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Chernobyl: 35 anni dopo

26 aprile 1986. In Ucraina era la notte che precedeva un sabato qualunque. All’una e ventitré gli abitanti della città di Pripjat, dove sorgeva la struttura, videro un bagliore illuminare la notte. Era l’avaria alla centrale di Chernobyl, l’evento più disastroso della storia del nucleare civile. Quello che avrebbe cambiato per sempre la vita di milioni di persone, uccidendone un numero ancora imprecisato. Tutto nacque da un test di sicurezza: evidentemente non riuscito. Quando attorno all’una di notte furono disattivati i sistemi di emergenza per effettuare le prova, un’incredibile catena di errori, disattenzioni e inefficienze, unita alla tecnologia insicura del reattore di derivazione militare, portò al disastro.
A quanto pare il test doveva essere condotto di giorno, da personale appositamente preparato, ma poi, a causa di un parallelo calo nella rete che garantiva l’energia alla vicina Kiev, il via libera per ridurre la potenza del reattore di Chernobyl, senza rischiare deficit di fornitura, venne dato solo di notte, quando era in servizio personale all’oscuro delle procedure di emergenza.
Per una serie di manovre malaccorte la fissione diventò incontrollabile, il reattore raggiunse 120 volte la sua potenza massima ed esplose, scaraventando in aria una piastra da mille tonnellate e un’enorme quantità di materiale radioattivo: polveri, fumi, vapori carichi di radionuclidi. La nube radioattiva si spostò rapidamente da Chernobyl verso gran parte d’Europa. Secondo l’IAEA (Agenzia internazionale per l’energia atomica) l’esplosione portò la contaminazione più elevata in un’area nel raggio di 100 km dalla centrale, con la concentrazione maggiore di isotopi di stronzio, cesio e plutonio. Per giorni l’allora Unione Sovietica tentò di nascondere l’accaduto. I primi dubbi in Europa sorsero il 28 aprile, quando in Svezia venne registrata una radioattività di gran lunga superiore alla norma. In Svezia non si erano però verificati incidenti nelle centrali nucleari, e neanche in Polonia, da dove i tecnici di Stoccolma pensavano che arrivasse l’allarme. Il 28 aprile un satellite americano mostrò le prime fotografie aeree dell’incendio al reattore di Chernobyl.
Nei primi dieci giorni successivi alla catastrofe si tentò con ogni mezzo di fermare la fuga radioattiva: elicotteri militari versarono oltre 1800 tonnellate di sabbia e 2400 di piombo sul reattore, ma solo il 6 maggio la situazione fu sotto controllo. Migliaia le persone che parteciparono alle operazioni, tra militari e civili. Si calcola che i “liquidatori”, operai, pompieri e soldati, reclutati e volontari, siano stati nei mesi seguenti circa 700 mila, provenienti non solo da Ucraina, ma anche da Russia e Bielorussia, repubbliche che all’epoca dell’incidente facevano parte appunto dell’Unione Sovietica. Da Mosca l’ammissione del disastro arrivò solo il 14 maggio da parte dell’allora premier sovietico Mikhail Gorbaciov. I “liquidatori”, ignari della reale portata del disastro, uscivano sul tetto del reattore armati di pale e badili per buttare in basso sabbia, boro, blocchi di grafite sopra il nucleo radioattivo. Ogni sortita durava al massimo 40 secondi e si andava avanti 24 ore su 24. Agli occhi di un pubblico preoccupato per le conseguenze della catastrofe, ma poco informato a riguardo, i liquidatori divennero gli eroi di questa tragedia.
Tornando a Chernobyl. Gli abitanti di Pripyat rimasero esposti alle radiazioni ignari dell’accaduto per 33 ore. Solo il 27 di aprile cinquantamila persone furono fatte salire a bordo di numerosi autobus mandati appositamente. Tutti si sono lasciati alle spalle la vita di tutti i giorni e sono partiti portando con sé solo i documenti e pochi oggetti necessari. L’annuncio del comune parlava di un’evacuazione temporanea ma si raccomandava con i cittadini di chiudere acqua, luce e gas. Quasi nessuno ha mai fatto ritorno nella cittadina. Secondo le stime, attualmente, nella cosiddetta “zona di alienazione” entro 30 km dal reattore vivono infatti circa 200 persone. Quasi tutti anziani, che scelsero di ritornare a casa dopo qualche mese, “per vedere quello stava succedendo” ed oggi vivono mangiando i prodotti che loro stessi coltivano nei terreni contaminati. Pripyat oggi è una città fantasma. Case, ospedali, scuole, strade: tutto è rimasto immobile da allora a raccontare quello che c’era e che non c’è più. Solo il degrado, la rovina e la vegetazione che ingoia tutto rivelano come in realtà siano passati 35 anni.
L’incidente di Chernobyl, sulla scala Ines di gravità degli incidenti atomici, è a livello 7, il massimo. Un disastro mai visto. Il più grave della storia, dieci volte più disastroso di quello avvenuto nella centrale giapponese di Fukushima nel 2011. Superiore decine di volte alle bombe sganciate durante la Seconda guerra mondiale su Hiroshima e Nagasaki.
Recenti dati solo di Russia, Bielorussia e Ucraina (le tre Nazioni più vicine al cuore del disastro) parlano di 200mila morti tra il 1990 e il 2004. Senza contare il totale dei malati di tumore. Solo in Bielorussia tra il ’90 e il 2000 l’incremento dei casi di cancro è stato del 40%, del 52% nella regione al confine con l’Ucraina.
Secondo il lavoro di due studiosi, Moeller e Mousseau (Università Curie di Parigi e University of Southern California), il numero di aborti spontanei è aumentato del 23% dopo l’indicente a Chernobyl, quello delle malformazioni congenite nei neonati dell’80%. Molto più drammatico è l’aumento del cancro alla tiroide.
L’incidenza è salita di otto volte in Ucraina. Mentre in Bielorussia si è arrivati fino a 26 volte di più.
Vi è tuttavia un altro aspetto: l’area intorno al reattore esploso in Ucraina è diventata la terza riserva più grande d’Europa di flora e fauna (lo stesso accade a Fukushima dopo 10 anni). Naturalmente i rischi non sono scomparsi. La resilienza della natura dimostra però che la presenza dell’uomo è più pericolosa di una esplosione nucleare
Dietro la scuola media sulla Sportivnaja, nel paesino fantasma di Pripyat, si vede ancora il pavimento di linoleum della palestra: le radici l’hanno spaccato e alle spalliere s’è avvinta l’edera. Le autorità ucraine previdero il deserto atomico per almeno 300 anni; Greenpeace per 20mila: “Invece quando la gente se n’è andata”, racconta un ingegnere della Chernobyl Exclusion Zone, un raggio di 30 km intorno alla centrale, “è tornata la natura. Le radiazioni sono ovunque, hanno effetti tremendi. Ma sono un fattore meno rilevante dell’assenza dell’uomo. Oggi questa è diventata la terza più grande riserva di piante e animali in Europa. E la rinascita ambientale è l’unica conseguenza positiva di quella catastrofe”.
Consentitemi una curiosità. In molti hanno ricordato, nel corso di questi trent’anni, che uno dei significati del nome Chernobyl, in ucraino, è “assenzio”. L’Apocalisse, al capitolo 8 versetti 10 e 11, recita: “Il terzo angelo suonò la tromba: cadde dal cielo una grande stella, ardente come una fiaccola, e colpì un terzo dei fiumi e le sorgenti delle acque. La stella si chiama Assenzio; un terzo delle acque si mutò in assenzio e molti uomini morirono a causa di quelle acque, che erano divenute amare”.
Una coincidenza, certamente, ma resta il fatto che, quando si tratta del bene comune, gli uomini sanno superare le peggiori profezie.

