cultura · politica · società

Caddero in sette dinanzi a quel muro

28 dicembre del 1943. A Reggio Emilia era un’alba nebbiosa, nella quale stanche e perplesse volute di candida umidità si levavano dai campi per innalzarsi tremanti verso il cielo.

Quella mattina, alle sei e trenta, non appena la prima luce del mattino tentò di sfidare le persistenti ombre della notte, presso il Poligono di Tiro della città emiliana le milizie repubblichine fucilarono i sette fratelli Cervi: Gelindo, Antenore, Aldo, Ferdinando, Agostino, Ovidio ed Ettore.

Insieme a loro fu fucilato l’ex repubblichino, poi pentitosi, Quarto Camurri.

La famiglia Cervi era originaria della provincia di Reggio Emilia. Il padre Alcide, nel 1920, lasciò la casa paterna per stabilirsi con la sua famiglia in un appezzamento di terreno a Olmo di Gattatico. Nel 1934, la famiglia si spostò definitivamente in un podere preso in affitto nel comune di Gattatico.

I Cervi erano riusciti a passare dalla conduzione in mezzadria a quella in affitto, lavorando secondo le proprie regole e non quelle imposte dal padrone.

La famiglia comprese infatti che per uscire dalla logica di sopravvivenza occorreva un’intelligente programmazione e l’utilizzo di più moderne tecnologie, insieme a tanto studio. I cervi si procurarono molti libri sull’apicoltura e la metodica per ottimizzare la crescita del frumento e dell’uva. Ma in famiglia si leggeva anche per piacere. La biblioteca casalinga aumentò di mese in mese, fino a dar vita a una circolante e gratuita.

In questa ottica i giovani della famiglia seguirono corsi di formazione professionale riguardanti il lavoro agricolo. Il simbolo di questa modernità si concretizzò nel trattore acquistato nel 1939. Nessuno aveva un trattore a quel tempo.

Per quanto attiene la sfera sociale i Cervi erano sempre stati antifascisti: innanzitutto il padre Alcide, sin da giovanissimo aderente al movimento che diventerà poi il Partito Popolare, così come la madre Genoeffa Cocconi, donna di profonda fede cattolica.

La famiglia, peraltro, era stata sempre in prima linea contro le ingiustizie. Il nonno, Agostino, fu uno dei capi della rivolta contro la tassa sul macinato, nel 1869.

Il 25 luglio 1943, alla sfiducia votata a Mussolini dai suoi stessi gerarchi, la famiglia Cervi organizzò una grande festa, offrendo una “pastasciuttata” a tutta la popolazione sull’aia della casa. Giunsero a mangiare i vicini, gli amici, e tutti gli abitanti dei paesi vicini. Nelle pentole vennero cotti dieci quintali di pasta. La popolarità dei Cervi aveva ormai superato i confini di Gattatico e, con l’arrivo dei nazisti in Emilia, la loro cantina ed il loro fienile divennero depositi per le armi dei partigiani che andavano in montagna. Anche loro, seppur per un brevissimo periodo, provarono la via dei monti, dove ebbero contatti con il parroco di Tapignola, Don Pasquino Borghi, ma capirono ben presto che la Resistenza in montagna non era ancora sufficientemente organizzata.

All’alba del 25 novembre 1943 un plotone di militi circondò l’edificio, incendiandolo, ed al termine i sette fratelli, dopo essersi arresi, vennero catturati e condotti al carcere politico dei “Servi”, a Reggio Emilia. Stessa sorte toccò al padre Alcide, che non volle abbandonarli. Insieme a loro furono arrestati Quarto Camurri, Dante Castellucci e il russo Anatolij Tarassov, oltre a 3 soldati alleati rifugiatisi nella casa: i sudafricani John David Bastiranse e John Peter De Freitas e l’irlandese Samuel Boone Conley.

La casa di famiglia venne completamente bruciata, con le donne e i bambini abbandonati in strada.

Papà Cervi non fu nemmeno informato quando i suoi figli vennero condannati a morte e fucilati al poligono di tiro di Reggio, all’alba del 28 dicembre 1943. Lo venne a sapere soltanto una volta tornato a casa dal carcere, quando la moglie Genoeffa gli riferì la tragica fine dei suoi ragazzi.

Fu un atto di una efferatezza incredibile, che passò alla storia.

E’ bene ricordare che, questa volta, il sanguinoso atto non è imputabile alle truppe di occupazione tedesche o alle famigerate SS. A sterminare la famiglia Cervi furono miliziani repubblichini italiani. Non solo connazionali, ma addirittura conterranei delle vittime. Infatti la fucilazione fu decisa a Reggio Emilia dalle locali autorità della Repubblica Sociale. Quando le autorità superiori della stessa RSI, a Brescia, ne furono informate rimasero contrariate dall’enormità del gesto. Accanto alla lista dei nomi trasmessa dalla città emiliana una mano aveva infatti evidenziato la propria perplessità, forse il proprio dissenso, appuntando la scritta “sette fratelli?” sottolineata di rosso. Pare sia stato lo stesso Mussolini.

A tanto può arrivare il fanatismo disgiunto dalla ragione e dai principi non negoziabili di umanità.

