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E’ appeso lì, a quella forca…

Il 27 gennaio 1945 l’Armata Rossa aprì i cancelli di Auschwitz.
L’ONU, nel 2005, ha stabilito che in questa data venga celebrata la Giornata della Memoria, in ricordo della Shoah, un terribile vocabolo ebraico che ci parla di orrore e dolore infinito. La parola Shoah è presente nel libro di Isaia 47,11: “Ti verrà addosso una SCIAGURA che non saprai scongiurare; ti cadrà sopra una calamità che non potrai evitare. Su di te piomberà improvvisa una CATASTROFE che non prevederai”.
Gli ebrei non furono le uniche vittime dei campi di sterminio, ma lo furono in modo speciale, immenso e tragico. Gli storici più accreditati, tra cui Raul Hilberg, ritengono che la cifra delle vittime ebraiche si aggiri tra 5.200.000 e 6.000.000.
Non fu neppure il primo genocidio della storia. Ad aprire il XX secolo fu quello degli armeni, operato dai turchi intorno al 1915 nell’indifferenza generale della comunità mondiale. Una tragedia che fornì lo spunto ad Adolf Hitler per il disegno di annientamento degli ebrei.
Sono passati quasi ottant’anni da quei giorni. Ma è ancora importante ricordare. Perché lungi dall’essere patrimonio di un passato sepolto, l’antisemitismo è ancora presente nella nostra società, dalle forme più eclatanti ed estreme, tese financo a negare la storia, sino a quelle più subdole che inzaccherano di microviolenza il nostro quotidiano.
Addirittura in crescita.
Secondo uno studio di autorevoli organizzazioni, tra cui il WZO, il 2021 è stato l’anno più denso di episodi di antisemitismo degli ultimi decenni. Proprio la pandemia, con i suoi osceni corollari di complottismo, ha accentuato un sentore di odio antiebraico mai sopito. Un odio che – non a caso – si è sempre nutrito delle più truci teorie del complotto, a partire dall’opera “I protocolli dei Savi Anziani di Sion” elaborata dalla Ochrana, la polizia segreta zarista, e mai rinnegata dal successivo regime staliniano.
Il sito dell’Osservatorio del Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea contiene una pagina in cui vengono elencati gli episodi di antisemitismo che avvengono nel nostro Paese. Scorrerla produce in noi un senso di crescente disagio. Danneggiamenti, vandalismi, scritte, aggressioni fisiche… Un tragico florilegio di orrore. Ancora due giorni fa, nei pressi di Livorno, un bambino di dodici anni è stato aggredito con insulti e sputi perché ebreo. L’aspetto che rende ancor più grave l’accaduto è che autrici del gesto sono state due ragazzine di quindici anni. Vien da chiedersi che educazione possano aver avuto in famiglia!
Oggi per noi è difficile anche il solo immaginare quanto accadde nei campi di sterminio.
Dobbiamo riflettere su come sia stato possibile annientare ogni senso di umanità, non solo nei carnefici ma anche nelle vittime. In uno dei racconti del libro “Paesaggio dopo la battaglia”, dello scrittore polacco Tadeusz Borowskj, sopravvissuto ad Auschwitz, si narra che mentre una colonna di donne avanzava agitando le braccia e gridando “aiuto!”, perché condotte alle camere a gas, oltre diecimila uomini osservarono la scena nel più profondo silenzio e nell’inerzia totale. Una indifferenza che segnerà con un senso di colpa il resto della vita dei superstiti.
Elsa Binder, diciassettenne ebrea che viveva nella Polonia invasa dalla Germania nazista raccontava che i superstiti non erano più in grado di ridere. Una parola divertente era sufficiente a suscitare un senso di colpa. Un semplice momento di serenità evocava una processione di amici scomparsi.
Questi ricordi dovrebbero indurre a riflettere quei laidi figuri che evocano il nazismo e la shoah dinnanzi all’obbligo di certificazione verde. Gli ebrei, negli anni ’40 del secolo scorso, non potevano sfilare per le vie di Berlino per protestare conto l’obbligo di indossare una stella gialla cucita sull’abito: erano troppo impegnati a morire nei campi di sterminio!
Ogni squallido paragone è tale da risultare offensivo per l’intelligenza umana.
Elie Wiesel, scrittore ebraico trasferitosi negli Stati Uniti dopo la fine della guerra, dopo esser stato prigioniero ad Auschwitz, Monowitz e Buchenwald fra il 1944 e il 1945, ha raccontato l’impiccagione di un bambino insieme a due adulti. Narrava che mentre I due adulti già erano morti, la terza corda non era ancora immobile perché il bambino viveva ancora. Lottò fra la vita e la morte per oltre mezz’ora, agonizzando sotto gli occhi degli altri prigionieri. Qualcuno domandò: «Dov’è dunque Dio?». E Wiesel rispose: «Dov’è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca…»”.
Che la nostra indifferenza e i blasfemi paralleli di qualcuno non ci inducano, ancora una volta, a uccidere Dio e la nostra residua umanità.