Foto RSI CH
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La festa di tutti gli italiani

25 aprile.
Una data fondamentale per il nostro Paese.
Non solo per “qualcuno”, non per “una parte” dell’Italia. Ma una festa di tutti gli italiani, nessuno escluso; qualunque siano le proprie convinzioni.
In questo giorno non si festeggia una vittoria militare: la guerra, in Italia, terminò infatti il 3 maggio. Si festeggia una riscossa civile. Come disse Piero Calamandrei “il carattere che distingue la Resistenza da tutte le altre guerre, anche da quelle fatte da volontari, anche dall’epoca garibaldina, è stato quello di essere più che un movimento militare, un movimento civile”.
Troppo spesso, infatti, rammentiamo la Resistenza armata a scapito di quella “disarmata”, disconoscendo la dignità, la forza, la caparbietà di tanti “civili” – in gran parte donne, vecchi e bambini – che dall’entrata in guerra dell’Italia fino alla Liberazione dovettero convivere con la disoccupazione e la fame mai saziata dai razionamenti. Furono eroiche soprattutto le donne che per tanti mesi lavorarono per un salario di fame, fecero lunghe ed estenuanti code per comprare qualcosa per i propri figli a casa, sempre con la paura del successivo bombardamento notturno e con il pensiero costante al figlio o al marito in qualche lontano fronte di guerra.
Il 25 aprile si ricorda la vittoria della democrazia sull’oppressione, della dignità umana contro la barbarie della guerra, dell’occupazione e dell’odio.
Lasciatemi usare le parole di Norberto Bobbio: “eravamo ridiventati uomini con un volto solo e un’anima sola. Eravamo di nuovo completamente noi stessi. Ci sentivamo di nuovo uomini civili. Da oppressi eravamo ridiventati uomini liberi. Quel giorno, o amici, abbiamo vissuto una tra le esperienze più belle che all’uomo sia dato di provare: il miracolo della libertà”.
La libertà. Ecco il valore prezioso per tutti gli italiani che si festeggia il 25 aprile!
Per questo il significato di questa ricorrenza è oggi così attuale. Perché le vittorie sbiadiscono, i successi militari si appannano. Ma la libertà è il respiro più vero della civiltà.
Non dobbiamo imbalsamare questa Festa riferendola a un preciso momento storico. Guai a cadere nella trappola della memoria fine a se stessa, della retorica scontata.
Dobbiamo fare del 25 aprile un fondamento sul quale costruire una società rinnovata, nella quale i popoli non si debbano mai più chiudere in una belligerante autarchia, ma abbiano in sé il respiro dell’universalità e della ormai inevitabile interconnessione globale. Un mondo nel quale il concetto ottocentesco di “indipendenza” si schiuda al nuovo valore dell’interdipendenza. Questa è la parola nuova in cui, se non si vuole che il domani ripeta e aggravi gli orrori di ieri, si dovrà riassumere il nuovo senso della libertà, quello da cui potrà nascere un avvenire diverso dal passato: una libertà che unisca gli individui e i popoli, che scandisca la loro dipendenza scambievole; che rivendichi una giustizia da difendere prima negli altri che in noi.
Senza giustizia la libertà è mutilata, ma senza libertà la giustizia è vuoto egualitarismo tirannico.
Resistere non è un grido contro qualcuno. È chiedere unità. È ricominciare la speranza.
Se faremo nostro questo pensiero il 25 aprile non sarà più soltanto rievocazione, ma fertile base verso rinnovati orizzonti.
Sarà, come deve essere e come è, la festa di tutti gli italiani. Nessuno escluso.
Buon 25 aprile!

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Il Genocidio Armeno

Un oltraggio nei confronti della storia e delle vittime: questo sarebbe oggi non ricordare il Genocidio Armeno, uno scientifico e preordinato sterminio che ebbe inizio il 24 aprile del 1915. L’Armenia è una regione situata tra l’Eufrate e il Caucaso, gravitante intorno ai laghi di Van, Sevan e Urmia. Gli armeni, d’origine indoeuropea, vi giunsero intorno al VII secolo a.C. e il loro nome era già noto allo storico greco Erodoto. Nel 301 d.C., ancora prima dell’editto di tolleranza promulgato da Costantino il Grande, il re Tiridate III adottò il cristianesimo come religione di Stato e costituì così il primo regno cristiano della storia. Con il declino dell’Impero Romano, gli armeni caddero sia sotto l’influenza di Bisanzio, sia sotto quella persiana, infine subirono, dal VII secolo, la dominazione araba, conservando però sempre una forte identità cristiana e costituendo una Chiesa nazionale. Dal XVI secolo in poi, gran parte del loro territorio cadde sotto la dominazione dei Turchi ottomani.
Le prime persecuzioni turche contro gli armeni si verificarono nel 1895 e nel 1896, causando la morte di almeno 50.000 persone, ma fu nel Novecento che la tragedia ebbe il suo epilogo, con l’avvento dei cosiddetti Giovani Turchi alla guida dello stato ottomano.
Il movente fondamentale che ispirò l’azione di governo dei Giovani Turchi fu l’ideologia panturchista, il sogno di un immenso territorio dal Mediterraneo all’altopiano turanico e la determinazione a riformare lo Stato su una base monoetnica, linguisticamente e culturalmente omogenea. Armeni, greci, assiri, ebrei: l’Impero ottomano era costituito di fatto da un mosaico di etnie e religioni. La popolazione armena, la più numerosa, di religione cristiana, che aveva assorbito gli ideali dello stato di diritto di stampo occidentale, con le sue richieste di uguaglianza, costituiva un ostacolo al progetto di omogeneizzazione del regime.
L’obiettivo degli ottomani era la cancellazione della comunità armena come soggetto storico, culturale e soprattutto politico. Non secondaria fu la rapina dei beni e delle terre degli armeni che servì da base economica alla futura repubblica kemalista. La pianificazione avviene tra il dicembre del 1914 e il febbraio del 1915, con l’aiuto di consiglieri tedeschi, data l’alleanza tra Germania e Turchia.
Il Comitato Centrale del Partito Unione e Progresso pianificò il genocidio, realizzato attraverso una struttura paramilitare diretta da due medici, Nazim e Chakir, formata da circa 30.000 criminali liberati dalle carceri.
24 aprile 1915.
A Costantinopoli per tutta la giornata un’aria primaverile proveniente dal Bosforo aveva soffiato sui tetti delle case. Due giorni ancora e sarebbe stata domenica, festa per tutte le famiglie armene cristiane che l’avrebbero celebrata nelle chiese della città. Ma quella stessa notte iniziò la discesa agli inferi. L’odio dei vertici ottomani, che covava sordido sotto la cenere del disprezzo, stava per accendere le fiamme stesse di un umano inferno. Proprio quel venerdì sera gli ordini dei massimi dirigenti turchi furono precisi: cancellare un popolo dalla faccia della terra.
Quella notte furono arrestati gli intellettuali armeni presenti in città. Scomparvero oltre duemilacinquecento persone appartenenti alla classe dirigente, tra cui giornalisti, scrittori, avvocati e persino deputati al Parlamento. Queste persone vennero deportate e chi sopravvisse al duro tragitto venne massacrato una volta giunto a destinazione. Dopo aver eliminato la classe dirigente il governo turco, con un altro decreto emesso nel 1915, ordinò il disarmo di tutti i 350 mila militari armeni arruolatisi per la guerra, che vennero arrestati e massacrati fino all’ultimo.
Fece quindi seguito la deportazione dell’intera popolazione armena verso la parte meridionale dell’Anatolia, la Siria e la Mesopotamia. L’assemblea turca del Partito di governo deliberò di aver “deciso di annientare tutti gli armeni viventi in Turchia, senza lasciarne vivo nemmeno uno e a questo riguardo è stato dato al governo ampia libertà d’azione…”. Il Ministro dell’Interno turco Talaat aggiunse, a fugare ogni dubbio: “il luogo di esilio di questa gente sediziosa è l’annientamento”, precisando che “il numero settimanale dei morti durante gli ultimi giorni non è soddisfacente”.
Durante la deportazione la gran parte della popolazione morì per gli stenti e per la fatica. Le donne avevano una possibilità di salvezza: convertirsi all’islam, sposando un turco ed affidando i propri figli allo Stato. Durante la marcia i convogli vennero anche attaccati e depredati, con l’aiuto dei militari di scorta. Il bottino veniva spartito tra lo stato turco, i militari e gli esecutori materiali.
A differenza del genocidio degli ebrei, compiuto da militari del regime nazista, al genocidio degli armeni prese parte attiva la popolazione civile. Nell’esecuzione del piano le autorità dello Stato furono aiutate dalle folle che si impossessavano dei beni degli armeni deportati e trucidati. I sentimenti di antipatia e intolleranza verso la minoranza etnica armena, generalmente più ricca e più colta della popolazione turca, furono sapientemente fomentati e utilizzati dal governo, facilitato anche dalla proclamazione della Jihad islamica, che creò un’atmosfera di “caccia all’armeno”, in cui tutto era permesso: rubare, bruciare, violentare, torturare, mutilare, uccidere…
Gli uomini vennero gettati in caverne e bruciati vivi. Altri furono annegati nel fiume Eufrate. Ma non andò bene neppure ai pochissimi sopravvissuti. Mustafà Kemal “Ataturk”, “Padre della Turchia”, nel frattempo giunto al potere, li fece passare a fil di spada o di arma da fuoco. Oppure, con una modalità inedita, fece riempire vagoni ferroviari di donne e bambini per poi ricoprirli di carbone ed incendiarli.
Molte di queste vicende furono narrate nel romanzo “I Quaranta giorni del MussaDagh” con cui Franz Werfel, scrittore ebreo praghese, volle rendere giustizia a una tragedia che già allora pareva dimenticata dalla memoria collettiva. Werfel ignorava che da lì a pochi anni (il libro è del 1933) la stessa sorte sarebbe toccata al suo popolo. Non a caso, in quanto Hitler era tra i pochi che ben aveva presente il genocidio armeno e proprio questo gli ispirò lo sterminio degli ebrei, certo dell’indifferenza del mondo. Considerando il silenzio sceso sui fatti, il fuhrer chiese soddisfatto ai suoi collaboratori: “chi parla ancora oggi del genocidio degli armeni?”.
Smentiamo Hitler! Parliamone ancora, di questo orrore. Con buona pace di Erdogan, meritatamente apostrofato come dittatore dal nostro Presidente del Consiglio, che oggi strepita e minaccia quale patetico fuhrer in sedicesimo contro chi ricorda questa tragedia.
Lo meritano le vittime ricordate nel racconto di Khostor Frangyan: “Le deportazioni di massa verso i campi di concentramento. La ferocia disumana delle squadracce dell’esercito contro i perseguitati privati di cibo e acqua, spinti dalla disperazione a succhiare dagli abiti a pezzi le gocce della pioggia o del sudore. Le epidemie incontrollabili durante le marce forzate. Gli eccidi brutali di tutta la popolazione maschile in interi villaggi. Decine di migliaia di donne stuprate e poi avviate nei bordelli. Bambini brutalizzati, perfino bloccati, nel corso delle tragiche migrazioni, dai ferri da cavallo che inchiodavano i piedi. Villaggi e chiese bruciate”.
Medz Yeghern: il “Grande Male”. Con questa espressione gli Armeni ricordano lo sterminio.
Antonia Arslan, una scrittrice di origine armena, racconta di aver incontrato lo scorso anno, nel corso di una commemorazione, un uomo molto anziano. Quando si avvicinò per stringere la mano dell’anziano, questi le disse: “Avevo otto anni quando tutto è successo, e mi ricordo tutto. Ogni anno qualche personaggio importante mi dice che bisogna avere pazienza, che non è ancora il momento. Ma qual è il momento per la giustizia?”.
Impegnamoci perché quel momento arrivi.


