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Il lavoro e il valore della vita

8 agosto del 1956. In Belgio, nella miniera di carbone Bois du Cazier di Marcinelle, scoppiò un incendio causato dalla combustione d’olio ad alta pressione innescata da una scintilla elettrica. Le fiamme, sviluppatesi inizialmente nel condotto d’entrata d’aria principale, riempirono di fumo tutto l’impianto sotterraneo, provocando la morte di 262 persone delle 275 presenti. Di questi 136 erano emigrati italiani, metà dei quali abruzzesi. Ben 22 originari del comune di Manoppello.
Quella mattina le gabbie degli ascensori avevano distribuito le squadre nei vari piani, fino a 1.035 metri sottoterra. Alle 8,10 un carrello uscì dalle guide e andò a sbattere contro un fascio di cavi elettrici ad alta tensione che, con criminale negligenza, risultava privo della rete di protezione. L’incendio divampò subito e si propagò con grande velocità. Ci volle un intero giorno per spegnere le fiamme e per cominciare a recuperare le vittime.
Potete immaginare l’angoscia e, con il passare delle ore, la disperazione dei familiari dei minatori accorsi alla miniera. A portar loro conforto arrivò anche il Patriarca di Venezia, Giovanni Battista Roncalli, futuro Papa Giovanni XXIII.
Quando le squadre di salvataggio cominciarono a recuperare i corpi non fu neppure possibile procedere al riconoscimento, in quanto i cadaveri erano anneriti e gonfi, spesso mutilati.
Moltissimi minatori italiani, abbiamo visto. Non solo a Marcinelle. Nel 1956, fra i 142 000 minatori impiegati in Belgio, .44 000 erano italiani.
Tutto ebbe inizio nel 1946.
In quell’anno il governo italiano e quello belga sottoscrissero un accordo in forza del quale l’Italia avrebbe mandato i propri disoccupati a lavorare nelle miniere belghe e, in contropartita, il Belgio avrebbe venduto al nostro Paese un certo numero di tonnellate di carbone a basso costo.
Erano anni difficili per l’Italia, uscita distrutta dalla guerra. Agevolare l’emigrazione era un modo – ancorché sbrigativo – per diminuire il numero dei disoccupati.
In Belgio era difficile trovare lavoratori disposti a lavorare nelle miniere, anche tra gli stranieri. Si trattava di un lavoro pesante e mal retribuito. Non a caso, negli anni precedenti, a tale attività erano stati destinati i prigionieri di guerra.
Lo “Statuto del minatore”, approvato dal governo belga nel febbraio 1945, da un lato prevedeva miglioramenti dei salari, pensioni, un periodo di ferie e case operaie, ma dall’altro anche multe e prigione per chi, essendo già stato minatore nel passato, rifiutasse di scendere ancora in miniera.
In tutti i nostri comuni vennero affissi manifesti in cui si parlava di questa opportunità di lavoro in Belgio. Naturalmente non venivano forniti dettagli, ma si magnificava il salario sicuro e le ferie garantite.
La realtà che trovarono i lavoratori italiani in Belgio fu ben altra cosa rispetto alle promesse dei manifesti: un lavoro durissimo e pericoloso, da affrontare senza alcuna preparazione specifica.
I candidati minatori vennero avviati da tutta Italia verso Milano, con tappa alla Stazione Centrale. Dopo aver superato le visite mediche e dopo un viaggio di 72 ore, venivano scaricati nelle stazioni del Belgio: non tra i viaggiatori, ma nelle zone destinate alle merci. Un altro trauma fu quello dell’alloggio: infatti la sistemazione avveniva in baracche di legno che erano state utilizzate per i prigionieri russi durante l’occupazione nazista. Campi di concentramento, insomma.
I lavoratori italiani dovevano fermarsi almeno un anno; qualora non avessero rispettato questi accordi sarebbero stati rinchiusi in campi di prigionia e, infine, rimpatriati.
Gli storici ricordano come, insieme ai centri di emigrazione, si sviluppò in quegli anni anche la rete dei trafficanti di migranti: individui privi di scrupoli, cooperative, società di spregiudicati che illegalmente reclutavano nelle campagne braccia e famiglie da destinare al fruttuoso business dell’immigrazione.
Nihil sub sole novum, come affermò Qoèlet duemilatrecento anni fa.
Nel dicembre del 1953, allorché i minatori italiani uccisi nelle miniere erano già più di 200, il governo italiano spinse quello belga ad aprire un’inchiesta sul lavoro in tali strutture. Ma le miniere erano già sul punto di chiudere per la crisi del settore e l’avvento del petrolio e le leggi del profitto volevano che si continuasse, per il poco tempo restante, a lavorare nella stessa maniera.
Così si giunse a quella mattina dell’8 agosto del 1956.
Scrisse il Corriere delle Sera in un editoriale del giorno seguente: “L’Italia può esportare dei lavoratori, ma non degli schiavi. Se il contegno dei datori di lavoro stranieri e l’atteggiamento egoistico degli stessi sindacati di quei Paesi costringono i nostri uomini a lavorare in condizioni di estremo e continuo pericolo, è doveroso intervenire in loro difesa anche sul piano politico e diplomatico”.
Il processo che seguì alla strage di Marcinelle si concluse, naturalmente, con l’assoluzione dei dirigenti della società mineraria. La responsabilità fu attribuita all’addetto alla manovra del carrello, un italiano morto nel disastro. Da Marcinelle alla Thyssen il percorso è sempre quello.
La tragedia ebbe una vastissima eco, facendo conoscere a tutti le condizioni proibitive del lavoro nelle miniere. Il governo italiano, incalzato dalle opposizioni, fu costretto a bloccare l’emigrazione verso il Belgio che iniziò a sostituire i minatori italiani con quelli spagnoli e greci.
Nel 1990 la miniera di Marcinelle venne classificata monumento storico, grazie alla pressione di un vasto movimento di opinione pubblica composto da associazioni di ex minatori e cittadini. Un memoriale in ricordo delle vittime fu inaugurato nel 2002, grazie ai finanziamenti della Comunità Europea.
Ricordare oggi la tragedia di Marcinelle significa non soltanto onorare la memoria delle vittime, ma sottolineare la necessità della sicurezza sul lavoro. Tema sul quale, occorre dirlo, molto resta da fare. Anzi: moltissimo.
Franco Bettoni, Presidente dell’Inail, ha presentato lo scorso 19 luglio a Montecitorio la relazione annuale dell’Istituto, affermando che “non è sufficiente indignarsi ma occorre agire. Le norme ci sono e vanno rispettate. È necessario un impegno forte e deciso di tutti per realizzare un vero e proprio ‘patto per la sicurezza’ tra istituzioni e parti sociali”.
Nei primi cinque mesi di quest’anno le denunce per infortunio sono già arrivate a quota 219.262 (erano 207.472 nello stesso periodo del 2020), le morti a 434 (432): significa che se la tendenza media dovesse confermarsi, a fine anno avremo quasi mille decessi e più di mezzo milione di infortuni.
Per questo ricordare oggi Marcinelle significa rendere omaggio a coloro che hanno abbandonato le loro case in cerca di una vita più dignitosa trovando, invece, la morte.
Ma significa anche rilanciare l’attenzione sul tema più generale delle vittime del lavoro.
Vuol dire auspicare nuovi modelli di sviluppo e di crescita, pur senza demonizzare il progresso e migliori stili di vita. Evitando patetici luddismi e pauperismi da salotto. Non dobbiamo auspicare la decrescita, ma una crescita qualitativa.
Significa, infine e soprattutto, ribadire che la vita umana vale più di ogni cosa.
Di un pugno di carbone ieri, del risparmio sulle misure di sicurezza oggi.