La madre, Genoeffa Cocconi, schiantata dal dolore, si spense per un infarto nell’autunno del 1944, lasciando gli undici nipotini, le quattro vedove e il vecchio Alcide, marito e padre delle vittime. Per papà Cervi fu possibile riavere le spoglie dei sette figli soltanto diversi mesi dopo la Liberazione.

Davanti alla folla silenziosa che si radunò a Campegine, il 25 ottobre 1945, per l’ultimo saluto ai fratelli Cervi, Alcide ebbe la forza di prendere la parola, per dire con commossa ma lucida saggezza “Non chiedo vendetta, ma giustizia… Dopo un raccolto ne viene un altro. Andiamo avanti”.

Alcide Cervi, nel 1954, ormai ottantenne, raccolse le sue memorie in un libro, con l’aiuto di Renato Nicolai: “I miei sette figli”. Raccontò la storia di una famiglia pluralista, composta di fedi diverse (cattolici, socialisti, comunisti) piena di forza, di passione, di senso della giustizia e di rispetto verso il prossimo. Valori semplici, “valori contadini”, come li definì lui, ma patrimonio di tutti, o quasi.

Alcide aveva 7 figli e 7 ne ha dati alla patria, altri ne avevano uno e quello hanno dato. “Non c’è differenza”, diceva. Morì a 94 anni il 27 marzo 1970, salutato ai suoi funerali da oltre 200.000 persone.

Piero Calamandrei, parlamentare socialista e giurista, scrisse un’epigrafe per il busto di Genoveffa Cocconi, madre dei sette fratelli Cervi, morta di dolore poco dopo la loro fucilazione. Il cippo fu collocato nella sala del consiglio del Comune di Campegine, a ricordare l’indescrivibile dolore che può aver provato una madre così duramente colpita.

Ecco il testo:

“Quando la sera tornavano dai campi

sette figli ed otto col padre

il suo sorriso attendeva sull’uscio

per annunciare che il desco era pronto.

Ma quando in un unico sparo

caddero in sette dinanzi a quel muro

la madre disse:

non vi rimprovero o figli

d’avermi dato tanto dolore;

l’avete fatto per un’idea,

perché mai più nel mondo altre madri

debban soffrire la stessa mia pena.

Ma che ci faccio qui sulla soglia

se più la sera non tornerete.

Il padre è forte e rincuora i nipoti:

dopo un raccolto ne viene un altro.

Ma io sono soltanto una mamma:

o figli cari,

vengo con voi”.

cultura

Beethoven: 250 anni dalla nascita

250 anni fa, il 16 dicembre 1770, nasceva a Bonn, in Germania, Ludwig Van Beethoven, probabilmente il più grande musicista di tutti i tempi.

Contemporaneo e lettore di Immanuel Kant, Wolfgang Goethe e Friedrich Schiller, Beethoven ha incarnato la nuova figura del compositore moderno: con lui l’espressione dell’interiorità dell’artista e delle sue dolorose vicende esistenziali assume un nuovo rilievo. Col suo lavoro, inoltre, la nuova coscienza storica e morale che aderisce ai grandi ideali di libertà e giustizia emersi dalla Rivoluzione francese ha investito la creazione musicale. Nella potente novità della concezione della sua musica si avverte il passaggio epocale tra Settecento e Ottocento.

Nato a Bonn (Germania) il 16 dicembre 1770 Beethoven crebbe in un ambiente culturale e familiare tutt’altro che propizio. Il padre è tacciato dagli storici di esser stato un maldestro cantante ubriacone, capace solo di sperperare i pochi guadagni in grado di racimolare, e di spremere fino all’ossessione le capacità musicali di Ludwig, nella speranza di ricavarne un altro Mozart: espedienti di basso sfruttamento commerciale fortunatamente poco riusciti.

La madre, donna umile ma giudiziosa e onesta, appare segnata da una salute men che cagionevole. Ebbe sette figli, quattro dei quali morti prematuramente.

A nove anni Ludwig iniziò studi più regolari con Christian Neefe, organista di Corte, e a quattordici era già organista della Cappella del principe elettore. Poco dopo, polistrumentista come il fratello in musica Amadeus, suonò nell’orchestra del teatro.

Nel 1792 lasciò Bonn per recarsi nella più vivace Vienna, la città che più lo avrebbe apprezzato e in cui poi si sarebbe fermato per il resto della vita. Le sue capacità improvvisative, basate su aggressioni premeditate al finora esile pianoforte alternate a inaudite dolcezze, scioccarono l’uditorio.

Le sue opere, dapprima influenzate dai classici di sempre (Haydn, Mozart) ma già marchiate da soverchia personalità, poi sempre più audaci e innovative, scossero il pigro andazzo della vita artistica, seminando il panico estetico e gettando chi ha orecchie e cuore per intendere nei terribili abissi della coscienza.

Venne idolatrato dai nobili del tempo che facevano a gara per assicurargli vitalizi e vedersi omaggiati nei frontespizi delle opere. Ma Ludwig scrisse sempre musica secondo le sue esigenze espressive e mai secondo commissioni: in questo certamente primo artista della Storia.

Le ultime opere, scritte già in completa sordità, si fanno esoterici incunaboli per i compositori a venire.