Medz Yeghern
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La Manica di Djuha

La Siria attraversa il periodo più terribile della sua storia.
Rivolgendo il mio pensiero a questa martoriata terra e, naturalmente, ai suoi abitanti mi piace ricordare una breve favola siriana, carina e con una certa morale, come si diceva una volta.
Protagonista è Djuha.
Djuha è un personaggio molto popolare nel folclore arabo sin dal decimo secolo, e le sue avventure si sono diffuse ovunque vi sia stata una presenza culturale araba. E’ conosciuto come Djawha nella Nubia, Djahan a Malta e Giufà in Sicilia.
E’ una figura divertente, sagace, mutevole e coinvolta in tante avventure pittoresche. Ciò che affascina è la sua originalità di pensiero, le beffe ed una certa istintiva scaltrezza, realistica e prosaica, nei riguardi dei suoi interessi.
Eccolo in una brevissima fiaba, nella quale, rivolgendosi alla sua… manica, irride a coloro che danno più importanza all’abito ed alla ricchezza che non al cuore dell’uomo.
Storia, a mio parere, tuttora attualissima.
LA MANICA DI DJUHA
Un giorno Djuha era invitato a pranzo, e arrivò nei suoi soliti stracci, per cui fu squadrato con sospetto sulla porta della casa dell’ospite, e non gli fu permesso di entrare. Dopo aver indossato i suoi abiti più eleganti e aver sellato la sua mula, tornò alla casa dell’ospite con l’aspetto di un uomo ricco e importante. Questa volta il servo lo salutò con rispetto e lo fece sedere accanto agli ospiti d’onore. Mentre stendeva la mano per prendere un pezzo di carne arrosto, la sua manica per caso scivolò nel piatto.
“Rimboccati quella manica”, gli sussurrò l’uomo che sedeva vicino a lui.
“No”, rispose Djuha “questo non lo farò”.
E rivolgendosi alla sua manica, disse: “Mangia, mia cara manica, mangia pure e saziati! Tu hai più diritto di me a questo banchetto, poiché in questa casa hanno più rispetto per te che per me”.
Favola della Siria

Il venditore di tappeti – Jamal Al Bayati
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Ricordando Gianni Rodari