Foto de “Il Corriere del Ticino”
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19 luglio 1992: una data da non scordare

19 luglio 1992: una data indimenticabile per il nostro Paese.

Quel giorno, a Palermo, in via d’Amelio, l’esplosione di una Fiat 126 imbottita con oltre cento chilogrammi di tritolo uccise il giudice Paolo Borsellino e gli agenti di scorta: Agostino Catalano, 43 anni, Emanuela Loi, la prima donna poliziotto entrata a far parte di una squadra di agenti addetta alla protezione di obiettivi a rischio, Vincenzo Li Muli, 22 anni, Walter Eddie Cusina, 30 anni e Claudio Traina, 26 anni.

Una pagina tra le più tragiche nella storia del nostro Paese.

Quel giorno Borsellino e la moglie Agnese avevano trascorso alcune ore al mare, nella villetta di Villagrazia. Con loro anche un amico, Pippo Tricoli, docente dell’Università di Palermo. Quest’ultimo rivelò in seguito che Borsellino gli confidò di essere preoccupato per la sua vita. Alle 16,30, con la sua immancabile borsa di pelle, contenente anche la celeberrima agenda rossa, il magistrato salutò la moglie e il figlio Manfredi per andare a trovare la madre.

Alle 16 e 58 minuti, mentre Borsellino aveva appena suonato al citofono della mamma in via d’Amelio, l’autobomba esplose.

Da oltre venti giorni il magistrato, quasi avesse un presentimento, aveva sollecitato la questura affinché provvedesse alla rimozione delle auto in sosta dalla zona antistante l’abitazione della madre. La sua richiesta non fu presa in considerazione e così fu proprio una vettura posteggiata a provocare la strage.

Nei giorni che precedettero la strage Borsellino aveva osservato: ”tanta gente viene a farmi le condoglianze per la morte di Falcone, di sua moglie e degli agenti della scorta, ma io quasi ricavo la sensazione che questi miei interlocutori vedano in me la prossima vittima”.

Cinquantasette giorni prima infatti, a Capaci, era stato assassinato il suo collega ed amico Giovanni Falcone, insieme alla moglie Francesca Morvillo e a tre agenti della scorta.

Quel 19 luglio rappresentò un vulnus terribile alla credibilità dello Stato. Le generazioni che si affacciavano allora alla vita, ma non solo loro, videro annichilita quella fiducia nelle istituzioni che la scuola, la televisione e per i più fortunati la famiglia avevano provato a inculcare.

Noi oggi consideriamo “eroi” i giudici Falcone e Borsellino, ma non possiamo scordare che tali divennero soltanto dopo la loro morte. In vita erano stati vittime di veleni, sospetti e maldicenze tali da alimentare l’intreccio che portò alla loro fine. Vennero accusati di protagonismo, vanità, scarso senso dello stato. Anche da persone insospettabili, quali Leonardo Sciascia e Leoluca Orlando. Borsellino, non a caso, affermò che Falcone iniziò a morire dopo l’articolo di Sciascia sui “professionisti dell’antimafia”.

Nel dicembre 1987, alla chiusura del maxi-processo contro Cosa Nostra che portò a 360 condanne, il clima intorno ai magistrati divenne pesante. Il nuovo ministro della Giustizia Giuliano Vassalli, il 19 gennaio 1988, nominò Antonino Meli capo dell’Ufficio istruzione di Palermo, ignorando la candidatura di Falcone.

Meli cominciò subito ad assegnare a magistrati esterni al pool le inchieste di mafia, e sul tavolo di Falcone e dei suoi colleghi piovvero invece indagini per borseggi, scippi, assegni a vuoto. Borsellino provò a reagire. Dichiarò in un’intervista: “ci hanno tolto la titolarità delle grandi inchieste antimafia. Le indagini di polizia giudiziaria sono bloccate. La squadra mobile di Palermo non è stata ricostituita. Ho l’impressione di grandi manovre per smantellare il pool antimafia”.

Fu così che si giunse alle stragi di Capaci e di via Amelio del 1992.

In quel mese di luglio tutti a Palermo (e non solo!) sapevano che Paolo Borsellino sarebbe stato ucciso. Scrisse Francesco La Licata: “lo sapevamo noi giornalisti che frequentavamo il ‘Palazzaccio’, lo sapevano i palermitani che ne parlavano liberamente nei bar. Lo sapeva anche Paolo Borsellino che ne parlò apertamente, ossessionato dal timore di non riuscire a fare in tempo. Infatti Borsellino aveva fatto intendere di ‘aver compreso’. Certo non aveva in tasca nomi e cognomi delle menti criminali coinvolte, ma forse aveva intuito il senso di tutta l’operazione stragista, ordita da qualcuno un po’ più raffinato di Totò Riina, ma affidata ai macellai di Cosa nostra”.

La sua, come hanno raccontato alcuni pentiti, era una morte programmata da tempo, ma anticipata con una “premura incredibile”. I pubblici ministeri che indagarono sulla sua morte scrissero che la tempistica della strage fu certamente influenzata dall’esistenza e dall’evoluzione della cosiddetta trattativa tra uomini delle istituzioni e Cosa Nostra.

Borsellino sapeva di andare incontro alla morte.

Il 13 luglio, sconsolato, dichiarò: “So che è arrivato il tritolo per me”. Il 17, due giorni prima della strage, fra lo stupore di tutti salutò singolarmente i colleghi, abbracciandoli.

La decisione di uccidere Borsellino, come detto, fu “accelerata” da personaggi esterni alla mafia. Del resto, come affermato dal Procuratore di Palermo Francesco Lo Voi, “la mafia uccide raramente solo per vendetta”. Borsellino, che lo aveva capito, disse a sua moglie espressamente: “Sarà la mafia a uccidermi, ma quando altri lo decideranno”. Lo stesso Riina, intercettato durante un’ora d’aria mentre era detenuto, raccontò a un altro detenuto mafioso che l’omicidio del magistrato “fu una cosa decisa alla giornata, perché venne quello da me e mi disse subito, subito”. Chi era “quello”? Uno dei tanti misteri della storia italiana, uno dei più inquietanti.

Roberto Tartaglia, già pubblico ministero nel pool di Palermo e oggi consulente della Commissione Antimafia, ha affermato che l’accelerazione della strage di Via D’Amelio è cosa certa: i magistrati si convinsero che il giudice Paolo Borsellino potesse rappresentare un ostacolo alla prosecuzione della trattativa Stato-mafia.

Oggi alcune cose sono cambiate e la mafia ha scelto una nuova strategia. La nuova strategia, caratterizzata dalla rinuncia a clamorosi atti di sangue, lungi dal comportare la scomparsa della mafia, ne ha permesso l’ascesa economica e territoriale anche al di fuori dell’isola originaria. Agli omicidi eccellenti e alle bombe si sono sostituiti incentivi di natura finanziaria: la corruzione di pubblici ufficiali e professionisti, accompagnata da minacce in caso di resistenza. Con l’obiettivo di infiltrare l’economia legale del nostro paese, partecipando a gare d’appalto e a bandi europei. L’epidemia di coronavirus offre ai capitali mafiosi ulteriori possibilità di riciclo ed emersione, a causa dei problemi finanziari abbattutisi su negozi e imprese dal 2020.