Il 7 maggio 1824, a Vienna, Beethoven appare in pubblico per l’ultima volta, per l’audizione della sua celebre “Nona Sinfonia”. Fu un trionfo. Il pubblico proruppe in applausi fragorosi. Seduto accanto al direttore d’orchestra, le spalle rivolte ai presenti, il compositore sfogliava la partitura, materialmente inibito a sentire ciò che lui stesso aveva partorito. Dovettero costringerlo a voltarsi perché potesse constatare l’immenso successo riportato dalla sua opera.

Il 26 marzo 1827 cedette ai mali che lo tormentavano da tempo (gotta, reumatismi, cirrosi epatica): alzò il pugno al cielo, come vuole una famosa immagine romantica, e morì di idropisia. Il suo funerale fu fra i più colossali mai organizzati. L’intera città di Vienna era attonita. In un angolo, fra le orazioni funebri di Grillparzer e di eminenti esponenti della politica e della cultura, una figura anonima e meditabonda, avendo eletto il genio di Bonn a suo nume tutelare, osservava la scena: era Franz Schubert. Raggiungerà il nume l’anno dopo, a soli 31 anni, pretendendo di esservi sepolto accanto.

Disse Franz Grillparzer nell’orazione funebre: “Nel raccoglierci qui presso la tomba di quest’uomo che ci ha lasciati, noi siamo, per così dire i rappresentanti di un’intera nazione, del popolo tedesco riunito, in lutto per la scomparsa di un suo celebratissimo figlio, di quanto era rimasto del declinante splendore della nostra arte nativa, della fioritura spirituale della patria. In realtà ancora vive – e possa vivere a lungo! – l’eroe del canto in lingua tedesca [Goethe], ma l’ultimo grande Maestro, lo splendido portavoce dell’arte dei suoni colui che ereditò e dilatò la fama immortale di Händel e di Bach, di Mozart e di Haydn, ha concluso la sua esistenza, e noi, piangendo, siamo qui accanto alle corde spezzate dello strumento che ora tace. Dello strumento che ora tace! Lasciate che ne parli così. Perché egli era un artista, e quel che era, egli lo era soltanto in virtù della sua arte. Le spine della vita l’avevano ferito nel profondo, ma come il naufrago s’aggrappa alla riva, così egli si rifugiò tra le tue braccia, o sorella sublime del Bene e del Vero, consolatrice del dolore, Arte che scendi dall’alto. Saldo si tenne a te, e persino quando fu serrata la porta attraverso la quale entravi in lui e gli parlavi, quando divenne cieco alle tue fattezze, nel suo sordo orecchio, egli continuava a portare nel cuore la tua immagine, e anche sul letto di morte l’aveva nel petto. Fu un artista, e chi è in grado di stargli a pari?”.

Ma il lutto riguardò anche la gente semplice. Si narra che uno straniero che si trovò a passare di lì, stupendosi del grande schieramento di militari, cosa che era stata predisposta per mantenere l’ordine a causa dell’enorme afflusso di folla domandò ad una fruttivendola: “Che significa mai tutta questa gente e questi militari?”. La donna, che al momento lo fissò meravigliata, rispose poi con un riso beffardo: “Di sicuro è la prima volta che lei è a Vienna se no saprebbe bene che sono i funerali del primo dei musicisti!”.

Ludwig Van Beethoven fu probabilmente del più grande compositore di ogni tempo e luogo, un titano del pensiero musicale, i cui traguardi artistici si sono rivelati di portata incalcolabile. E forse, in alcuni momenti della sua opera, anche il termine musica appare riduttivo, là dove lo sforzo di trasfigurazione compiuto dal genio appare trascendere l’umano sentire.

cultura · politica · società

Piazza Fontana e la “intentona” di Borghese

12 dicembre 1969. Un venerdì pomeriggio. A Milano faceva freddo. Una tipica giornata dell’inverno meneghino di allora, con un’umidità che stringeva le ossa e una luce smarrita nel plumbeo di un cielo disadorno. Con l’aria inquinata e gelida che mordeva la gola.

A dispetto del grigiore del cielo l’atmosfera si ovattava di sensazioni dolci. Sant’Ambrogio era da poco trascorso e Natale si avvicinava in punta di piedi. In Piazza del Duomo i bambini passeggiavano avvolti in colorate sciarpe di lana, amorevolmente sferruzzate dalle nonne. Il profumo dei panettoni stuzzicava l’attesa.

Un Natale ancora semplice, pervaso dall’emozione della povertà che si avventurava in un benessere sobrio e non urlato. Con meno luminarie ma più aspettative. Con la semplicità dei piccoli presepi accovacciati nel muschio.

Nella adiacente Piazza Fontana la sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura era ancora aperta e gremita di clienti, molti dei quali – a ragione del mercato del venerdì – provenivano da fuori Milano.

Verso le 16 e 30 i dipendenti osservavano l’orologio con il desiderio di chiudere la banca. Li attendeva il sabato durante il quale acquistare qualche piccolo regalo. Con la parsimonia di quegli anni, nei quali si pensava al futuro dei figli che dovevano studiare.

Ma per molti il futuro non arrivò.