Ha senso, in questi giorni difficili, parlare di cultura? Io credo fermamente di sì. Forse ancor più in questo periodo. Perché, come diceva Aristotele, la cultura è un ornamento nella buona sorte e un rifugio nell’avversa.
Quindi, in questa prospettiva, ricordiamo oggi Gianni Rodari, morto il 14 aprile del 1980.
Lo scrittore, pedagogista e giornalista, il cui vero nome era Giovanni Francesco Rodari, nacque a Omegna, sul lago d’Ortail 23 ottobre 1920.
In questa cittadina Gianni, un bambino con una corporatura minuta e un carattere piuttosto schivo, frequentò le scuole elementari.
All’età di dieci anni, a seguito dell’improvvisa morte del padre, si trasferì in provincia di Varese, zona della quale la mamma era originaria.
Gianni si iscrisse al ginnasio presso il seminario di Seveso, mettendosi in luce per le ottime capacità che lo portarono ad essere il migliore della classe, e conseguì il diploma nelle scuole Magistrali nel 1937, a soli diciassette anni.
Nel frattempo abbinò allo studio un corposo impegno sociale, militando nell’Azione Cattolica dove svolse le funzioni di presidente nell’ambito della sua zona di residenza. A tale attività si aggiunse la passione per la scrittura. Ancora sedicenne pubblicò alcuni racconti sul settimanale cattolico “L’azione giovanile” e iniziò una collaborazione con il periodico “Luce”.
Nel 1941 Rodari, giudicato rivedibile alla visita medica per il servizio militare a causa della sua corporatura eccessivamente minuta, vinse il concorso per maestro e incominciò ad insegnare nei paesi della provincia di Varese.
Gli orrori della guerra e, soprattutto, la morte del fratello Cesare in un campo di concentramento nazista avvicinarono Rodari alla Resistenza e, quindi, al Partito Comunista, a cui si iscrisse nel 1944.
Dopo la Liberazione venne assunto al quotidiano l’Unità. Fu proprio in questo periodo che Rodari incominciò a scrivere racconti per bambini, tra i quali “Il libro delle filastrocche” e “Il Romanzo di Cipollino”. Nella redazione del quotidiano Rodari era visto con una certa sufficienza, per il suo continuo narrare – a detta dei redattori – storie per bambini. Ma le critiche peggiori giunsero dai vertici del PCI. Anche perché Rodari inventò le storie di Cipollino, pubblicate nell’edizione domenicale, in forma di fumetto, con le tavole disegnate da Raul Verdini e i suoi testi. Tuttavia il pensiero del PCI circa i fumetti era stato espresso chiaramente da Nilde Iotti in Parlamento nella seduta del 7 dicembre 1951: “Oggi, nei giornali a fumetti troviamo soprattutto la esaltazione dello spirito di violenza, degli istinti di aggressione in quanto tali, lʼesaltazione dellʼuccisione per il piacere dellʼuccisione stessa, in un modo che non può non preoccupare coloro che sono pensosi della educazione dei nostri giovani; vi è insomma lʼesaltazione dellʼistinto della lotta fra gli uomini. […] Io arriverei perfino ad affermare che il fumetto, così come viene presentato, porta al dissolvimento della personalità del ragazzo che in un tempo successivo può avere delle serie conseguenze nello sviluppo completo della personalità dellʼuomo” (Iotti 1951, 49-51). Posizione identica a quella espressa cinque giorni prima, il 2 dicembre del 1951, da “L’Osservatore Romano” in un articolo ampiamente citato, nel suo intervento, dalla stessa Iotti.
Rodari passò al quotidiano “Paese sera” di Roma, riuscendo a realizzare il suo obiettivo di affiancare al lavoro di scrittore per l’infanzia quello di un giornalismo libero, non più alle dipendenze dirette di un partito.
Nel 1960 incominciò a pubblicare per Einaudi. Il primo libro che uscì con la nuova casa editrice fu “Filastrocche in cielo ed in terra”. Anche in questa prestigiosa casa editrice Rodari incontrò qualche difficoltà. L’Einaudi era il regno di Natalia Ginzburg, di Primo Levi e di altre firme nobili delle lettere italiane. Era presente anche Italo Calvino, il quale pure scriveva (anche) racconti per ragazzi. Ecco quindi, come ci ricorda Dario Ceccarelli su “Il Sole 24 Ore”, che proprio Calvino, temendo forse una invasione di campo, all’inizio tenne verso Rodari un atteggiamento cordiale nella forma ma freddo nella sostanza.
La morte lo colse a soli sessant’anni, a seguito di un intervento chirurgico risultato più complesso del previsto.

Certamente Rodari fu un grande scrittore per l’infanzia. Ma considerare questo autore solamente come creatore di fiabe e filastrocche sarebbe estremamente limitativo.
Dopo tanti studi critici, convegni, saggi e riflessioni sulla sua figura, oggi resta da dire soltanto che si tratta di un vero e proprio protagonista della letteratura, che ha vissuto le inquietudini del suo tempo e che ha lasciato una traccia indelebile nella memoria di tante generazioni di bambini e scolari: quasi ogni testo scolastico o antologia riporta un suo racconto o una filastrocca.
Come ha scritto in un saggio Lodovica Cima, “per un insegnante, un testo di Rodari è una garanzia e un riferimento, come per un legislatore il codice”.
Il suo ruolo nella trasformazione della letteratura per l’infanzia fu assolutamente fondamentale. Nel secondo dopoguerra i libri per ragazzi venivano scritti sulla scia di De Amicis, con obiettivi educativi palesati attraverso descrizioni lacrimose e forzatamente edificanti. Si trattava di pubblicazioni noiose e molto distanti dalla realtà di una nazione in piena rinascita e ricostruzione. In un Paese annientato dalla guerra, pochi si potevano permettere di comprare libri che non fossero testi scolastici e altrettanto pochi erano attenti alle esigenze quotidiane dei bambini. Molti pedagogisti ed educatori teorizzavano i libri come strumenti di crescita, da costruire su obiettivi di istruzione specifica, ma non c’era ancora spazio per la fantasia e il gioco. Fu appunto Rodari che seppe dare la vera svolta alla letteratura italiana per ragazzi, mantenendo un legame con la tradizione educativa ma rinnovandola profondamente e rendendola vera letteratura, libera da intenti pedagogici troppo specifici e condizionanti.
Tutto sembra semplice, in Rodari. Ma in realtà alla base del suo lavoro vi è una grande attività di studio ed elaborazione. La sua opera “Grammatica della fantasia”, nella sua parte conclusiva, contiene una bibliografia di oltre quaranta titoli di opere di linguistica, letteratura, pedagogia e psicologia. Rodari è un autore solo in apparenza facile, ma in realtà è un intellettuale che vive in pieno le contraddizioni e le speranze, la realtà e l’utopia del Novecento. Uno scrittore sempre attento alle nuove forme di comunicazione: abbiamo detto del fumetto, ma apprezzò i cartoni animati (disse di “stare dalla parte di Goldrake”), le nuove forme radiotelevisive e persino la pubblicità, nell’ambito della quale scrisse alcuni testi per la British Petroleum.
Non scordiamo, inoltre, l’influenza del surrealismo, movimento al quale Rodari si era avvicinato da giovane. Alcuni passi della “Grammatica della fantasia” sono ripresi dal primo Manifesto del Surrealismo del 1924 di Andrè Breton: si pensi al cosiddetto “binomio fantastico”, palesemente mutuato dal “sistema del fortuito incontro” di Breton.
E’ stato scritto che le sue invenzioni linguistiche sono state pari a quelle di Raymond Queneau. Che la sua raffinatezza di intellettuale è stata la stessa di Roland Barthes. Che la sua disponibilità al fantastico è stata molto simile a quella di J.M. Barrie, di Lewis Carroll.
Uno scrittore, soprattutto, di grande attualità. Che ha declinato il suo lavoro su due valori portanti: speranza e comunità. Il celebre paradigma gramsciano dell’ottimismo della volontà e del pessimismo della ragione è risolto in modo brillante da Rodari: nei momenti di crisi questa contraddizione ci deve servire per immaginare il futuro. “L’utopia non è meno educativa dello spirito critico. Basta trasferirla dal mondo dell’intelligenza a quello della volontà”.
Sempre, tuttavia, nell’ambito della comunità. Perché quando il momento è difficile occorre appellarsi
allo spirito solidale della comunità. Infatti, afferma Rodari citando una frase di Don Milani, “il problema degli altri è sempre uguale al mio, uscirne da soli è avarizia, uscirne insieme è la politica”. Quella vera, quella nobile. Quella ormai sconosciuta.
Per tutto questo credo sia importante ricordare Gianni Rodari.

Gianni Rodari
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Aboliamo le Regioni