Quel 19 luglio 1992, dopo l’esplosione che fu udita in tutta Palermo, Antonino Caponnetto disse mesto: “E’ tutto finito!”.

Ma così non era. Così non deve essere! La battaglia quotidiana contro la sottocultura mafiosa, anche quella attuale, basata sull’infiltrazione, deve rimanere il primo obiettivo della scuola, delle famiglie, delle istituzioni. Dobbiamo far nostre le parole dello stesso Borsellino: “la lotta alla mafia non deve essere soltanto un’opera di repressione, ma un movimento culturale e morale, che coinvolga tutti, specialmente le giovani generazioni, le più adatte a sentire subito la bellezza del fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e, quindi, della complicità”.

Lo stesso Antonino Caponnetto, negli ultimi anni della sua vita, girò l’Italia per raccontare nelle scuole la storia dei due eroi, affermando che “le battaglie in cui si crede non sono mai battaglie perse”.

Così è. Per questo ancora oggi Borsellino è vivo tra noi e continua ad essere un esempio.

Grazie Paolo.

Paolo Borsellino – Foto Huffington Post

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Un eroe da ricordare: Giorgio Ambrosoli

L’11 luglio 1979 veniva assassinato a Milano l’avvocato Giorgio Ambrosoli, una figura – purtroppo – ormai scordata dai più.
Era una tipica giornata estiva milanese, calda ma soprattutto afosa, in una città in attesa della pausa di agosto. Quella sera Ambrosoli, dopo aver trascorso qualche ora in compagnia di alcuni amici, li aveva accompagnati a casa. Al suo ritorno, appena sceso dall’auto, fu affiancato da una Fiat 127 rossa. Una voce domandò: “Avvocato Ambrosoli?“. Avutone conferma un uomo gli disse: “Mi scusi avvocato“. E sparò quattro colpi di pistola. Giorgio morì poco dopo, sull’ambulanza. L’assassino era da William Joseph Aricò, un killer conosciuto a New York come “Bill lo sterminatore”, ingaggiato dal finanziere Michele Sindona. Il quale, per questo, fu condannato all’ergastolo.
Ambrosoli era nato il 17 ottobre del 1933 a Milano da una famiglia di estrazione borghese e profondamente cattolica; il padre, pur essendo avvocato, lavorava in banca e l’educazione che offrì ai figli era fondata su profondi principi e su saldi valori. Durante il periodo degli studi Ambrosoli aderì a un pensiero profondamente liberale.
Laureatosi in legge all’Università Statale di Milano, non accolse il desiderio del padre, che sognava per lui un futuro in banca, e decise di dedicarsi anima e corpo all’avvocatura, specializzandosi in diritto fallimentare. Sposò Anna Lorenza Gorla, per tutti Annalori, conosciuta ai tempi dell’università, dalla quale ebbe tre figli di cui andò sempre fiero.
il 24 settembre 1974 venne chiamato dall’allora governatore della Banca d’Italia, Guido Carli, per fare luce sui castelli di carte e di inganni messi in piedi da Michele Sindona nell’ambito della Banca Privata Italiana, in stato di grave dissesto. Apparve fin da subito chiaro ad Ambrosoli quanto il finanziere siciliano si fosse mosso certo dell’impunità e, proseguendo nelle sue analisi, si convinse sempre di più dell’ampia libertà di manovra concessa a Sindona proprio dal sistema. Grazie alle carte che riuscì a collazionare e alle irregolarità e falsità che scoprì di giorno in giorno, Ambrosoli comprese i legami che Sindona aveva con la politica e con la massoneria deviata di Licio Gelli e della sua loggia P2. Complicità che coinvolgevano anche la mafia siciliana e alcuni settori della magistratura.
Fu in quei giorni che pronunciò una frase dal sapore profetico: «Sono solo». Un solo commissario liquidatore per un fallimento da centinaia di miliardi. Non era raro a quei tempi, ma neppure comune. E soprattutto era anomalo in quel caso, considerando le forze in gioco. Per i cinque anni successivi Ambrosoli, che all’epoca aveva 41 anni, fronteggiò Michele Sindona, personaggio potente e spericolato, con alle spalle una parte preponderante del potere.
Nelle indagini Ambrosoli non fece sconti a nessuno, non si lasciò mai intimidire e completò il suo lavoro nonostante gli avvertimenti e le minacce. Scoprì tutte le carte e i più sordidi intrecci.
Fin dai primi tempi tentarono di blandirlo, di convincerlo ad assumere un atteggiamento più morbido.
La strategia adottata per fermare Ambrosoli fu un autentico “crescendo rossiniano”. Dagli ammiccamenti si passò in breve ai messaggi intimidatori, alle visite in studio di strani personaggi, poi alle minacce a lui e ai suoi collaboratori.
Lo stesso capitò al maresciallo della Guardia di Finanza Silvio Novembre, suo unico collaboratore che gli fece volontariamente anche da guardia del corpo. Una sera, uscendo dal Tribunale, il maresciallo fu avvicinato da un ex collega che gli propone di lasciare l’indagine, congedarsi dalla Guardia di finanza e accettare un lavoro meglio pagato, perché “hai due bambine da crescere” e “tua moglie malata sarebbe curata meglio negli Stati Uniti”: ma Silvio Novembre, così come Ambrosoli, era un uomo di saldi principi.
La politica lasciò solo Ambrosoli, con l’unica eccezione del ministro repubblicano Ugo La Malfa. Non fu certo un caso che un uomo solitamente così prudente e misurato come Giulio Andreotti, dopo l’omicidio di Ambrosoli, ebbe la perfidia di dire: “Era uno che se l’andava a cercare”.
Non era un rivoluzionario, Giorgio Ambrosoli, e nemmeno un oppositore dei governi di allora. Ve l’ho detto: era un conservatore, profondamente cattolico, che aveva militato nella Gioventù liberale. Ma era prima di tutto un uomo delle Istituzioni, e per lui le Istituzioni erano da servire con il senso dello Stato, con il prevalere del bene generale sui conflitti di interesse, con il rispetto delle leggi, dell’etica pubblica e privata. Quando consegnò alla Banca d’Italia il primo frutto del suo lavoro accluse un biglietto per il governatore: “Con i migliori sentimenti di devozione per avermi dato modo di servire in qualche modo il Paese”.
Corrado Stajano definì Giorgio Ambrosoli, in un bellissimo libro-inchiesta, un “Eroe borghese”. Borghese perché non indossava divise e non aveva bandiere. Anzi, ne onorava una soltanto: il tricolore a cui era devoto.
Il 25 febbraio del 1975, dopo aver completato la ricostruzione dello stato passivo della Banca privata, Giorgio Ambrosoli scrisse alla moglie: “A quarant’anni, di colpo, ho fatto politica e in nome dello Stato e non per un partito… e ho sempre operato – ne ho la piena coscienza – solo nell’interesse del Paese […] Qualunque cosa succeda, comunque, tu sai che cosa devi fare e sono certo saprai fare benissimo. Dovrai tu allevare i ragazzi e crescerli nel rispetto di quei valori nei quali noi abbiamo creduto […] Abbiano coscienza dei loro doveri verso se stessi, verso la famiglia nel senso trascendente che io ho, verso il Paese, si chiami Italia o si chiami Europa. Riuscirai benissimo, ne sono certo, perché sei molto brava e perché i ragazzi sono uno meglio dell’altro.. Sarà per te una vita dura, ma sei una ragazza talmente brava che te la caverai sempre e farai come sempre il tuo dovere costi quello che costi […] Giorgio”.
Giorgio Ambrosoli venne lasciato solo anche il giorno del suo funerale. Nessuna autorità, nessun rappresentante di quello Stato per il quale l’avvocato milanese si era speso con coraggio, fino all’estremo sacrificio. La signora Annalori teneva per mano i suoi figli: una lezione di dignità e compostezza nel dolore. Unico presente il governatore della Banca d’Italia, Paolo Baffi, seduto nelle ultime file, come se si vergognasse dell’assenza di tutti gli altri rappresentanti delle istituzioni. Fu l’ennesima dimostrazione dell’isolamento di una persona per bene, alla quale lo Stato aveva richiesto un compito immane e pericoloso. Una solitudine che proseguiva anche dopo la morte.
Ha detto Ferruccio De Bortoli: “Ambrosoli ebbe la sfortuna di coltivare, con perseveranza ambrosiana e calvinista, un minoritario senso delle regole in un Paese allora palude di manovre, di vendette e di ricatti”.
Giorgio Ambrosoli: una persona, onesta, ferma. Un uomo che deve essere un modello e un esempio per il suo senso delle istituzioni, dello Stato, del bene comune. Oggi più che mai!
Il nostro Paese comincerà a cambiare quando saremo in tanti a ricordare Ambrosoli, imitandone il rispetto per l’onestà e le istituzioni repubblicane. Quando troveremo normale il sacrificio personale, anche estremo, per la difesa di tali valori civici.
Quando di tanti di noi si potrà dire: sono quelli “che se la vanno a cercare”.