Alle 16 e 37 un potente ordigno esplose nel salone centrale della banca. Si trattava di sette chili di tritolo, chiusi in una valigetta sistemata sotto un ampio tavolo al centro del locale. Gli effetti furono devastanti: il pavimento fu squarciato, formando un’autentica voragine: diciassette persone restarono uccise e altre ottantotto furono ferite. La fossa creatasi, secondo i testimoni, era piena di corpi mutilati che bruciavano.

Non fu l’unico attentato di quella giornata. Qualche minuto prima, infatti, un altro ordigno era stato rinvenuto nella vicina sede della Banca Commerciale Italiana, in piazza della Scala. Tra le 16 e 55 e le 17 e 30, inoltre, altre tre esplosioni si verificarono a Roma: una, all’interno della Banca Nazionale del Lavoro di via San Basilio; altre due sull’Altare della Patria di piazza Venezia.

Una giornata terribile, che colpì al cuore il Paese, smarrito ed incredulo dinnanzi ad eventi che mai aveva sperimentato dalla fine della guerra.

Quel maledetto 12 dicembre prese il via il periodo più oscuro della storia italiana, caratterizzato da quella che venne definita “strategia della tensione”. Anni nei quali fu attaccata alle sue radici la democrazia, investita da una violenza mai sperimentata.

Quella di Piazza Fontana fu solo la prima di una infinita serie di stragi e attentati volti a scardinare l’ordinamento democratico: Piazza della Loggia, l’Italicus, la Questura di Milano, Peteano…. Sino all’orrore della Stazione ferroviaria di Bologna nel 1980.

Eventi terribili, ai quali si affiancò la defatigante serie di agguati e omicidi, con cadenza quasi quotidiana, commessi dalle Brigate Rosse e dai gruppi che le fiancheggiavano.

C’è un’altra data tuttavia che vorrei ricordare.

Si tratta del 7 dicembre 1970. Cinquant’anni fa.

Quella notte ebbe luogo il tentato colpo di stato organizzato da Junio Valerio Borghese. Un evento ormai scordato da tutti.

I pochi che ancora ricordano tendono a ritenerla una farsa da operetta messa in atto da quattro vecchi rimbambiti. Una versione simile a quella descritta da Mario Monicelli nel film satirico del 1973 “Vogliamo i colonnelli”, con Ugo Tognazzi maschera grottesca e ridicola.

In effetti un golpe organizzato con l’ausilio di 187 forestali ed alcune decine di estremisti poco credibile lo sembra davvero. Ma così non è.

La possibilità di un colpo di stato in Italia era stata telegrafata a Washington il 7 agosto 1970 dall’ambasciatore statunitense a Roma, Graham Martin. Martin non considerò l’operazione “Tora-Tora” (come venne definita in codice) un’iniziativa di vecchi idealisti.

Il Fronte Nazionale, organizzazione di estrema destra diretta dal Valerio Borghese, ricevette cospicui finanziamenti, nell’ordine di milardi di lire (che allora erano cifre impressionanti). Da chi? Non è mai stato accertato.

Il piano del golpe prevedeva l’occupazione del Ministero degli Interni, di quello della Difesa e della sede della Rai, insieme al rapimento del presidente della Repubblica Giuseppe Saragat e all’omicidio del capo della Polizia Angelo Vicari.

Al Viminale già dal pomeriggio, si erano insediati alcuni golpisti vestiti da operai.

Alle 22 e 30 giunsero davanti al ministero una cinquantina di estremisti di destra che entrarono nell’armeria, asportando i circa duecento mitra che vi erano custoditi. L’operazione fu favorita da alcuni emissari interni al ministero. Tra questi Salvatore Drago, uomo di Avanguardia nazionale, ma al tempo stesso legato al servizio segreto civile, alla mafia e alla loggia segreta P2, altrettanto attiva nel progetto eversivo. Le plurime appartenenze di Salvatore Drago sono lo specchio dell’articolazione nella quale si mosse questo tentativo.

Il colpo di Stato non fu portato a termine, perché Borghese ricevette una telefonata da qualcuno, sempre rimasto sconosciuto, che gli diede l’ordine di sospendere l’operazione.

Lo storico Aldo Giannuli dell’università di Milano ha recentemente dichiarato al Corriere della Sera: “il golpe Borghese non è stato capito e inquadrato correttamente: o è stato visto come una buffonata di quattro rimbambiti, oppure come un vero colpo di Stato fallito. La verità sta nel mezzo: le persone coinvolte erano tante, ma non bastavano per instaurare un regime militare. Ma è anche vero che fu determinante l’abilità politica di Giulio Andreotti nell’utilizzare il progetto di golpe per disfarsi di un fantasma, quello del colpo di Stato imminente, che aleggiava da tempo. Questo spettro servì anche ad ammansire il Pci e i sindacati su una serie di questioni, con una moral suasion del tipo «se non veniamo a patti non è detto che non ci riescano la prossima volta». Non a caso il Pci non chiese mai una inchiesta parlamentare sul golpe Borghese”. Gianuli sottolinea che comunque non fu una vicenda di poco conto: il rischio che si sparasse sulle strade e che ci scappasse qualche centinaio di morti è stato reale.