Il giornalista, o forse sarebbe meglio dire il polemista Andrea Scanzi, sempre in prima fila a strepitare, con il suo modo spesso un po’ volgare, contro presunti furbi e furbetti è stato vaccinato ad Arezzo contro il coronavirus in forza della sua dichiarazione con la quale si è definito “caregiver” di genitori fragili da un hotel di Merano dove trascorreva una settimana di relax. Dopo l’istruttoria aperta dal Presidente della Regione Giani sarà ora la Procura della Repubblica di Arezzo a valutare l’eventuale sussistenza di irregolarità ovvero se si possa trattare soltanto di una notevole caduta di stile.
Nel frattempo a Napoli molti tra i collaboratori del Presidente De Luca hanno ricevuto la vaccinazione, superando una lunghissima lista di ultraottentenni e soggetti fragili. La cosa, in questo caso, appare formalmente ineccepibile, in quanto la stessa Regione Campania aveva previsto la vaccinazione di dirigenti e componenti dell’Unità di crisi, ancorché impegnati quotidianamente dietro a una scrivania di un appartato ufficio. Del resto fu proprio il Presidente De Luca tra i primi a farsi vaccinare in Italia ancora nel mese di dicembre.
La situazione è vergognosa un po’ ovunque. Già nel mese di gennaio Cristina De Rold, in un articolo pubblicato su “Il Sole 24 Ore”, stimava in oltre centomila i vaccinati che non rientravano nelle categorie indicate come prioritarie, ossia ospiti delle RSA, personale sanitario o socio-sanitario, e over 80.
A confermare che non tratti soltanto di una mia valutazione personale sono giunte ieri le autorevoli parole del Presidente del Consiglio Draghi, il quale ha affermato: “Per quanto riguarda la copertura vaccinale di coloro che hanno più di 80 anni, persistono purtroppo importanti differenze regionali, che sono molto difficili da accettare. Mentre alcune Regioni seguono le disposizioni del Ministero della Salute, altre trascurano i loro anziani in favore di gruppi che vantano priorità probabilmente in base a qualche loro forza contrattuale”
Mi duole ammetterlo, ma ancora una volta nel nostro Paese si evidenzia quella che si potrebbe definire la “sindrome di Schettino”, ossia l’irrefrenabile desiderio di porsi in salvo, a qualunque costo, prima degli altri e, il più delle volte, a discapito del prossimo.
Vi è tuttavia anche un’ulteriore constatazione evidenziata per l’ennesima volta dal disastro nel Paese in tema di vaccinazioni che segue una altrettanto deludente e sfaccettata gestione dell’epidemia.
Credo sia giunta l’ora di dirlo con chiarezza: tra le numerose riforme che si impongono nel nostro Paese ve n’è una particolarmente necessaria: l’abolizione delle Regioni, con la necessaria modifica del testo costituzionale.
Mi rendo conto d’essere voce isolata nel dire questo, eppure credo di interpretare un diffuso sentire, magari non esplicitato.
Negli anni le Regioni sono divenuto solo centri di potere e di affari, di appalti e di sottogoverno.
Serbatoi di potere e di clientele per i partiti.
Otto anni fa, nel 2013, la Corte dei Conti e la magistratura svolsero una inchiesta sui rimborsi spese di Presidenti, Assessori e consiglieri delle regioni italiane. Un’operazione allora definita “rimborsopoli”.
Sedici regioni su venti vennero travolte dalle indagini e i consiglieri interessati, in molte realtà, superarono il 60% degli eletti. Tra le spese rimborsate (e quindi pagate da noi contribuenti) figuravano tosaerba, campanacci per bovini, biancheria intima, biglietti per partite di calcio, cibo per gatti, pranzi di nozze, sushi…
Vi è quindi una “questione morale” ma, ancor più, una esigenza di razionalità ed efficienza.
Le Regioni hanno fallito il loro obiettivo.
Inoltre si basano su confini del tutto arbitrari, disegnati a tavolino nell’Ottocento da Pietro Maestri per quelle che lo stesso chiamava “compartimenti statistici” e non “regioni” e che nessun cultore di studi economici, etnici o ambientali ha mai definito tali.
Se volessimo riferirci a un concetto di territorialità dovremmo semmai guardare alle Province, messe in rete e comunque dipendenti da un unico potere centrale. Sono proprio le Province a ricordare l’Italia dei Comuni di antica memoria, quella fatta di piccole imprese, che funzionano perché legate a un territorio in modo reale e sano e non sulla base di costruzioni strumentali solo a guadagnare qualche voto, solo perché in contrapposizione con lo Stato.
Le Regioni, nell’attuale situazione, sono parodie dello Stato, per imitare un sistema federale che non esiste e che non ha ragione di esistere in Italia. Servono solo a limitare gli orizzonti e ad aumentare i cost senza alcuna efficienza: la frammentazione delle ferrovie, della sanità e della scuola ne sono gli esempi più lampanti.
E allora è così assurdo il sogno di abolirle?

Immagine dal quotiano Giudicarie.com
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8 marzo: nulla da festeggiare, molto su cui riflettere

8 marzo: Giornata internazionale della Donna.
Una ricorrenza, anche quest’anno, diversa dal solito.
Una giornata priva di quella pletora di orpelli e banalità che ne offuscavano il reale significato: nessuna mimosa, niente cene, nessun evento ludico.
L’assenza di questi paludamenti ci permette però di cogliere meglio i reali problemi sui quali occorre soffermarci, perché quella odierna è la Giornata della Donna, non la Festa, come vorrebbero esigenze commerciali.
Il primo di questi problemi è certamente la violenza che quotidianamente le donne subiscono. Undici vittime di femminicidio dall’inizio dell’anno. Una tendenza apparentemente inarrestabile: a partire dal 2000 le donne uccise in Italia sono state 3.344.
Oltre a quella estrema del femminicidio permangono molte altre forme di violenza sulle donne. Secondo un recente studio dell’Università di Padova, in Italia il 31,5% delle donne tra i 16 e i 70 anni ha subito una qualche forma di violenza fisica o sessuale nel corso della propria vita. Significa che sono circa 7 milioni le donne che, almeno una volta nella vita, sono state vittime di qualche tipo di violenza. 4 milioni e 353 mila donne hanno subito violenza fisica, 4 milioni 520 mila violenza sessuale, 1 milione 157 mila le forme più gravi della violenza sessuale come lo stupro (652 mila) e il tentato stupro (746 mila).
Dobbiamo anche riflettere sul rapporto tra la donna e il mondo del lavoro.
L’Eu Gender Equality Index ha certificato come il nostro rimanga “l’ultimo Paese in termini di divari nel campo del lavoro”. Lo scorso anno il tasso di occupazione femminile risultava ancora inchiodato al 50,1% (e con la pandemia è sceso di nuovo sotto questa soglia), marcando una distanza di ben 17,9 punti percentuali da quello maschile. I divari territoriali sono molto ampi: il tasso di occupazione delle donne è pari al 60,2% al Nord e al 33,2% al Sud.
In Italia, inoltre, il calo dell’occupazione femminile durante l’emergenza Covid è stato il doppio rispetto alla media Ue, con 402mila posti di lavoro persi tra aprile e settembre 2020.
Nel solo mese di dicembre dello scorso anno si sono persi 101 mila posti di lavoro: 99 mila di questi erano occupati da donne.
Rimane insopportabile anche la differenza di reddito tra generi: “L’Italia presenta oggi uno dei peggiori gap salariali tra generi in Europa”. Sono parole del premier Mario Draghi, il quale è stato chiaro nel suo discorso programmatico al Senato: il divario di genere in Italia deve essere una priorità e, fra le azioni da intraprendere, c’è quella di colmare la differenza di salario fra uomini e donne.
Vi è ancora quell’odioso e strisciante fenomeno del sessismo volgare e intimidatorio. Un atteggiamento pericolosamente diffuso e, purtroppo, non limitato a fasce limitate e marginali del mondo maschile.
Da quanto detto appare chiaro che non occorrono mimose o frasi melense che durino lo spazio di una giornata. E’ necessario un sostanziale cambiamento di mentalità ma soprattutto, nelle more di questo, occorrono precisi provvedimenti legislativi idonei a governare e accelerare questa trasformazione.
Per quanto riguarda il contrasto alla violenza si impone lo stanziamento in via prioritaria di finanziamenti adeguati per il contrasto alla violenza e l’elaborazione di soluzioni che permettano di fornire una risposta coordinata: i centri anti violenza e le case rifugio nel nostro paese sono poche e senza fondi. Uno studio dell’organizzazione WAVE (Women Against Violence Europe) ha mostrato come nonostante la Convenzione di Istanbul del Consiglio d’Europa prescriva che ogni Stato disponga di un posto letto in casa rifugio ogni 10.000 abitanti, nel nostro paese manchi l’87% del numero previsto.
E’ altresì necessario riformare profondamente la normativa del cosiddetto “codice rosso”, che si sperava potesse intervenire efficacemente sul tema e che, invece, si è rivelata un fallimento. Il problema è che si è fatta una mera enunciazione di principi, senza la necessaria copertura finanziaria. La legge, infatti, è a “invarianza finanziaria”, ossia non prevede ulteriori fondi. Va fatto tutto con le risorse che già ci sono – e che, la realtà ha dimostrato, non bastano. Non sono previste disponibilità per permettere alle procure di fare fronte ai tempi e ai numeri; non ci sono fondi per potenziare i Centri anti violenza, né per la formazione del personale che si ritrova a raccogliere la denuncia delle donna.
Così accade che, poche settimane fa, Clara Ceccarelli, una donna minacciata da tempo dal proprio ex compagno, si sia pagata il proprio funerale nella certezza di finire assassinata, cosa effettivamente avvenuta pochi giorni dopo.
Per quanto attiene la discriminazione in campo economico e del lavoro possiamo e dobbiamo far nostre le proposte provenienti dall’Europa, ben più lungimirante dell’Italia su questo tema. L’uguaglianza di genere e le pari opportunità per tutti, secondo le direttive UE, dovranno essere tenuti in considerazione nella preparazione e attuazione dei piani per la ripresa e la resilienza, che saranno presentati dagli Stati membri al fine di beneficiare delle risorse del Dispositivo per la ripresa e la resilienza Next generation EU con una dotazione finanziaria di 672,5 miliardi di euro, di cui circa 209 miliardi per l’Italia. Secondo quanto prevede il nuovo regolamento istitutivo del dispositivo, recentemente approvato in via definitiva da Parlamento europeo e Consiglio, i piani dovranno esplicitare le modalità con cui le misure dovrebbero contribuire alla parità di genere. Il Presidente Draghi ne è ben consapevole e l’ha posto tra gli obiettivi del governo nel suo intervento al Senato. Così deve essere.
Per quanto concerne l’ingiuria sessista occorre passare dal biasimo all’azione, anche legale. Occorre che tutti i protagonisti vengano perseguiti in sede penale. Così come è necessario che, laddove l’apparato pubblico possa intervenire direttamente, lo faccia. Per cui se un professore universitario si rivolge a una donna impegnata in politica non già dicendo che le sue tesi sono sbagliate e incompetenti (tesi peraltro condivisibile) ma apostrofando questa donna come “vacca” e “scrofa” deve subito essere subito sospeso dall’insegnamento, come fortunatamente avvenuto: non deve essere per lui possibile interfacciarsi con la platea studentesca, affinché non possa trasmettere la volgarità e lo squallore che alberga nel suo pensiero. Se un cosiddetto opinionista, peraltro straniero, non trova pensiero più intelligente che definire “escort” la moglie di un presidente sulla base di un pregiudizio (o – forse – di becera invidia) ci troviamo dinnanzi a un piccolo e insignificante uomo, che non deve più apparire alla televisione pubblica.
Più in generale qualunque soggetto insulti una donna con frasi sessiste, nella vita o sui social, deve essere perseguito penalmente e rispondere adeguatamente della sua meschinità.
Tutto questo in attesa di un nuovo pensiero diffuso, in cui la donna sia non già eguale ma naturalmente sinergica all’uomo, in un processo di armonioso sviluppo basato sulla eguaglianza e sul rispetto.
Che non è cosa di un giorno, ma conquista definitiva.
Dice un proverbio cinese che le donne sostengono la metà del cielo.
Ma io aggiungo che così facendo rendono migliore anche l’altra metà.