Foto: Globalist Syndication

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Estate

Estate.
Con le sue notti indolenti e trepidanti.
Con la carezza di una luce che non vuole spegnersi, frantumandosi ostinata sulle pietre degli avi.
Una stagione di vita, di anniversari, di celebrazione di incontri.
Il sole si attarda sornione in un arabesco di frizzanti bagliori e sbeffeggia i fantasmi fuggevoli delle ombre ormai sconfitte.
La vita si fa sogno e, impavida, sfida paure che gemono come steli di grano piegati dal sole e schiaffeggiati dal vento.
Ogni attimo si fa nota di una sinfonia di pensieri che avvolge il futuro: una ode al noi, insieme e per sempre. Una magica trilogia di certezze conquistate.
Nel frinire dei campi la mano trema in una ricerca audace, sotto lo sguardo complice di occhi di giada.
S’attarda la vita, che né uomo né dio potrà strappare quali ali di lucciole argentate nel concerto di stelle.
E’ tempo di libellule che si fanno aquile. Di scintille danzanti e briciole di luna.
E’ tempo che i giorni si facciano luce.
E’ tempo di essere vivi.
Buona estate a voi.

Christian Købke – Roof Ridge of Frederiksborg Castle, 1834

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Il compleanno di Anna

12 giugno.
Anche quest’anno vorrei ricordare un compleanno.
Quello di una bambina che non è mai potuta crescere, che non ha conosciuto la pienezza della maturità, che non ha avuto la ventura di sperimentare lo scorrere del tempo che graffia il corpo con i sospiri della vecchiaia.
Dei pochi compleanni di Anna, perché così si chiamava la bambina, ve ne racconto uno in particolare: quello del 1942.
Era un venerdì, e Anna si trovava ad Amsterdam. Mi piace pensare che vi fosse un tiepido sole ad accarezzare il respiro dell’estate che si affacciava timida alle porte del cielo. Anche in Olanda, dove i papaveri si inchinano lieti al vento che sfiora i campi con leggera tenerezza.
Quel giorno Anna compiva tredici anni.
Tra i doni ricevette un diario, con la copertina a quadretti rossi. Per lei era il regalo più bello, perché Anna amava scrivere, lasciando fluire le parole a tessere emozioni in un ordito sapiente. Ricordava sempre che “la carta è più paziente degli uomini”. Non immaginava che le sue righe, un giorno, sarebbero divenute famose, lette con commozione da donne e uomini di ogni tempo e di ogni Paese.
Due giorni dopo il suo compleanno del 1942 Anna inaugurò il suo nuovo diario:
“Venerdì 12 giugno ero già sveglia alle sei: si capisce, era il mio compleanno! Ma alle sei non mi era consentito d’alzarmi, e così dovetti frenare la mia curiosità fino alle sei e tre quarti. Allora non potei più tenermi e andai in camera da pranzo, dove Moortje, il gatto, mi diede il benvenuto strusciandomi addosso la testolina. Subito dopo le sette andai da papà e mamma e poi nel salotto per spacchettare i miei regalucci. Il primo che mi apparve fosti tu, forse uno dei più belli fra i miei doni. Poi un mazzo di rose, una piantina, due rami di peonie; altri ancora ne giunsero durante il giorno. Da papà e mamma ebbi una quantità di cose, e anche i nostri numerosi conoscenti mi hanno veramente viziata. Fra l’altro ricevetti un gioco di società, molte ghiottonerie, cioccolata, un puzzle, una spilla, la Camera oscura, le Saghe e leggende olandesi di Joseph Cohen e un po’ di denaro, così che mi potrò comprare i Miti di Grecia e di Roma. Che bellezza!”
Anna, come tutte le ragazze, desiderava un’amica del cuore, a cui confidare i suoi innocenti segreti. Scrisse sul suo diario qualche giorno dopo:
“Ho dei cari genitori e una sorella di sedici anni; conosco, tutto sommato, una trentina di ragazze di alcune delle quali potreste dire che sono mie amiche. Ho dei parenti, care zie e cari zii, un buon ambiente familiare; no, apparentemente non mi manca nulla, salvo l’amica. Con nessuno dei miei conoscenti posso far altro che chiacchiere, né parlar d’altro che dei piccoli fatti quotidiani. Non c’è modo di diventare più intimi, ecco il punto. Forse questa mancanza di confidenza è colpa mia; comunque è una realtà, ed è un peccato non poterci far nulla. Perciò questo diario. Allo scopo di dar maggior rilievo nella mia fantasia all’idea di un’amica lungamente attesa, non mi limiterò a scrivere i fatti del diario, come farebbe qualunque altro, ma farò del diario l’amica, e l’amica si chiamerà Kitty”.
Il mondo era difficile in quegli anni. C’era la guerra. E il nazismo. Le truppe tedesche avevano invaso l’Olanda. Anna era ebrea. Non ve l’avevo detto? Perché avrei dovuto? Che importa? Purtroppo, per i nazisti, era invece maledettamente importante.
Anna, per non essere deportata, fu costretta a nascondersi, con i suoi genitori e un’altra famiglia, in due locali celati sopra gli uffici di una azienda. L’alloggio segreto, come lo chiamavano.
Un luogo dove ogni possibilità di osservare l’interno dell’abitazione era stata saggiamente preclusa dalle finestre oscurate. Nessuno doveva sospettare che quell’edificio fosse abitato. La ragazza e la sua famiglia trascorsero due anni in quegli angusti locali, senza mai uscire neppure una volta.
Grazie al suo diario abbiamo appreso tante.
Anna detestava la matematica, la geometria e l’algebra, mentre adorava la storia e le materie letterarie. Tra i suoi interessi personali vi erano la mitologia greca e romana e la storia dell’arte. Insieme a una grande passione per il cinema. Che, purtroppo, le era precluso nell’alloggio segreto. Non c’erano Netflix e Amazon allora!
Scrisse Anna sul suo diario nel Natale del 1943:
“Cara Kitty, credimi, quando sei stata rinchiusa per un anno e mezzo, ti capitano dei giorni in cui non ne puoi più. Sarò forse ingiusta e ingrata, ma i sentimenti non si possono reprimere. Vorrei andare in bicicletta, ballare, fischiettare, guardare il mondo, sentirmi giovane, sapere che sono libera, eppure non devo farlo notare perché, pensa un po’, se tutti e otto ci mettessimo a lagnarci e a far la faccia scontenta, dove andremo a finire? A volte mi domando: «Che non ci sia nessuno capace di comprendere che, ebrea o non ebrea, io sono soltanto una ragazzina con un gran bisogno di divertirmi e di stare allegra?»”.
Una domanda legittima, che mi ha sempre turbato nella sua ovvietà, come certamente scuoterà i vostri cuori.
La cattiveria, tuttavia, era in agguato: un infame, mai identificato, segnalò l’alloggio segreto alla Gestapo. Il 4 agosto 1944 le Schutzstaffel – le famigerate SS – irruppero nei locali, arrestarono le due famiglie e le condussero al campo di smistamento di Westerbork. Il 2 settembre tutti quanti vennero deportati ad Auschwitz.
Dopo un mese Anna e la sorella Margot furono trasferite a Bergen-Belsen, un campo di concentramento nella bassa Sassonia.
Nel marzo del 1945, neppure conosciamo il giorno preciso, Anna si ammalò di tifo, per le terribili condizioni di vita nel lager, e morì. Aveva 15 anni. Venne gettata in una fossa comune. Pochi giorni dopo le truppe britanniche liberano il campo. Troppo tardi per Anna.
Il generale inglese Glyn Hughes, dopo aver visto il campo di sterminio dove è morta Anna, disse in lacrime: “Sono stato medico per trent’anni ed ho visto tutti gli orrori della guerra, ma non ho mai visto nulla di simile”.
Alla fine della guerra fu ritrovato, nell’alloggio segreto, il diario di Anna.
Su di esso le ultime parole scritte prima dell’arresto e della deportazione: “È un gran miracolo che io non abbia rinunciato a tutte le mie speranze perché esse sembrano assurde e inattuabili. Le conservo ancora, nonostante tutto, perché continuo a credere nell’intima bontà dell’uomo. Mi è impossibile costruire tutto sulla base della morte, della miseria, della confusione. Vedo il mondo mutarsi lentamente in un deserto, odo sempre più forte l’avvicinarsi del rombo che ucciderà noi pure, partecipo al dolore di milioni di uomini, eppure, quando guardo il cielo, penso che tutto volgerà nuovamente al bene, che anche questa spietata durezza cesserà, che ritorneranno l’ordine, la pace e la serenità. Intanto debbo conservare intatti i miei ideali; verrà un tempo in cui forse saranno ancora attuabili”.
Credo che ognuno di noi debba rammentare queste parole, per respingere ogni forma di odio. Ogni titubanza e ogni attimo di indifferenza vissuto nella convinzione che tutto ciò non ci riguardi rappresentano cedimenti intollerabili verso la “spietata durezza” di cui ci parlava Anna.
L’odio anche oggi è presente: si insinua malignamente nel linguaggio e nella vita quotidiana. Non dobbiamo assuefarci a questa forma di barbarie: sappiate che non è mai innocua.
Per questo, anche quest’anno, ricordo il compleanno Anna.
Senz’altro lo avete capito: si chiamava Anna Frank.