Furono in molti a individuare in Giulio Andreotti l’ispiratore del tentato colpo di stato, ma la cosa pare decisamente poco credibile. Andreotti fu solo abile, con la sua immensa e talora mefistofelica intelligenza, ad approfittarne. Del resto fu lui stesso a ricordare come in democrazia si fosse sempre trovato bene, al punto da essere presidente del Consiglio per sette volte e ministro di tutto. Perché quindi caldeggiare un colpo di Stato che avrebbe ridimensionato il suo potere?

Esiste un termine spagnolo per definire quanto accadde la notte del 7 dicembre 1970: è la parola “intentona”, ossia una specie di colpo di stato virtuale che serva da avvertimento.

Una notte, quella del 7 dicembre del 1970, rimasta avvolta dal mistero e ormai dimenticata.

Liquidata anche dalla Cassazione nel 1986, con una sentenza secondo la quale “La Corte ritiene che i clamorosi eventi della notte in argomento si siano concretati in un conciliabolo di quattro o cinque sessantenni”.

Ben diverso il parere della CIA. Nei documenti recentemente desecretati si legge che il Dipartimento di Stato statunitense era perfettamente a conoscenza del tentativo di colpo di stato, ritenendo che il fallimento fu imputabile essenzialmente al rifiuto dei Carabinieri di aderire al progetto.

La CIA attribuì al Vaticano il ruolo decisivo nel bloccare l’operazione eversiva.

E’ importante oggi ricordare la strage di Piazza Fontana, per la sua efferatezza.

Ma altrettanto importante è rammentare la notte del 7 dicembre di cinquant’anni fa.

Per tener ben a mente quanto sia fragile la democrazia e come quella dell’uomo forte sia una tragica evocazione, dal cui pertugio si materializzano ogni sorta di mostri in grado di annientare la libertà.

cultura · società

Rao: ragazza dell’anno

Si chiama Gitanjali Rao, ha soli 15 anni ed entra nella storia come prima persona a finire sulla copertina della celebre rivista “Time” come “Kid of the year”. La storica pubblicazione americana ha infatti scelto lei per l’importante ed inedito riconoscimento.

Dal 1927 TIME dedica il suo ultimo numero alla Persona dell’anno (“Person of the Year”), cioè la persona considerata più significativa e influente dei 12 mesi passati. Quest’anno ha introdotto un nuovo riconoscimento, quello al “Kid of the Year”, che è dedicato ai più giovani

Rao, a cui è andato il premio, utilizza la ricerca scientifica e l’intelligenza artificiale per risolvere i problemi della vita quotidiana, dal bullismo online alla contaminazione dell’acqua.

Intervistata da Angelina Jolie, Rao ha dichiarato: “La nostra generazione sta affrontando così tanti problemi come non abbiamo mai visto prima. Ma allo stesso tempo dobbiamo affrontare vecchi problemi che ancora esistono. Ad esempio, siamo seduti qui nel mezzo di una nuova pandemia globale, e siamo ancora a dover affrontare i problemi dei diritti umani. Ci sono problematiche che non abbiamo creato ma che ora dobbiamo risolvere, come il cambiamento climatico e il cyberbullismo”.

Complimenti Rao: contribuisci a migliorare il mondo!

cultura · politica · società

La pandemia e il futuro.

