Liberazione venne assunto al quotidiano l’Unità. Fu proprio in questo periodo che Rodari incominciò a scrivere racconti per bambini, tra i quali “Il libro delle filastrocche” e “Il Romanzo di Cipollino”. Nella redazione del quotidiano Rodari era visto con una certa sufficienza, per il suo continuo narrare – a detta dei redattori – storie per bambini. Ma le critiche peggiori giunsero dai vertici del PCI. Anche perché Rodari inventò le storie di Cipollino, pubblicate nell’edizione domenicale, in forma di fumetto, con le tavole disegnate da Raul Verdini e i suoi testi. Tuttavia il pensiero del PCI circa i fumetti era stato espresso chiaramente da Nilde Iotti in Parlamento nella seduta del 7 dicembre 1951: “Oggi, nei giornali a fumetti troviamo soprattutto la esaltazione dello spirito di violenza, degli istinti di aggressione in quanto tali, lʼesaltazione dellʼuccisione per il piacere dellʼuccisione stessa, in un modo che non può non preoccupare coloro che sono pensosi della educazione dei nostri giovani; vi è insomma lʼesaltazione dellʼistinto della lotta fra gli uomini. […] Io arriverei perfino ad affermare che il fumetto, così come viene presentato, porta al dissolvimento della personalità del ragazzo che in un tempo successivo può avere delle serie conseguenze nello sviluppo completo della personalità dellʼuomo” (Iotti 1951, 49-51). Posizione identica a quella espressa cinque giorni prima, il 2 dicembre del 1951, da “L’Osservatore Romano” in un articolo ampiamente citato, nel suo intervento, dalla stessa Iotti.
Rodari passò al quotidiano “Paese sera” di Roma, riuscendo a realizzare il suo obiettivo di affiancare al lavoro di scrittore per l’infanzia quello di un giornalismo libero, non più alle dipendenze dirette di un partito.
Nel 1960 incominciò a pubblicare per Einaudi. Il primo libro che uscì con la nuova casa editrice fu “Filastrocche in cielo ed in terra”. Anche in questa prestigiosa casa editrice Rodari incontrò qualche difficoltà. L’Einaudi era il regno di Natalia Ginzburg, di Primo Levi e di altre firme nobili delle lettere italiane. Era presente anche Italo Calvino, il quale pure scriveva (anche) racconti per ragazzi. Ecco quindi, come ci ricorda Dario Ceccarelli su “Il Sole 24 Ore”, che proprio Calvino, temendo forse una invasione di campo, all’inizio tenne verso Rodari un atteggiamento cordiale nella forma ma freddo nella sostanza.
La morte lo colse a soli sessant’anni, a seguito di un intervento chirurgico risultato più complesso del previsto.

Certamente Rodari fu un grande scrittore per l’infanzia. Ma considerare questo autore solamente come creatore di fiabe e filastrocche sarebbe estremamente limitativo.
Dopo tanti studi critici, convegni, saggi e riflessioni sulla sua figura, oggi resta da dire soltanto che si tratta di un vero e proprio protagonista della letteratura, che ha vissuto le inquietudini del suo tempo e che ha lasciato una traccia indelebile nella memoria di tante generazioni di bambini e scolari: quasi ogni testo scolastico o antologia riporta un suo racconto o una filastrocca.
Come ha scritto in un saggio Lodovica Cima, “per un insegnante, un testo di Rodari è una garanzia e un riferimento, come per un legislatore il codice”.
Il suo ruolo nella trasformazione della letteratura per l’infanzia fu assolutamente fondamentale. Nel secondo dopoguerra i libri per ragazzi venivano scritti sulla scia di De Amicis, con obiettivi educativi palesati attraverso descrizioni lacrimose e forzatamente edificanti. Si trattava di pubblicazioni noiose e molto distanti dalla realtà di una nazione in piena rinascita e ricostruzione. In un Paese annientato dalla guerra, pochi si potevano permettere di comprare libri che non fossero testi scolastici e altrettanto pochi erano attenti alle esigenze quotidiane dei bambini. Molti pedagogisti ed educatori teorizzavano i libri come strumenti di crescita, da costruire su obiettivi di istruzione specifica, ma non c’era ancora spazio per la fantasia e il gioco. Fu appunto Rodari che seppe dare la vera svolta alla letteratura italiana per ragazzi, mantenendo un legame con la tradizione educativa ma rinnovandola profondamente e rendendola vera letteratura, libera da intenti pedagogici troppo specifici e condizionanti.