Foto tratta da RuNet – Russia

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23 maggio: la memoria da non tradire

23 maggio 1992. Un sabato.
Alle 17 e 56, sull’autostrada che collega l’aeroporto di Punta Raisi con Palermo, un’esplosione aprì un grande cratere: sotto all’asfalto era stata piazzata mezza tonnellata di esplosivo, fatta saltare dal sicario della mafia Giovanni Brusca, acquattato sulla collina sovrastante.
Nello scoppio morirono il magistrato Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro.
Fu l’”Attentatuni”, il più importante della storia di Cosa Nostra.
I primi testimoni descrissero una scena di guerra, con ulivi centenari sradicati da terra e un intero pezzo di autostrada sostituito da una voragine.
Pochi mesi prima, il 30 gennaio 1992, si era concluso il maxiprocesso di Palermo, con numerosi ergastoli comminati a diversi boss mafiosi. Giovanni Falcone sapeva di essere nel mirino: l’assassinio di Giuseppe Montana e Ninni Cassarà, due tra i suoi più stretti collaboratori, era stato un messaggio inequivocabile.
Ancora oggi molti misteri aleggiano su quella strage che segnò profondamente la storia del Paese.
Poniamoci qualche domanda. Perché Falcone non è stato ucciso a Roma, dove spesso camminava senza neppure la scorta? Riina aveva inviato a Roma, non a caso, un commando omicida composto dai più qualificati killer mafiosi, salvo poi richiamare gli uomini a Palermo a seguito di un nuovo progetto. Perché? Secondo il pentito Spatuzza, Riina pronunciò queste parole: “Cambia tutto. Non c’è più solo la mafia”. Chi altro partecipò al progetto? Perché le motivazioni della strage di Capaci – come di quelle che seguirono –erano note solo ai massimi vertici di Cosa Nostra e neppure ai più fidati luogotenenti? Perché l’esplosivo utilizzato, oltre a quello consueto da cava, conteneva tracce di “Semtex” prodotto nella Repubblica Ceca e utilizzato solo in ambito militare? Perché una tecnica di realizzazione così spettacolare ma di difficile esecuzione? Non si è trattato di un’esplosione che ha coinvolto obiettivi fermi, ma auto lanciate ad oltre 170 chilometri orari, con precisione perfetta. Un’operazione alla portata di esperti appartenenti a squadre speciali militari perfettamente addestrate, non di picciotti della mafia!
Colui che avrebbe dovuto premere il telecomando, tale Pietro Rampulla, non partecipò all’attentato adducendo improvvisi motivi familiari. Vi sembra logico che l’esecutore principale possa mancare al più spettacolare attentato mafioso di tutti i tempi prendendosi… un giorno di ferie?
Nei pressi del cratere furono trovati guanti in lattice. Allora non era possibile, ma oggi si sono potute determinare sugli stessi le tracce genetiche, che appartengono a una donna. Una donna sul luogo della strage? Impossibile nello stile di Cosa Nostra. Chi era? Perché era sul posto?
E ancora: chi c’era a bordo dell’aereo misterioso che sorvolava il tratto Palermo-Punta Raisi nel giorno della strage? Testimoni lo raccontano in più fasi processuali. Perché uomini in mimetica si trovavano sul tetto della Mobiluxor, il mobilificio a ridosso dell’autostrada A29? C’è anche questo nei racconti, resi in più fasi processuali, di alcuni testimoni.
Tanti misteri, quindi. Per i quali esigere risposte adeguate.
Basta con l’Italia dei misteri, è necessario pretendere la trasparenza della verità.
La stagione degli attentati è terminata nel 1993, con le bombe a Firenze, Milano e Roma. A essa ha fatto seguito una fase di “inabissamento” voluta da Bernardo Provenzano – al vertice dell’organizzazione criminale siciliana fino al suo arresto nel 2006 – e tuttora in corso. La nuova strategia, caratterizzata dalla rinuncia a clamorosi atti di sangue, lungi dal comportare la scomparsa della mafia, ne ha permesso l’ascesa economica e territoriale anche al di fuori dell’isola originaria. Agli omicidi eccellenti e alle bombe si sono sostituiti incentivi di natura finanziaria: la corruzione di pubblici ufficiali e professionisti, accompagnata da minacce in caso di resistenza. Con l’obiettivo di infiltrare l’economia legale del nostro paese, partecipando a gare d’appalto e a bandi europei.
La mafia è oggi meno potente della ‘ndrangheta, ma conserva un ruolo cruciale nell’economia criminale del nostro paese anche in virtù dei suoi legami internazionali.
Il pericolo delle sue infiltrazioni, in termini di riciclaggio e di acquisizione di realtà economiche, è oggi ancora maggiore a causa della crisi innescata dall’epidemia.
L’Europa (ma in questo gli Stati Uniti non hanno dato una risposta migliore) non ha un piano per fermare il flusso di riciclaggio e usura che la pandemia ha generato. Le mafie approfittano della crisi per movimentare il proprio denaro più velocemente. Perché i controlli si sono abbassati: l’antiriciclaggio – inconfessata verità – può reggere quando ci si trova in una situazione economica positiva e sana ma quando manca liquidità, quando i consumi entrano in una spirale di crisi, il denaro torna ad essere utile a tutti senza sondarne l’origine. Quando manca il pane nessuno chiede da quale forno provenga: antica regola che le mafie conoscono benissimo.
Da anni le organizzazioni criminali sono ben inserite in tutto il tessuto economico europeo e non si stanno lasciando sfuggire l’occasione che la Covid Economy ha creato. Quell’economia, generata dalla pandemia, che porta enorme fortuna per pochissimi e il disastro per tutti gli altri. Per la realtà fatta di negozi, piccole imprese, alberghi, ristoranti, trasportatori, ludoteche, bar. L’Europa intera si deve porre l’obiettivo di difendere la sua economia reale.
Il giro d’affari delle organizzazioni criminali è immenso. Solo quelle italiane (di cui ci sono dati scientifici perché le più studiate) guadagnano cifre immense: la ‘ndrangheta circa 60 miliardi di euro all’anno; la Camorra tra i 20 e i 35 miliardi. Questo significa che la massa di denaro di cui dispongono è così grande che di certo non devono aspettare alcun recovery fund.
Per questo gli aiuti europei vanno monitorati, non dati a pioggia.
Ha giustamente affermato Mario Draghi che i fenomeni corruttivi rappresentano un grave pericolo di ingerenza criminale da parte delle mafie e un fattore disincentivante sul piano economico per gli effetti depressivi sulla competitività e la libera concorrenza.
Ci occorre una classe politica che, per una volta, si mostri all’altezza del momento che stiamo vivendo.
Vi è la necessità che i partiti tutti sappiano innanzitutto fare pulizia al loro interno, anche per non accentuare il distacco tra politica e paese reale. Pensate che, secondo un sondaggio curato da Demos nel novembre 2020, per l’83 per cento dei cittadini sono proprio i politici nazionali ad aver favorito l’espansione delle mafie in Italia, mentre per l’81 per cento i colpevoli sarebbero anche i partiti e i politici locali.
Una autentica mina per la democrazia rappresentativa.
Respingere le mafie, dare risposte concrete e rapide ai cittadini. Ripristinare la fiducia nella politica.
Questo, oggi, è il miglior modo per ricordare Giovanni Falcone.