“El padre abandonava el figliuolo, la moglie el marito, e l’uno fratello l’altro: e gnuno fugiva e abandonava l’uno, inperoché questo morbo s’attachava coll’alito e co’ la vista pareva, e così morivano, e non si trovava chi seppellisse né per denaro né per amicitia e quelli de la casa propria li portava meglio che potea a la fossa senza prete, né uffitio alcuno, né si suonava campana; e in molti luoghi in Siena si fe’ grandi fosse e cupe per la moltitudine de’ morti. E non era alcuno che piangesse alcuno morto, inperochè ognuno aspettava la morte; e morivane tanti, che ognuno credea che fusse finemondo, e non valea né medicina né altro riparo” (Agnolo di Tura del Grasso, Cronaca senese, a cura di A. Lisini e F. Iacometti, in Rerum Italicorum Scriptores, XV, VI, pp. 555-556).
Siamo a Siena, nel 1348, e Agnolo di Tura del Grasso ci offre un terribile quadro della peste che imperversava. Il tratto dominante della descrizione è la paura che ha colpito tutti, come sempre è accaduto nel corso delle numerose epidemie che hanno attraversato la storia. Il terrore è spesso un male non meno grave del morbo stesso, in grado di intaccare il tessuto sociale.
Anche i nostri giorni, con l’espansione della pandemia di Covid, sono caratterizzati dallo sconcerto e dall’incertezza.
Al timore, ovvio, per la salute si aggiunge la nuova paura della povertà, di non poter mantenere il proprio lavoro, di veder vanificati gli sforzi di una vita. Nuova, certo, perché ai tempi della peste la povertà era la norma per la quasi totalità della popolazione.
Una paura che per molti è purtroppo fondata. Un rapporto della Caritas, pubblicato pochi giorni fa in tema di povertà, ci fornisce dati inquietanti. Analizzando il periodo maggio-settembre del 2019 e confrontandolo con lo stesso periodo del 2020 emerge infatti che l’incidenza dei “nuovi poveri” passa dal 31% al 45%: quasi una persona su due che si rivolge alla Caritas lo fa per la prima volta. Aumenta in particolare il peso delle famiglie con minori, delle donne, dei giovani, dei nuclei di italiani che risultano in mag-gioranza e delle persone in età lavorativa.
In uno scenario di questo tipo gli scontri tra dimostranti e polizia di queste ultime sere – ovviamente sempre da condannare – devono essere analizzati con una certa attenzione. Non trovo particolarmente preoccupante quanto accaduto a Milano e Torino, laddove non più di un centinaio di persone, equamente suddivise tra estremisti di destra e di sinistra, antagonisti dei centri sociali e ultrà del tifo hanno causato incidenti con la unanime condanna della popolazione, prontamente scesa in strada a ripulire e a sistemare.
Più preoccupante quanto occorso in alcune città del sud, Napoli in primis, laddove è parso di cogliere una saldatura tra facinorosi e alcune aree, ancorché limitate, di popolazione. Il che, peraltro, pare ampiamente comprensibile. Non sempre concordo con le tesi di Roberto Saviano, anzi, ultimamente direi di rado. In questo caso ritengo tuttavia corretta la sua analisi, laddove afferma “si è scatenata la rabbia quando si è visto che i soldi mancano, i locali chiudono, il lavoro nero diventa l’unico possibile. Napoli è stato l’inizio… C’è una parte violenta che è abituata a vivere di disagio. Gli ultras, i disoccupati organizzati, gente che vuole l’obolo. Ma anche tantissime persone che sono disperate. I commercianti che hanno messo i locali a norma. I soldi che mancano sono l’ossessione”.
La situazione economica, peraltro, presenta scenari foschi, che potrebbero addirittura peggiorare nel caso di ulteriori limitazioni future. Un documento dello scorso mese di luglio predisposto dalla Commissione Covid-19 della “Accademia Nazionale dei Lincei”, dopo aver rammentato che in Italia “a una lunga fase di ristagno dell’economia ha corrisposto una altrettanto lunga deriva di aumento della disuguaglianza”, prosegue ricordando che “9,8 milioni d’italiani saranno poveri assoluti (persone e famiglie che non riescono a raggiungere un livello di spesa per un minimo di vita decente). Il rapporto Istat 2020 sugli obiettivi di sviluppo sostenibile stima al 27% le persone a rischio povertà o esclusione sociale”.
Questo è il rischio maggiore per il futuro: una crescita esponenziale del disagio e della povertà, in un contesto sempre più caratterizzato dalle diseguaglianze.
Perché se c’è una cosa che il Covid-19 non ha fermato è la crescita della ricchezza dei pochissimi a scapito della maggioranza della popolazione. Solo negli Stati Uniti, dal 18 marzo al 15 settembre, la ricchezza di 643 persone è cresciuta complessivamente di 845 miliardi di dollari. Contemporaneamente 50 milioni di lavoratori hanno perso il lavoro. Il patrimonio personale di Jeff Bezos (Amazon) è cresciuto del 70 per cento, arrivando a 192 miliardi di dollari, quello di Bill Gates del 20 per cento, giungendo a 118 miliardi. Qualcuno dirà che è aumentata anche l’attività filantropica di questi multimiliardari. Il tema è più delicato di quanto possa sembrare in apparenza. Non è tutto oro quanto luccica! Lungi da me ogni sorta di ridicolo complottismo: lasciamo pur perdere i microchip, i controlli di massa e altre amenità. La realtà è molto più semplice e, se vogliamo, banale. Una mera questione di affari e di interesse: una generosità calcolatrice e non certo un amore per l’umanità. Pensate che gli imprenditori che hanno versato almeno un milione in attività filantropiche hanno ammassato molti più profitti dei loro pari. Grazie innanzitutto agli incentivi fiscali, molto aumentati grazie a Trump. In sostanza la beneficenza viene fatta con fondi sottratti allo Stato, con un minor controllo democratico sull’utilizzo degli stessi. Ma certamente con la creazione di nuovi mercati nei quali i beneficiati, riconoscenti, divengano fedeli consumatori.
Il tema sarebbe lungo da affrontare e meriterebbe di essere descritto nella sua interezza. Per ora suggerisco a chi fosse interessato la lettura del libro di Nicoletta Dentico “Ricchi e buoni? Le trame oscure del turbocapitalismo”, pubblicato dalla casa editrice cattolica EMI – Editrice Missionaria Italiana.
Tornando al nostro Paese appare chiaro che un futuro così complesso sia meritevole di una politica adeguata e di un progetto all’altezza. Di un senso di unitarietà nell’ambito di un disegno globale. Con una maggioranza meno incline ai bisticci e una opposizione che non si perda in banali e contraddittorie contrapposizioni fittizie e meramente strumentali. Con le Regioni che sappiano essere ancillari a un progetto di respiro nazionale e non già laboratori di inefficienza o teatrini per Presidenti da operetta.
La posta in gioco è – mai come questa volta – fondamentale. Dagli indirizzi che verranno presi dipende il riassetto del Paese. Non solo per evitare l’insorgere di scontri sociali dagli esiti incerti, ma per garantire ai giovani un futuro in un’Italia credibile e non devastata dai debiti. In gioco, lasciatemi dire, vi è la sopravvivenza della stessa democrazia. Uno studio pubblicato dall’Università di Cambridge nel gennaio di quest’anno (prima della pandemia) ha mostrato che nei paesi sviluppati coloro che si dichiarano insoddisfatti del sistema democratico sono ormai in maggioranza, il 57%. Percentuale che sale ancora prendendo in considerazione la fascia dei cosiddetti “millennial”, ossia i nati tra il 1981 e il 1996.
Capite quindi l’importanza delle scelte da compiere.
Occorre una progettualità che sappia coniugare gli irrinunciabili principi del pensiero liberale e dei diritti individuali – dei quali mai come ora percepiamo la vitale importanza – con le necessarie spinte di eguaglianza e di giustizia. Quello che potremmo definire un pensiero liberal-socialista, una scuola che in Italia è sempre stata, purtroppo, esigua minoranza.
Vorrei chiudere con una citazione di Valdo Spini che può essere spunto per i giorni a venire: “L’esigenza di una politica socialista -liberale si ripresenta oggi in tutta evidenza proprio con la crisi dell’epidemia… La crisi costringe al non lavoro masse molto ingenti di persone e punisce in particolare i lavoratori autonomi, i precari, i lavoratori in nero. Crea nuove povertà che si affiancano alle vecchie. Un tempo la protezione sociale si esercitava nei confronti dei lavoratori, oggi si deve estendere a chi non ha lavoro” (Valdo Spini – Attualità del socialismo liberale – Quaderni del Circolo Rosselli 2/2020).