Tutto sembra semplice, in Rodari. Ma in realtà alla base del suo lavoro vi è una grande attività di studio ed elaborazione. La sua opera “Grammatica della fantasia”, nella sua parte conclusiva, contiene una bibliografia di oltre quaranta titoli di opere di linguistica, letteratura, pedagogia e psicologia. Rodari è un autore solo in apparenza facile, ma in realtà è un intellettuale che vive in pieno le contraddizioni e le speranze, la realtà e l’utopia del Novecento. Uno scrittore sempre attento alle nuove forme di comunicazione: abbiamo detto del fumetto, ma apprezzò i cartoni animati (disse di “stare dalla parte di Goldrake”), le nuove forme radiotelevisive e persino la pubblicità, nell’ambito della quale scrisse alcuni testi per la British Petroleum.
Non scordiamo, inoltre, l’influenza del surrealismo, movimento al quale Rodari si era avvicinato da giovane. Alcuni passi della “Grammatica della fantasia” sono ripresi dal primo Manifesto del Surrealismo del 1924 di Andrè Breton: si pensi al cosiddetto “binomio fantastico”, palesemente mutuato dal “sistema del fortuito incontro” di Breton.
E’ stato scritto che le sue invenzioni linguistiche sono state pari a quelle di Raymond Queneau. Che la sua raffinatezza di intellettuale è stata la stessa di Roland Barthes. Che la sua disponibilità al fantastico è stata molto simile a quella di J.M. Barrie, di Lewis Carroll.
Uno scrittore, soprattutto, di grande attualità. Che ha declinato il suo lavoro su due valori portanti: speranza e comunità. Il celebre paradigma gramsciano dell’ottimismo della volontà e del pessimismo della ragione è risolto in modo brillante da Rodari: nei momenti di crisi questa contraddizione ci deve servire per immaginare il futuro. “L’utopia non è meno educativa dello spirito critico. Basta trasferirla dal mondo dell’intelligenza a quello della volontà”.
Sempre, tuttavia, nell’ambito della comunità. Perché quando il momento è difficile occorre appellarsi
allo spirito solidale della comunità. Infatti, afferma Rodari citando una frase di Don Milani, “il problema degli altri è sempre uguale al mio, uscirne da soli è avarizia, uscirne insieme è la politica”. Quella vera, quella nobile. Quella ormai sconosciuta.
Per tutto questo credo sia importante ricordare Gianni Rodari.

Gianni Rodari
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Cent’anni di Gianni Rodari

Ha senso, in questi giorni difficili, parlare di cultura? Io credo fermamente di sì. Forse ancor più in questo periodo. Perché, come diceva Aristotele, la cultura è un ornamento nella buona sorte e un rifugio nell’avversa.
L’anniversario odierno, inoltre, costituisce un evento che sarebbe imperdonabile non ricordare.
E’ passato un secolo esatto, infatti, dalla nascita di Gianni Rodari.
Lo scrittore, pedagogista e giornalista, il cui vero nome era Giovanni Francesco Rodari, nacque a Omegna, sul lago d’Orta, proprio cent’anni fa, il 23 ottobre 1920.
In questa cittadina Gianni, un bambino con una corporatura minuta e un carattere piuttosto schivo, frequentò le scuole elementari.
All’età di dieci anni, a seguito dell’improvvisa morte del padre, si trasferì in provincia di Varese, zona della quale la mamma era originaria.