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Oggi dobbiamo ricordare: più che mai

Il 27 gennaio 1945, l’Armata Rossa aprì i cancelli di Auschwitz.

Per questo l’ONU, nel 2005, ha stabilito che in questa data venga celebrata la Giornata della Memoria, in ricordo della Shoah.

Il nostro Paese ha anticipato la decisione delle Nazioni Unite, istituendo questa giornata commemorativa nel luglio del 2000, al fine di ricordare le vittime, le leggi razziali e coloro che hanno messo a rischio la propria vita per proteggere i perseguitati ebrei, nonché tutti i deportati militari e politici italiani nella Germania nazista.

Ricordare l’Olocausto è oggi ancora più importante che in passato.

Innanzitutto per l’inesorabile venir meno degli ultimi testimoni in grado di riportarci testimonianze dirette.

Ma anche, e soprattutto, per il progressivo e inquietante risorgere di un pensiero antisemita che sempre più spesso si traduce in atti di intimidazione e di violenza.

Nel corso del 2020, secondo i dati dell’Osservatorio antisemitismo della Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea di Milano, sono stati ben 230 gli episodi di violenza e intimidazione contro il mondo ebraico in Italia. Con un’allarmante crescita rispetto ai 181 episodi del 2018, ai 64 del 2015 e ai 16 del 2012.

A questo dato bisogna aggiungere un permanente clima di sospetto e ostilità.

L’Istituto di ricerca Solomon, in collaborazione con Euromedia Research, ha effettuato uno studio sull’antisemitismo in Italia che ha prodotto dati poco incoraggianti. Il 16 per cento degli italiani si è dichiarata “non favorevole” all’ebraismo (per la cronaca il 14% è anche ostile al cristianesimo). Circa un italiano su dieci ritiene che gli ebrei dispongano di un eccessivo potere economico e finanziario, che non abbiano cura della società in cui vivono ma soltanto della loro cerchia religiosa, che si ritengano superiori agli altri e che siano causa di molti dei conflitti che insanguinano il mondo. E se solo due italiani su cento non credono nell’Olocausto, sono oltre il diciassette per cento quelli che ritengono che il genocidio sia stato ingigantito nelle sue proporzioni dagli storici (ovviamente su pressioni degli ebrei) oppure che dichiarano di non essere certi delle esatte dimensioni. Un’altra ricerca condotta da Vox ha verificato i sentimenti negativi verso gli ebrei nell’ambito degli elettorati dei diversi partiti, con un risultato ancora una volta poco rassicurante. La percezione del pericolo insito nell’antisemitismo è molto bassa in tutta le forze politiche, senza una grandissima distinzione tra elettorato di destra e di centrosinistra.

Le cose non vanno meglio nel mondo.

Negli Stati Uniti l’organizzazione complottista QAnon sta vivendo una fase di caos interno, legato alla mancata realizzazione delle loro “profezie” e alla delusione per la “resa” di Trump, visto ormai come un traditore.

Mentre i fondatori paiono essersi defilati, potrebbe realizzarsi un altro e più pericoloso scenario, prefigurato dal prof. Brian Friedberg, un esperto di tecnologia e discriminazioni dell’università di Harvard.

Friedberg ha spiegato che i suprematisti bianchi e i movimenti neonazisti potrebbero riempire il vuoto lasciato dal fondatore Q – che non ha ancora postato un messaggio dopo l’insediamento di Biden – per indirizzare la rabbia e le credenze dei seguaci di QAnon contro gli ebrei. Travis View, un giornalista che conduce il podcast più seguito sul movimento QAnon, ha fatto notare che ormai i suoi seguaci condividono molte teorie complottiste con l’estrema destra statunitense ed europea, fra cui la credenza che finanzieri ebrei controllino segretamente i governi di tutto il mondo.

Anche per questo dobbiamo celebrare con convinzione questa giornata, rileggendo le testimonianze di quel che accadde.

Dobbiamo riflettere su come sia stato possibile annientare ogni senso di umanità, non solo nei carnefici ma anche nelle vittime. In uno dei racconti del libro “Paesaggio dopo la battaglia”, dello scrittore polacco Tadeusz Borowskj, sopravvissuto ad Auschwitz, si narra che mentre una colonna di donne avanzava agitando le braccia e gridando “aiuto!”, perché condotte alle camere a gas, oltre diecimila uomini osservarono la scena nel più profondo silenzio e nell’inerzia totale. Una indifferenza che segnerà con un senso di colpa il resto della vita dei superstiti.