Il Trionfo della Morte, Pieter Brueghel il Vecchio, 1562
cultura · letteratura · società

Cent’anni di Gianni Rodari

Ha senso, in questi giorni difficili, parlare di cultura? Io credo fermamente di sì. Forse ancor più in questo periodo. Perché, come diceva Aristotele, la cultura è un ornamento nella buona sorte e un rifugio nell’avversa.
L’anniversario odierno, inoltre, costituisce un evento che sarebbe imperdonabile non ricordare.
E’ passato un secolo esatto, infatti, dalla nascita di Gianni Rodari.
Lo scrittore, pedagogista e giornalista, il cui vero nome era Giovanni Francesco Rodari, nacque a Omegna, sul lago d’Orta, proprio cent’anni fa, il 23 ottobre 1920.
In questa cittadina Gianni, un bambino con una corporatura minuta e un carattere piuttosto schivo, frequentò le scuole elementari.
All’età di dieci anni, a seguito dell’improvvisa morte del padre, si trasferì in provincia di Varese, zona della quale la mamma era originaria.
Gianni si iscrisse al ginnasio presso il seminario di Seveso, mettendosi in luce per le ottime capacità che lo portarono ad essere il migliore della classe, e conseguì il diploma nelle scuole Magistrali nel 1937, a soli diciassette anni.
Nel frattempo abbinò allo studio un corposo impegno sociale, militando nell’Azione Cattolica dove svolse le funzioni di presidente nell’ambito della sua zona di residenza. A tale attività si aggiunse la passione per la scrittura. Ancora sedicenne pubblicò alcuni racconti sul settimanale cattolico “L’azione giovanile” e iniziò una collaborazione con il periodico “Luce”.
Nel 1941 Rodari, giudicato rivedibile alla visita medica per il servizio militare a causa della sua corporatura eccessivamente minuta, vinse il concorso per maestro e incominciò ad insegnare nei paesi della provincia di Varese.
Gli orrori della guerra e, soprattutto, la morte del fratello Cesare in un campo di concentramento nazista avvicinarono Rodari alla Resistenza e, quindi, al Partito Comunista, a cui si iscrisse nel 1944.
Dopo la Liberazione venne assunto al quotidiano l’Unità. Fu proprio in questo periodo che Rodari incominciò a scrivere racconti per bambini, tra i quali “Il libro delle filastrocche” e “Il Romanzo di Cipollino”. Nella redazione del quotidiano Rodari era visto con una certa sufficienza, per il suo continuo narrare – a detta dei redattori – storie per bambini. Ma le critiche peggiori giunsero dai vertici del PCI. Anche perché Rodari inventò le storie di Cipollino, pubblicate nell’edizione domenicale, in forma di fumetto, con le tavole disegnate da Raul Verdini e i suoi testi. Tuttavia il pensiero del PCI circa i fumetti era stato espresso chiaramente da Nilde Iotti in Parlamento nella seduta del 7 dicembre 1951: “Oggi, nei giornali a fumetti troviamo soprattutto la esaltazione dello spirito di violenza, degli istinti di aggressione in quanto tali, lʼesaltazione dellʼuccisione per il piacere dellʼuccisione stessa, in un modo che non può non preoccupare coloro che sono pensosi della educazione dei nostri giovani; vi è insomma lʼesaltazione dellʼistinto della lotta fra gli uomini. […] Io arriverei perfino ad affermare che il fumetto, così come viene presentato, porta al dissolvimento della personalità del ragazzo che in un tempo successivo può avere delle serie conseguenze nello sviluppo completo della personalità dellʼuomo” (Iotti 1951, 49-51). Posizione identica a quella espressa cinque giorni prima, il 2 dicembre del 1951, da “L’Osservatore Romano” in un articolo ampiamente citato, nel suo intervento, dalla stessa Iotti.
Rodari passò al quotidiano “Paese sera” di Roma, riuscendo a realizzare il suo obiettivo di affiancare al lavoro di scrittore per l’infanzia quello di un giornalismo libero, non più alle dipendenze dirette di un partito.
Nel 1960 incominciò a pubblicare per Einaudi. Il primo libro che uscì con la nuova casa editrice fu “Filastrocche in cielo ed in terra”. Anche in questa prestigiosa casa editrice Rodari incontrò qualche difficoltà. L’Einaudi era il regno di Natalia Ginzburg, di Primo Levi e di altre firme nobili delle lettere italiane. Era presente anche Italo Calvino, il quale pure scriveva (anche) racconti per ragazzi. Ecco quindi, come ci ricorda Dario Ceccarelli su “Il Sole 24 Ore”, che proprio Calvino, temendo forse una invasione di campo, all’inizio tenne verso Rodari un atteggiamento cordiale nella forma ma freddo nella sostanza.
La morte lo colse a soli sessant’anni, a seguito di un intervento chirurgico risultato più complesso del previsto.