Gianni si iscrisse al ginnasio presso il seminario di Seveso, mettendosi in luce per le ottime capacità che lo portarono ad essere il migliore della classe, e conseguì il diploma nelle scuole Magistrali nel 1937, a soli diciassette anni.
Nel frattempo abbinò allo studio un corposo impegno sociale, militando nell’Azione Cattolica dove svolse le funzioni di presidente nell’ambito della sua zona di residenza. A tale attività si aggiunse la passione per la scrittura. Ancora sedicenne pubblicò alcuni racconti sul settimanale cattolico “L’azione giovanile” e iniziò una collaborazione con il periodico “Luce”.
Nel 1941 Rodari, giudicato rivedibile alla visita medica per il servizio militare a causa della sua corporatura eccessivamente minuta, vinse il concorso per maestro e incominciò ad insegnare nei paesi della provincia di Varese.
Gli orrori della guerra e, soprattutto, la morte del fratello Cesare in un campo di concentramento nazista avvicinarono Rodari alla Resistenza e, quindi, al Partito Comunista, a cui si iscrisse nel 1944.
Dopo la Liberazione venne assunto al quotidiano l’Unità. Fu proprio in questo periodo che Rodari incominciò a scrivere racconti per bambini, tra i quali “Il libro delle filastrocche” e “Il Romanzo di Cipollino”. Nella redazione del quotidiano Rodari era visto con una certa sufficienza, per il suo continuo narrare – a detta dei redattori – storie per bambini. Ma le critiche peggiori giunsero dai vertici del PCI. Anche perché Rodari inventò le storie di Cipollino, pubblicate nell’edizione domenicale, in forma di fumetto, con le tavole disegnate da Raul Verdini e i suoi testi. Tuttavia il pensiero del PCI circa i fumetti era stato espresso chiaramente da Nilde Iotti in Parlamento nella seduta del 7 dicembre 1951: “Oggi, nei giornali a fumetti troviamo soprattutto la esaltazione dello spirito di violenza, degli istinti di aggressione in quanto tali, lʼesaltazione dellʼuccisione per il piacere dellʼuccisione stessa, in un modo che non può non preoccupare coloro che sono pensosi della educazione dei nostri giovani; vi è insomma lʼesaltazione dellʼistinto della lotta fra gli uomini. […] Io arriverei perfino ad affermare che il fumetto, così come viene presentato, porta al dissolvimento della personalità del ragazzo che in un tempo successivo può avere delle serie conseguenze nello sviluppo completo della personalità dellʼuomo” (Iotti 1951, 49-51). Posizione identica a quella espressa cinque giorni prima, il 2 dicembre del 1951, da “L’Osservatore Romano” in un articolo ampiamente citato, nel suo intervento, dalla stessa Iotti.
Rodari passò al quotidiano “Paese sera” di Roma, riuscendo a realizzare il suo obiettivo di affiancare al lavoro di scrittore per l’infanzia quello di un giornalismo libero, non più alle dipendenze dirette di un partito.
Nel 1960 incominciò a pubblicare per Einaudi. Il primo libro che uscì con la nuova casa editrice fu “Filastrocche in cielo ed in terra”. Anche in questa prestigiosa casa editrice Rodari incontrò qualche difficoltà. L’Einaudi era il regno di Natalia Ginzburg, di Primo Levi e di altre firme nobili delle lettere italiane. Era presente anche Italo Calvino, il quale pure scriveva (anche) racconti per ragazzi. Ecco quindi, come ci ricorda Dario Ceccarelli su “Il Sole 24 Ore”, che proprio Calvino, temendo forse una invasione di campo, all’inizio tenne verso Rodari un atteggiamento cordiale nella forma ma freddo nella sostanza.
La morte lo colse a soli sessant’anni, a seguito di un intervento chirurgico risultato più complesso del previsto.

Certamente Rodari fu un grande scrittore per l’infanzia. Ma considerare questo autore solamente come creatore di fiabe e filastrocche sarebbe estremamente limitativo.