Foto Rec News
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Ciao Franco!

Si è spento Franco Battiato, un maestro della musica italiana.

A volte sulla soglia dell’ermetismo, talora di una disarmante trasparenza, ha saputo evocare le più austere emozioni e i sentimenti meno gridati e perciò più tesi alla soglia dell’assoluto.

Credeva in una immortalità immanente che oggi ha raggiunto, lasciandoci tutti più soli.

Ti sia lieve la terra, Franco.

Franco Battiato
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10 maggio 1933: il rogo di Opernplatz

10 maggio 1933. Una data da non dimenticare.
Quella sera, a Berlino, nella piazza del Teatro dell’Opera, la “Opernplatz”, i nazisti organizzarono un gigantesco rogo nel quale bruciarono oltre 25.000 libri.
Altri analoghi eventi si svolsero in numerose città tedesche, ma quello di Berlino fu il più grande, poiché doveva essere un esempio per l’intero Reich. Una cerimonia sontuosa, con una coreografia quasi liturgica. Si prestò attenzione agli aspetti scenografici, alle musiche, ai canti. I libri da bruciare furono accompagnati al fuoco da una marcia alla quale presero parte i professori in toga, gli studenti e i soldati delle SA e delle SS. Una lugubre processione, una celebrazione del più becero oscurantismo.
La Germania hitleriana, dopo quella sera, divenne un deserto culturale. I pochissimi intellettuali che non espatriarono, come il filosofo Martin Heidegger, dovettero rassegnarsi al silenzio. Ma la gran pare di loro abbandonò il Paese.
Con i roghi di maggio Goebbels, da poco nominato ministro della propaganda, lanciò la sua campagna contro i libri “non tedeschi” e contro la cosiddetta “arte degenerata”. Fu l’avvio dell’imbarbarimento della vita culturale tedesca dopo l’avvento del regime nazista. L’intento dichiarato era quello di cancellare qualunque testimonianza degli intellettuali che nel XIX e XX secolo avevano dato sviluppo alla moderna cultura europea.
Durante il rogo Goebbels declamò alla folla isterica parole tragiche e ridicole al tempo stesso: “L’era dell’esagerato intellettualismo ebraico è giunto alla fine. Il trionfo della rivoluzione tedesca ha chiarito quale sia la strada della Germania e il futuro uomo tedesco non sarà un uomo di libri, ma piuttosto un uomo di carattere ed è in tale prospettiva e con tale scopo che vogliamo educarvi… pertanto fate bene, in quest’ora solenne, a gettare nelle fiamme la spazzatura intellettuale del passato”.
Nei roghi finirono migliaia di opere letterarie e artistiche di autori che, secondo il nazismo, avevano “corrotto” e “giudaizzato” una presunta “cultura tedesca” pura: gli scrittori Thomas Mann, Heinrich Mann, Bertolt Brecht e Joseph Roth. I filosofi Theodor W. Adorno, Herbert Marcuse ed Ernst Bloch. L’architetto Walter Gropius. I pittori Paul Klee, Wassili Kandinsky e Piet Mondrian. Gli scienziati Albert Einstein e Sigmund Freud. I musicisti Arnold Schönberg e Alban Berg. I registi cinematografici Georg Pabst, Fritz Lang e Franz Murnau. Insieme a centinaia di altri artisti e pensatori che avevano gettato le basi intellettuali dell’intera cultura del Novecento.
Era infatti la cultura occidentale quella che bruciava in quei roghi, in un’Europa divenuta impotente a difendere le sue opere e, negli anni successivi, i suoi cittadini.
Come si giunse a una simile declamazione di odio verso la cultura?
La principale ragione, come spesso accade, è da ricercarsi nell’economia, più precisamente nella grave crisi economica che aveva investito la Germania negli anni successivi alla conclusione della Prima Guerra Mondiale.
L’intero mondo si trovò in grave difficoltà alla fine degli anni ’20 del secolo scorso: un periodo culminato nel celebre “giovedì nero”, il 24 ottobre 1929, con il crollo della Borsa di Wall Street.
In Germania la debole Repubblica di Weimar attuò politiche deflazionistiche che portarono ad un aumento indiscriminato delle imposte e ad un aumento incredibile degli interessi. L’economia del paese andò al collasso. Il nazismo, una volta conquistato il potere sfruttando il malcontento dilagante, attuò una politica economica basata su di un forte incremento di spesa pubblica e su politiche monetarie espansive, ottenendo l’entusiastico e fanatico consenso di milioni di tedeschi. Hitler capì che l’utilizzo di strumenti tipicamente keynesiani, apparentemente paradossali per la sua visione, avrebbe determinato una crescita nel breve periodo e un forte consenso sociale. Un consenso che sarebbe aumentato se si fossero “divise” tra loro le persone più svantaggiate, creando miti e pericoli, veri o presunti, capaci di far sorgere nemici comuni ai quali attribuire ogni nefandezza possibile e dando vita a un clima di egoismo, di odio, di chiusura mentale e morale.
Odio ed egoismo: ecco l’humus ideale per cementare un consenso patologico.
Perché colpire i libri e la cultura?
Perché la cultura, e con essa i libri che la nutrono, rappresentano un’oasi di dubbio, il respiro del nuovo, una fonte di civiltà e tolleranza.
I libri sono i silos nei quali custodire le idee che possono germogliare e attecchire nella coscienza e nell’intelligenza degli esseri umani. Da loro fiorisce il senso critico e lo spirito di libertà, che è l’impulso creatore dell’intelligenza. I libri rendono fertile la ragione che, come diceva Norberto Bobbio, sarà solo un lumicino, ma è tutto quanto abbiamo per procedere nelle tenebre da cui siamo venuti alle tenebre verso le quali andiamo. Ecco perché la cultura è sempre considerata pericolosa da parte dei tiranni e dei demagoghi di ogni genere.
L’avversione verso la cultura è un denominatore comune per i regimi autoritari. Non a caso analoghe politiche di repressione culturale furono applicate dal regime staliniano nei decenni successivi. O dal regime dei khmer rossi di Pol Pot in Cambogia, dove i primi tra i milioni di cittadini sterminati furono proprio gli intellettuali, considerati parassiti irrimediabilmente contaminati dalla vecchia cultura e potenziali controrivoluzionari. Bastava possedere libri, oppure il semplice fatto di portare gli occhiali, per essere etichettati come insegnanti o studiosi e quindi essere fucilati. Oggi, non a caso, assistiamo ad analoghi atteggiamenti nella Turchia di Erdogan, dopo averli visti applicati dai terroristi dell’ISIS che, anch’essi, bruciavano libri e monumenti della cultura.
Dobbiamo ricordare tutto questo, in quanto viviamo giorni di profonda crisi economica, di diffuso impoverimento. Un periodo nel quale una insidiosa cultura dell’odio si diffonde nel mondo, ammorbando il comune sentire e coinvolgendo ogni dibattito, che diviene manifestazione di rancorosa polemica, complice anche una classe politica del tutto inadeguata e intenta solo a cavalcare un presunto consenso fatto di astiosa contrapposizione.
Un terreno propizio a tutti coloro che vogliono attaccare la democrazia e la libertà di pensiero e di critica, additando soluzioni semplicistiche.
Non dobbiamo delegare fiducia a boriosi capipopolo, né a presuntuosi soloni, latori di una verità specchio di narcisismo.
Bertrand de Saint-Vincent, in un suo editoriale sul quotidiano parigino “Le Figaro”, ha definito la cultura come “quel nutrimento per l’anima che la pandemia non deve cancellare”.
Sono d’accordo con lui, perché la prospettiva di essere lasciati, in futuro, senza cibo per la mente pare un incubo. Anche se, a qualcuno, potrà apparire un sogno.