L’indifferenza e l’ignavia di tanti Paesi furono efficaci complici del genocidio. Ha scritto Georges Bensoussan, nella sua opera “Storia della Shoah”, che nelle alte sfere internazionali l’informazione era diffusa molto più di quanto si sia a lungo creduto. La conoscenza dei massacri di massa della popolazione ebraica è stata quasi concomitante con la loro esecuzione. Gli inglesi, intercettando e decriptando i telegrammi tedeschi, ne furono informati sin dall’inizio. Ma tennero segrete quelle informazioni fondamentali. Un comportamento altrettanto imperdonabile fu tenuto dagli Stati Uniti: il Governo americano disponeva di una conoscenza perfetta del genocidio (nel giugno del 1942, un rapporto ufficiale menzionava che «la Germania non perseguita più gli ebrei. Li stermina sistematicamente»). Tuttavia rifiutò di intraprendere qualsiasi azione concreta al fine di ostacolare la “soluzione finale”, come ad esempio il bombardamento delle linee ferroviarie che portavano ad Auschwitz. Parve a loro più importante, il 20 agosto 1944, il bombardamento una fabbrica situata a meno di 10 chilometri da Birkenau.

L’indifferenza coinvolse anche la popolazione comune, sia prima che – incredibilmente – dopo la liberazione. Racconta Edith Bruck, sopravvissuta a ben sette campi di concentramento nei quali fu successivamente trasferita: “Quando ero nei campi e lottavo tutti i giorni per sopravvivere, pensavo: «se ne uscirai viva il mondo ti chiederà perdono in ginocchio». E invece quando siamo tornati dai campi abbiamo scoperto con profondo dolore che il mondo continuava a tenere gli occhi chiusi, che non ci voleva vedere. Che eravamo soltanto un peso. Con mia sorella ci siamo dette «ma perché siamo sopravvissute, perché abbiamo lottato per la vita?». È stato un momento molto amaro. Eravamo molto sole”.

Hitler non fu un castigo di Dio: si limitò a sfruttare abilmente le gravi condizioni sociali createsi nel primo dopoguerra.

La Germania, infatti, uscì devastata dal conflitto mondiale. I debiti di guerra sommati alla crisi economica mondiale del 1929 minarono profondamente la stabilità dell’economia tedesca, bruciando i risparmi della classe media e provocando una massiccia disoccupazione. L’inquietudine sociale ed economica che ne seguì destabilizzò fortemente la giovane democrazia tedesca e portò alla nascita di molti partiti vicini alla destra radicale e populista. La classe più colpita dalla crisi fu la piccola borghesia, il cosiddetto ceto medio. Forse la vittoria dei nazisti, come sostenne Bloch a posteriori, poteva essere evitata. Ma allora il problema non era tanto la forza della destra, bensì l’incapacità delle forze democratiche di comprendere quanto stesse accadendo nel paese reale. L’errore strategico fu quello di non aver letto e interpretato la domanda di cambiamento della classe media impoverita, consegnandola alla propaganda nazionalsocialista.

Una situazione che, mutatis mutandis, rammenta quella odierna, soprattutto in Italia, con la profonda crisi economica creata dall’epidemia di Covid, la perdita di sicurezza della classe media, la disoccupazione destinata ad esplodere al termine del blocco dei licenziamenti e lo scivolamento verso la povertà di milioni di persone. Una classe politica culturalmente inadeguata e incline alle alchimie di un perverso bizantinismo meramente partitico e bottegaio rischia di lasciare aperta la strada a rigurgiti di violenza e di riflusso antidemocratico, potenzialmente veicolabili in apparati politici populisti tesi alla devastazione della pacifica convivenza civile. Occorre uno slancio alto verso una ricostruzione che sia al tempo stesso economica e morale. E’ necessario un utilizzo intelligente delle ingenti risorse economiche che l’Europa ci ha messo a disposizione, senza che le stesse vengano disperse in numerosi e inutili rivoli destinati a mere soddisfazione clientelari di breve respiro.

Accanto a questo sforzo è necessario ribadire con forza la adesione di tutti agli irrevocabili valori illuministici ed europei di fratellanza, di eguaglianza e di rifiuto di ogni discriminazione.

Oggi, quindi, è ancora più necessario ricordare il genocidio ebraico.

La Shoah fu una indescrivibile tragedia che deve continuare a interrogarci. Non possiamo scordare, né dobbiamo farlo, le immagini dei campi di sterminio. Dobbiamo inciderci nella mente le testimonianze di tanta disumanità, che non risparmiò neppure i bambini: furono oltre un milione e mezzo quelli che vi trovarono la morte.

Elie Wiesel, scrittore ebraico trasferitosi negli Stati Uniti dopo la fine della guerra, prigioniero ad Auschwitz, Monowitz e Buchenwald fra il 1944 e il 1945, ha raccontato l’impiccagione di un bambino insieme a due adulti: “I due adulti non vivevano più. La lingua pendula, ingrossata, bluastra. Ma la terza corda non era immobile: anche se lievemente, il bambino viveva ancora… Più di una mezz’ora restò così, a lottare fra la vita e la morte, agonizzando sotto i nostri occhi. E noi dovevamo guardarlo bene in faccia. Era ancora vivo quando gli passai davanti. La lingua era ancora rossa, gli occhi non ancora spenti. Dietro di me udii qualcuno domandare: «Dov’è dunque Dio?». E io sentivo in me una voce che gli rispondeva: «Dov’è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca…»”.

Ha scritto Elsa Binder, diciassettenne ebrea che viveva nella Polonia invasa dalla Germania nazista: “Non ridiamo più. Una parola divertente è abbastanza per farci sentire in colpa. Quando mi dimentico di me stessa per un attimo, quando canticchio o fischietto, mi appare immediatamente una processione di amici che non giocheranno o piangeranno più con noi”.

Oggi, ancora una volta e ancora più di prima, dobbiamo ricordare.

Oggi, più ancora di sempre, dobbiamo dire mai più!

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Ricordando Paolo Borsellino

Il 19 gennaio 1940 nasceva a Palermo Paolo Borsellino.

Borsellino era nato nella Kalsa, l’antico quartiere di origine araba di Palermo, zona di professori, commercianti ed esponenti della media borghesia.

Ancora ragazzo conobbe Giovanni Falcone, che abitava a poche decine di metri da lui e che gli fu compagno nella magistratura e, purtroppo, nella morte.

Si laureò in giurisprudenza a soli 22 anni, ma – sino al conseguimento della laurea in farmacia della sorella Rita – dovette occuparsi della farmacia del padre, scomparso improvvisamente a soli 52 anni.

Entrò quindi in magistratura, divenendo il più giovane magistrato d’Italia.

Dopo vari incarichi Borsellino, nel 1975, venne trasferito all’Ufficio istruzione del tribunale di Palermo. Fu allora che strinse un rapporto molto stretto con il suo superiore Rocco Chinnici, il quale, prima di essere ucciso nel 1983, istituì il cosiddetto “pool antimafia”, un gruppo di giudici istruttori che, lavorando in gruppo, si sarebbero occupati solo dei reati di stampo mafioso. Borsellino fu confermato nel pool anche dal successore di Chinnici, Antonino Caponnetto. A metà anni 80 Falcone e Borsellino istituirono il maxi-processo di Palermo, basato sulle dichiarazioni del pentito Tommaso Buscetta. Per ragioni di sicurezza furono costretti a trascorrere un periodo all’Asinara, insieme alle rispettive famiglie. Lo storico procedimento nell’aula bunker dell’Ucciardone portò, nel 1987, a 342 condanne.

La sua vita, a seguito delle condanne inflitte nel maxi-processo, divenne ogni giorno più a rischio, così come quella di Giovanni Falcone.

La mafia aveva ormai deciso la loro uccisione.

Anche il clima intorno ai magistrati antimafia cominciò a farsi pesante. Chiacchiere e critiche si insinuarono sempre più insidiose, giungendo anche da lidi insospettabili.