Dopo tanti studi critici, convegni, saggi e riflessioni sulla sua figura, oggi resta da dire soltanto che si tratta di un vero e proprio protagonista della letteratura, che ha vissuto le inquietudini del suo tempo e che ha lasciato una traccia indelebile nella memoria di tante generazioni di bambini e scolari: quasi ogni testo scolastico o antologia riporta un suo racconto o una filastrocca.
Come ha scritto in un saggio Lodovica Cima, “per un insegnante, un testo di Rodari è una garanzia e un riferimento, come per un legislatore il codice”.
Il suo ruolo nella trasformazione della letteratura per l’infanzia fu assolutamente fondamentale. Nel secondo dopoguerra i libri per ragazzi venivano scritti sulla scia di De Amicis, con obiettivi educativi palesati attraverso descrizioni lacrimose e forzatamente edificanti. Si trattava di pubblicazioni noiose e molto distanti dalla realtà di una nazione in piena rinascita e ricostruzione. In un Paese annientato dalla guerra, pochi si potevano permettere di comprare libri che non fossero testi scolastici e altrettanto pochi erano attenti alle esigenze quotidiane dei bambini. Molti pedagogisti ed educatori teorizzavano i libri come strumenti di crescita, da costruire su obiettivi di istruzione specifica, ma non c’era ancora spazio per la fantasia e il gioco. Fu appunto Rodari che seppe dare la vera svolta alla letteratura italiana per ragazzi, mantenendo un legame con la tradizione educativa ma rinnovandola profondamente e rendendola vera letteratura, libera da intenti pedagogici troppo specifici e condizionanti.
Tutto sembra semplice, in Rodari. Ma in realtà alla base del suo lavoro vi è una grande attività di studio ed elaborazione. La sua opera “Grammatica della fantasia”, nella sua parte conclusiva, contiene una bibliografia di oltre quaranta titoli di opere di linguistica, letteratura, pedagogia e psicologia. Rodari è un autore solo in apparenza facile, ma in realtà è un intellettuale che vive in pieno le contraddizioni e le speranze, la realtà e l’utopia del Novecento. Uno scrittore sempre attento alle nuove forme di comunicazione: abbiamo detto del fumetto, ma apprezzò i cartoni animati (disse di “stare dalla parte di Goldrake”), le nuove forme radiotelevisive e persino la pubblicità, nell’ambito della quale scrisse alcuni testi per la British Petroleum.
Non scordiamo, inoltre, l’influenza del surrealismo, movimento al quale Rodari si era avvicinato da giovane. Alcuni passi della “Grammatica della fantasia” sono ripresi dal primo Manifesto del Surrealismo del 1924 di Andrè Breton: si pensi al cosiddetto “binomio fantastico”, palesemente mutuato dal “sistema del fortuito incontro” di Breton.
E’ stato scritto che le sue invenzioni linguistiche sono state pari a quelle di Raymond Queneau. Che la sua raffinatezza di intellettuale è stata la stessa di Roland Barthes. Che la sua disponibilità al fantastico è stata molto simile a quella di J.M. Barrie, di Lewis Carroll.
Uno scrittore, soprattutto, di grande attualità. Che ha declinato il suo lavoro su due valori portanti: speranza e comunità. Il celebre paradigma gramsciano dell’ottimismo della volontà e del pessimismo della ragione è risolto in modo brillante da Rodari: nei momenti di crisi questa contraddizione ci deve servire per immaginare il futuro. “L’utopia non è meno educativa dello spirito critico. Basta trasferirla dal mondo dell’intelligenza a quello della volontà”.
Sempre, tuttavia, nell’ambito della comunità. Perché quando il momento è difficile occorre appellarsi
allo spirito solidale della comunità. Infatti, afferma Rodari citando una frase di Don Milani, “il problema degli altri è sempre uguale al mio, uscirne da soli è avarizia, uscirne insieme è la politica”. Quella vera, quella nobile. Quella ormai pressoché sconosciuta.
Per tutto questo credo sia importante, oggi, celebrare il centesimo compleanno di Gianni Rodari.