Foto: Biblioteca del Tempo
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Non è amore

Lo slogan scelto per celebrare l’odierna giornata contro la pedofilia e la pedopornografia ricorda che “la pedofilia non è amore”.

Una frase talmente ovvia da risultare scontata.

Ogni reato ci indigna. Qualcuno più degli altri, perché basato su di una violenza radicata nel pregiudizio e nella sopraffazione, come lo stupro o il femminicidio.

Ma credo che nessun altro delitto susciti in noi tanto orrore quanto la pedofilia. Sarebbe sufficiente scendere in strada e chiedere ai passanti un giudizio sull’argomento per constatare come la richiesta di cosiddette “pene esemplari” sia diffuso più che per ogni altro reato.

Eppure…

Sì, c’è un eppure. Ci deve essere, altrimenti non si spiegherebbero i dati, horresco referens, riportati in questi giorni da fonti autorevoli.

Soltanto pochi giorni fa è stata scoperta e chiusa, nel darknet, la rete “Boystown”, una piattaforma digitale pedopornografica con oltre 400 mila iscritti nel mondo. Quattrocentomila! Solo questa!

Ma la situazione è in fase di peggioramento ovunque. Il maggiore utilizzo della rete nel corso della pandemia da parte dei bambini, sia per le lezioni scolastiche in video sia per mantenere il contatto con gli amici, ha elevato di molto il rischio di finire vittime di pedofili. Secondo il “Centro nazionale per il Contrasto alla pedopornografia online” sono proprio i reati di sfruttamento sessuale dei minori commessi con social network quelli con gli aumenti percentuale più evidenti. L’adescamento online di bambini di età inferiore a 9 anni è aumentato del 372%. E questo per una fascia di età che dovrebbe essere invece sempre al sicuro, protetta e tutelata.

Una recente ricerca condotta da “L’altro diritto”, un Centro di ricerca interuniversitario su devianza e marginalità, ci conduce in impensabili abissi. Lo studio ci racconta di realtà assurde, al limite dell’inenarrabile, quale la Chiesa pedofila cristiana, dove Dio è considerato un amante dei bambini. Questa “Chiesa” ha creato un sito dove “si ringrazia Dio per aver concesso delle relazioni intense con i minori”.

Oppure una associazione di donne pedofile, guidata da una 37enne belga, sposata con figli, e una olandese 46enne anch’essa madre. Le componenti di questa associazione (“all’infamia”, mi sentirei di dire, perché “a delinquere” è troppo poco!) rivendicano il diritto di poter vivere esperienze di relazioni sessuali con i bambini. Poiché il rapporto sessuale con un ragazzo preadolescente è fisicamente difficile, le donne pedofile utilizzerebbero ormoni o droghe che, iniettati nei testicoli di bambini di 6-7 anni, permetterebbero che l’unione sessuale avvenga con pieno soddisfacimento.

Nauseati? Anch’io.

In Olanda, nel 2005, è addirittura sorto un “partito dei pedofili”, denominato Nvd, abbreviazione in olandese di Carità, Libertà e Diversità. La loro tesi fondamentale è che devono essere i bambini stessi a decidere quando cominciare a fare sesso. Anche il resto del “programma politico” è un cumulo di follia criminale: “i bambini possono votare a partire da dodici anni. Fumare, fare scommesse e bere alcool è legale a partire da dodici anni. L’educazione sessuale anche pratica va fatta a partire dall’asilo”.

In tale occasione l’astronauta e astrofisico italiano Umberto Guidoni, allora Europarlamentare, rivolse una interrogazione alla Commissione europea invocando provvedimenti.

Quali misure per eliminare il fenomeno?

In alcuni Paesi, come Germania, Svezia, Danimarca, Norvegia e Francia, si usa la cosiddetta “castrazione chimica”. Si tratta della somministrazione di alcune sostanze che inibiscono la libido, evitando quindi il sorgere di pulsioni sessuali.