Certamente Rodari fu un grande scrittore per l’infanzia. Ma considerare questo autore solamente come creatore di fiabe e filastrocche sarebbe estremamente limitativo.
Dopo tanti studi critici, convegni, saggi e riflessioni sulla sua figura, oggi resta da dire soltanto che si tratta di un vero e proprio protagonista della letteratura, che ha vissuto le inquietudini del suo tempo e che ha lasciato una traccia indelebile nella memoria di tante generazioni di bambini e scolari: quasi ogni testo scolastico o antologia riporta un suo racconto o una filastrocca.
Come ha scritto in un saggio Lodovica Cima, “per un insegnante, un testo di Rodari è una garanzia e un riferimento, come per un legislatore il codice”.
Il suo ruolo nella trasformazione della letteratura per l’infanzia fu assolutamente fondamentale. Nel secondo dopoguerra i libri per ragazzi venivano scritti sulla scia di De Amicis, con obiettivi educativi palesati attraverso descrizioni lacrimose e forzatamente edificanti. Si trattava di pubblicazioni noiose e molto distanti dalla realtà di una nazione in piena rinascita e ricostruzione. In un Paese annientato dalla guerra, pochi si potevano permettere di comprare libri che non fossero testi scolastici e altrettanto pochi erano attenti alle esigenze quotidiane dei bambini. Molti pedagogisti ed educatori teorizzavano i libri come strumenti di crescita, da costruire su obiettivi di istruzione specifica, ma non c’era ancora spazio per la fantasia e il gioco. Fu appunto Rodari che seppe dare la vera svolta alla letteratura italiana per ragazzi, mantenendo un legame con la tradizione educativa ma rinnovandola profondamente e rendendola vera letteratura, libera da intenti pedagogici troppo specifici e condizionanti.
Tutto sembra semplice, in Rodari. Ma in realtà alla base del suo lavoro vi è una grande attività di studio ed elaborazione. La sua opera “Grammatica della fantasia”, nella sua parte conclusiva, contiene una bibliografia di oltre quaranta titoli di opere di linguistica, letteratura, pedagogia e psicologia. Rodari è un autore solo in apparenza facile, ma in realtà è un intellettuale che vive in pieno le contraddizioni e le speranze, la realtà e l’utopia del Novecento. Uno scrittore sempre attento alle nuove forme di comunicazione: abbiamo detto del fumetto, ma apprezzò i cartoni animati (disse di “stare dalla parte di Goldrake”), le nuove forme radiotelevisive e persino la pubblicità, nell’ambito della quale scrisse alcuni testi per la British Petroleum.
Non scordiamo, inoltre, l’influenza del surrealismo, movimento al quale Rodari si era avvicinato da giovane. Alcuni passi della “Grammatica della fantasia” sono ripresi dal primo Manifesto del Surrealismo del 1924 di Andrè Breton: si pensi al cosiddetto “binomio fantastico”, palesemente mutuato dal “sistema del fortuito incontro” di Breton.
E’ stato scritto che le sue invenzioni linguistiche sono state pari a quelle di Raymond Queneau. Che la sua raffinatezza di intellettuale è stata la stessa di Roland Barthes. Che la sua disponibilità al fantastico è stata molto simile a quella di J.M. Barrie, di Lewis Carroll.
Uno scrittore, soprattutto, di grande attualità. Che ha declinato il suo lavoro su due valori portanti: speranza e comunità. Il celebre paradigma gramsciano dell’ottimismo della volontà e del pessimismo della ragione è risolto in modo brillante da Rodari: nei momenti di crisi questa contraddizione ci deve servire per immaginare il futuro. “L’utopia non è meno educativa dello spirito critico. Basta trasferirla dal mondo dell’intelligenza a quello della volontà”.
Sempre, tuttavia, nell’ambito della comunità. Perché quando il momento è difficile occorre appellarsi
allo spirito solidale della comunità. Infatti, afferma Rodari citando una frase di Don Milani, “il problema degli altri è sempre uguale al mio, uscirne da soli è avarizia, uscirne insieme è la politica”. Quella vera, quella nobile. Quella ormai pressoché sconosciuta.
Per tutto questo credo sia importante, oggi, celebrare il centesimo compleanno di Gianni Rodari.