Leoluca Orlando accusò Giovanni Falcone di tenere nei cassetti prove contro i politici mafiosi. Lo stesso Orlando, sindaco di Palermo, nel corso di una puntata della trasmissione Sarmarcanda, condotta da Michele Santoro su Rai Tre, il 24 maggio 1990 lanciò un’accusa gravissima contro Orlando e Borsellino: “il pool ha una serie di omicidi eccellenti a Palermo e li tiene chiusi dentro il cassetto”.

Esasperato dalle insinuazioni, Falcone ebbe così a sfogarsi: “Non si può investire della cultura del sospetto tutto e tutti. La cultura del sospetto non è l’anticamera della verità, la cultura del sospetto è l’anticamera del komeinismo…Io sono in grado di resistere, ma altri colleghi un po’ meno. Io vorrei che vedeste che tipo di atmosfera c’è adesso a Palermo”.

Lo scrittore Leonardo Sciascia, dal canto suo, ebbe a scrivere, con riferimento ad una promozione ricevuta da Borsellino: “I lettori, comunque, prendano atto che nulla vale più, in Sicilia, per far carriera nella magistratura, del prender parte a processi di stampo mafioso”. L’intervento di Sciascia, pubblicato dal quotidiano “Corriere della Sera”, dette origine all’espressione “professionisti dell’antimafia”, che risultava essere il titolo dell’articolo.

Nel suo ultimo discorso pronunciato a Casa Professa, a Palermo, pochi giorni prima di essere ucciso, Borsellino, a proposito di quel testo di Sciascia, disse: “Dal momento in cui fu pubblicato, Giovanni Falcone cominciò a morire”.

E la morte di Falcone arrivò, il 23 maggio 1992, in quella che venne chiamata la strage di Capaci, nella quale, oltre al magistrato, persero la vita la moglie Francesca Morvillo e tre uomini della scorta.

Iniziarono, con la morte di Giovanni Falcone quelli che furono chiamati i 57 giorni di Paolo Borsellino, alludendo al periodo che intercorse dall’omicidio di Falcone al suo.

In quei 57 giorni Borsellino fu un “dead man walking”, un morto che cammina, e lo fu pubblicamente, alla luce del sole.

Borsellino sapeva di essere ormai nel mirino”, disse Antonino Caponnetto in un’intervista con Gianni Minà nel 1996, “soprattutto lo seppe negli ultimi giorni prima della sua morte. Il giovedì ebbe la comunicazione indubitabile… la certezza assoluta che il tritolo per lui era già arrivato a Palermo. Per prima cosa si attaccò al telefono, chiamò il suo confessore. Disse: puoi farmi la cortesia di venire subito? E appena quello lo raggiunse nel suo studio, disse: senti, per cortesia, confessami e impartiscimi la comunione”.

Da venti giorni Paolo Borsellino aveva chiesto alla questura la rimozione degli autoveicoli dalla zona antistante l’abitazione della madre. Inutilmente. E proprio una vettura lì posteggiata determinò la sua morte.

Era il 19 luglio 1992. In via d’Amelio, proprio sotto la casa della mamma del magistrato, i killer mafiosi fecero esplodere una Fiat 126 contenente oltre 100 chilogrammi di Tritolo. Nell’attentato persero la vita, oltre a Paolo Borsellino, gli agenti di scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.

A Palermo tutti sapevano che Paolo Borsellino sarebbe stato ucciso. Ha scritto sul quotidiano “La Stampa” Francesco La Licata: “Lo sapevamo noi giornalisti che frequentavamo il “Palazzaccio”, lo sapevano i palermitani che ne parlavano liberamente nei bar e nei salotti (più o meno “buoni”). Lo sapeva anche Paolo Borsellino che ne parlò apertamente, ossessionato dal timore di non riuscire «a fare in tempo»”.

Ricordare Paolo Borsellino, così come Giovanni Falcone, è doveroso.

Per il loro sacrificio, per i loro successi che hanno reso la mafia più debole.

Ma soprattutto per il loro esempio.

A loro e a tutti coloro che ancora oggi sono in prima fila nella lotta alla mafia ben si addicono i versi della poetessa bulgara Blaga Dimitrova: “Nessuna paura che mi calpestino, calpestata l’erba diventa sentiero”.

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Il lumicino della ragione

Impensabile, lo scorso 31 dicembre, immaginare un anno così terribile.I romani utilizzarono l’espressione “annus horribilis” per definire il 69 dopo Cristo, contraddistinto da 12 mesi di guerra civile e dal susseguirsi di ben quattro imperatori.Bagatelle, in confronto al 2020.L’irrompere improvviso di un nuovo virus ha sconvolto le nostre vite.Dopo un’iniziale fase di superficiale sottovalutazione – ricorderete a febbraio il virologo di fiducia di Fazio parlare di “rischio zero” per l’Italia – questa tragedia si è progressivamente dipanata in un crescendo inarrestabile.Ottantatre milioni di casi nel mondo. Oltre due milioni in Italia, con settantacinque mila vittime.Un’economia devastata. Due milioni di famiglie sul baratro della povertà assoluta e una consistente fetta della classe media che sembra in ginocchio. Uno scivolamento di un milione e mezzo di famiglie della piccola borghesia verso l’indigenza.Ulteriori aggravamenti sono prevedibili con la cessazione dell’attuale blocco ai licenziamenti. Complicanze alle quali faranno seguito ipotizzabili problematiche di ordine pubblico. Tutti – in qualche modo – siamo stati colpiti da questa tragedia.In molti hanno perso i loro cari e comunque tutti siamo stati toccati dal lutto e dal dolore.Tutti siamo scesi nella notte di un cupo Ragnarok, in cui inimmaginabili forze oscure hanno scatenano la loro cieca furia.Ci hanno abbandonato figure care e molti progetti e sogni si sono frantumati quali fragili scialuppe sulle aguzze scogliere del dolore.Per questo non ho pubblicato alcun augurio per Natale. Dentro di me risuonava cantilenante il celebre verso di Quasimodo: “E come potevamo noi cantare…”.Ora ci attende un nuovo anno: un confuso coacervo di inestinguibili speranze e di rassegnate disillusioni.Un incerto cammino verso una nuova forma di lontana normalità. Il vecchio mondo è finito. Dobbiamo accettare la sfida di percorrere sentieri nuovi e percorsi sin qui inesplorati.Auspicando di ritrovare i valori che si impongano sulla sbandierata povertà morale che ha reso irrespirabile l’aria del nostro quotidiano.Invocando l’educazione che superi ogni volgarità e sconfigga il latrato insopportabile di un ormai tracotante egoismo.Dobbiamo abbandonare i vecchi e consunti stereotipi di appartenenza che accompagnavano i giorni, facendo dei nostri pensieri uno stucchevole echeggiare di ridondanti banalità. Affidiamoci al dubbio e abbracciamo la ragione che – come amava dire Norberto Bobbio – non è un lume ma soltanto un lumicino. Unico strumento, tuttavia, per procedere in mezzo alle tenebre.Perché la sobrietà del pensiero si imponga sulle grida stridule delle paure scomposte.Perché cessi alfine quel penoso riflettersi soltanto nei propri bisogni e che lo specchio che ci poniamo dinnanzi divenga limpido vetro per osservare il mondo.Perché il soffio tiepido della cultura vinca la tetra ignoranza, semenza perenne della prepotenza più cinica e della più vile violenza.Accatastiamo pure i nostri scatoloni di dolore e di nostalgia: altrimenti non potrebbe essere. Ma sediamoci su di essi con accanto una persona con la quale guardare al futuro ed alla quale prendere la mano, affinché il cuore vi si addormenti.Abbiate un barlume di fiducia. Non nella natura, che è dolce e affettuosa solo nei film di Disney. Non nell’uomo, capace dell’egoismo più atroce.Ma in un oscuro disegno tracciato per ciascuno di noi. Lo coglieremo strada facendo, amando e proteggendo. Rendendo degna la vita.E allora, di nuovo, ci scopriremo a respirare. Perché la fine, a volte, sa farsi nuovo inizio.