Ma si tratta di un rimedio temporaneo: cessata la somministrazione cessa l’effetto. Per di più, anche in corso di somministrazione, magari sotto il controllo delle autorità, gli effetti possono essere annullati mediante l’assunzione di farmaci ad azione opposta, quale – per esempio – il Viagra.

Anche secondo lo studio di un’Equipe dell’Istituto Mario Negri di Milano non vi è alcuna certezza che la castrazione chimica possa avere effetti veramente disincentivanti sulla violenza sessuale. Lo stesso Silvio Garattini, direttore dell’Istituto, notava che il problema della pedofilia nasce nella psiche di una persona, più ancora che non nei suoi livelli di testosterone.

Che fare, quindi? Immagino, per ora, la soluzione più semplice ma non per questo meno efficace.

Innanzitutto la prevenzione, che comporta anche informare i piccoli del pericolo.

Poi occorre destinare più uomini, soldi e tecnologie alle strutture di indagine sul problema.

Infine, ultimo ma non per importanza, il carcere duro per i pedofili, con misure di aggravamento della detenzione simili a quelle indicate nell’art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario.

Perché la pedofilia non è mai amore, ma solo orrore.

Giornata contro la pedofilia
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Primo Maggio

Quest’anno è necessario ridefinire e calibrare il senso della giornata del Primo Maggio.
Se già da tempo i mutati scenari occupazionali e sociali imponevano di uscire da una iconografia tipica della metà del secolo scorso, le conseguenze di quanto occorso in quest’ultimo periodo, contraddistinto dell’epidemia, rendono necessario un ripensamento radicale, che sappia restituire a questa festa il valore fondamentale che le compete.
Lo sorso 6 aprile l’ISTAT ha diffuso i dati relativi all’occupazione nel nostro Paese. Credo che le cifre siano elequenti, nella loro cruda drammaticità. Nonostante il blocco dei licenziamenti, a febbraio gli occupati in Italia sono stati 945.000 in meno rispetto allo stesso mese del 2020. In un anno sono crollati i posti a termine (-372mila) e gli autonomi (-355mila). Ma si sono persi anche 218mila dipendenti stabili. La diminuzione è stata più intensa per gli under 35. Il tasso di disoccupazione per i giovani fino ai 24 anni è salito al 31,6%. Sono anche aumentati di 717mila unità gli inattivi, cioè coloro che non sono occupati ma nemmeno cercano un posto.
Non va meglio a livello globale. In questo ambito ci soccorrono i dati forniti dall’ILO, Organizzazione Internazionale de Lavoro, l’agenzia specializzata delle Nazioni Unite sui temi del lavoro e della politica sociale. Secondo questo Ente la crisi economica e del lavoro causata dal COVID-19 potrebbe incrementare la disoccupazione nel mondo per almeno 25 milioni di persone. Queste si sommerebbero ai 188 milioni di disoccupati nel 2019. L’OIL stima che circa 35 milioni di persone in più si troveranno in condizioni di povertà lavorativa in tutto il mondo. Gli effetti della crisi sulle ore lavorate e sul reddito sono imponenti. Nel secondo trimestre del 2020, ad esempio, le stime aggiornate prevedono una riduzione, a livello globale, delle ore lavorate pari al 17,3 per cento: questa riduzione equivale a 495 milioni di posti di lavoro a tempo pieno. Questa crisi potrebbe avere un impatto maggiore su alcuni gruppi di lavoratori e lavoratrici, aumentando le disuguaglianze. Tra questi, le persone che svolgono lavori meno protetti e meno retribuiti, i giovani, i lavoratori anziani e le lavoratrici.
Il rischio è quello di passare rapidamente da una pandemia sanitaria ad una sociale.
Il virus, lungi da rendere migliore la società, ha semmai esasperato diseguaglianze e ingiustizie.
Dall’inizio della pandemia il patrimonio dei primi 10 miliardari del mondo è aumentato di 540 miliardi di dollari complessivi, che sarebbero più che sufficienti a pagare il vaccino per tutti gli abitanti del pianeta e ad assicurare che nessuno cada in povertà a causa del virus. È quello che emerge dal rapporto della confederazione internazionale di organizzazioni no profit, Oxfam, dal titolo “Il virus della disuguaglianza”, secondo cui le mille persone più ricche della terra hanno recuperato in appena nove mesi tutte le perdite causate dall’emergenza della scorsa primavera e anzi hanno iniziato ad accumulare altra ricchezza, mentre i più poveri per riprendersi dalle catastrofiche conseguenze economiche della pandemia potrebbero impiegare più di 10 anni.
Esistono società che ormai, per dimensioni economiche, possono competere con gli Stati sovrani. Il “valore” di Microsoft, oppure di Google, è pari a quello dell’intero Recovery Fund (NextGenerationEU). Quello di Amazon è superiore.
Vi sono settori passati con minori danni dalle misure limitative e contenitive di questi mesi e altre che sono state praticamente annientate.
Molte realtà economiche, soprattutto nell’ambito del commercio, difficilmente potranno avere un futuro, mentre la vendita di beni e servizi cosiddetti “online” ha ricevuto un impulso inarrestabile. Tuttavia questo tipo di commercio non porta indotto territoriale, ma centralizza gli utili, perlopiù in Paesi a tassazione agevolata.
L’immensa massa di denaro che l’Europa ha stanziato con il Recovery Fund, meglio definito come Next generation EU, come lo ha battezzato la Commissione europea, sono una occasione imperdibile, che tuttavia deve essere gestita con intelligenza e lungimiranza, con occhio profetico sul futuro e con la capacità di discernere le tendenze consolidate di sviluppo globale.
Credo che il “Piano nazionale di ripresa e resilienza”, presentato dal Presidente del Consiglio Draghi, abbia in sé molti elementi di questa visione profetica del futuro: l’attenzione ai giovani, le misure a sostegno dell’imprenditorialità femminile, il sistema di certificazione della parità di genere che accompagni e incentivi le imprese ad adottare politiche adeguate a ridurre il gap di genere, le ingenti misure destinate alle infrastrutture, soprattutto nel Sud.
Ma anche in tema di lavoro, argomento sul quale stiamo riflettendo, con i 22 miliardi destinati alle politiche attive del lavoro e della formazione, all’inclusione sociale e alla coesione territoriale.
Le linee guide sono state poste con grande correttezza. Non a caso il britannico Financial Times, non sempre indulgente verso il nostro Paese, ha scritto nei giorni scorsi: “L’Italia è diventata un modello europeo. Neanche tre mesi dopo la nascita del governo di Mario Draghi non solo la voce di Roma viene ascoltata forte e chiara a Parigi e Berlino, ma l’Italia sta sempre di più fissando l’agenda dell’UE dettandone i temi”.
Sempre che a rovinare tutto non ci si mettano, per l’ennesima volta, le forze politiche, partiti, partitini, listarelle e caravanserragli vari, intenti quotidianamente a berciare e a battere i piedi per una manciata di consensi in più da conseguire nello psichedelico mondo dei sondaggi.0
Oggi è il giorno di “rispolverare” il pensiero riassunto nella celebre frase di De Gasperi: “un politico guarda alle prossime elezioni. Uno statista guarda alla prossima generazione”.
Solo con questo spirito potremo guardare al futuro con maggiore serenità.
Solo con questi pensieri possiamo celebrare degnamente il Primo Maggio. Con meno bande, concerti e coreografie novecentesche. Ma con attenzione autentica e programmatica al lavoro, alla sua tutela e alla sua sicurezza. Contro la corruzione, la stupidità, gli interessi costituiti.

Angelo Morbelli – “Per 80 centesimi!”