Foto: Associazione Figli della Shoah
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Eppure…

“Tutti gli anni sono stupidi. È una volta passati, che diventano interessanti”. Così diceva Cesare Pavese.
Questa massima, talora veritiera in passato, si palesa del tutto fuori luogo nelle attuali circostanze.
Gli ultimi due anni, lungi dall’apparire interessanti, si sono mostrati dolorosi, angoscianti e faticosi.
Ci hanno introdotto in una nuova dimensione, in una modalità di vita sin qui sconosciuta.
Ci è parso di avviarci verso un cupo Ragnarök, popolati di forze ataviche in preda a cieca furia.
Una pandemia, che sino a due anni fa sarebbe stata la trama di un b-movie, ha sconvolto il mondo con il suo sudario di morte e paura.
Gli oltre 144 mila contagi registrati oggi, ancorché mitigati da una diminuita letalità legata alla preziosa campagna vaccinale, ci rammentano che siamo ancora lontani dalla auspicata conclusione.
In molti hanno perso i loro cari e tutti siamo stati toccati dal dolore.
Abbiamo compreso come d’ora in poi il mondo non sarà più lo stesso e come il nostro stesso stile di vita diverrà inevitabilmente diverso.
La retorica pilotata e un po’ patetica dei primi giorni, con i suoi cori dai balconi, ci ha raccontato che ne saremmo usciti migliori. Così non è stato, ovviamente.
Ho talora la convinzione che questo periodo abbia, al contrario, evocato il peggio che è in noi.
L’egoismo più becero si è accompagnato al più esasperato individualismo in una pessima cacofonia morale. L’ignoranza ha urlato, l’insipienza si è fatta spettacolo e il livore è divenuto ordinario.
Vittima, come sempre, la ragione.
Eppure…
Ebbene sì, c’è un eppure.
Nonostante questo scenario il nostro Paese ha anche motivi di sussurrato orgoglio.
La reazione alla pandemia, con una organizzazione nella gestione dei vaccini che, a parte una minoranza di no vax a cui è stato dato anche troppo spazio mediatico, ci ha fatto diventare un modello a livello globale. Per la Germania, come ha riconosciuto Angela Merkel nel suo addio alla politica, e per tanti altri Paesi, tra cui gli Stati Uniti, dove la gestione pandemica è stata fallimentare.
Una ripresa economica in cui eravamo i primi a non credere.
Una credibilità internazionale di governo dopo anni di facili bisbigli contro di noi.
E’ significativo il fatto che il settimanale “The Economist” abbia nominato l’Italia il Paese dell’anno.
Un dettaglio: lunedì a New York – mentre la curva dei contagi spaventava i mercati – Zegna, con lo sbarco a Wall Street, convinceva il mondo. Lo stesso giorno, a pochi chilometri dalla Borsa americana, una biotech italiana, Genenta Science, chiudeva le contrattazioni al Nasdaq con la cerimonia della campanella. Prima quotazione di una start up italiana al listino tecnologico newyorkese. Due realtà che hanno entusiasmato gli Stati Uniti. E che forse ci rappresentano molto più di quanto riusciamo a percepire.
Dobbiamo partire da questo per costruire il futuro.
Accompagnando tuttavia una eccellenza sistemica con una nuova etica diffusa.
Ritrovando a livello individuale valori che si impongano sulla sbandierata povertà morale che ha reso irrespirabile l’aria del nostro quotidiano.
Costruendo una nuova educazione, etica e civica, che sappia vincere la volgarità e sconfigga il latrato insopportabile di un ormai tracotante egocentrismo.
Affidandoci al dono del dubbio e abbracciando la ragione che – come amava dire Norberto Bobbio – non è un lume ma soltanto un lumicino. Unico strumento, tuttavia, per procedere in mezzo alle tenebre.
Così sarà possibile ritrovare la sobrietà di pensiero, opposta alle grida stridule delle paure scomposte, e superare il penoso riflettersi soltanto nei propri bisogni.
Abbiate un barlume di fiducia. Non nella natura, che è dolce e affettuosa solo nei film di Disney. Non nell’indole umana, capace dell’egoismo più atroce.
Ma in un oscuro disegno tracciato per ciascuno di noi e che sapremo cogliere nel silenzio, assecondandone il respiro.
Lo comprenderemo strada facendo, amando e proteggendo.
Lo vivremo ogni giorno facendo nostro il pensiero stoico di Lucio Anneo Seneca, secondo cui ogni giorno è l’inizio di un nuovo anno, da propiziare con buoni pensieri che liberano l’animo dalle meschinità.
E allora, di nuovo, ci scopriremo a sorridere. Perché la fine, a volte, sa farsi migliore inizio.
Buon anno.

Auguste Renoir – Dance at Le Moulin de la Galette – Musée d’Orsay
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La tregua di Natale

25 dicembre 1914.
La Grande Guerra era iniziata da pochi mesi e ormai era svanita l’illusione di una “soluzione lampo”. I morti avevano già superato il milione.
Nel mese di novembre di quel 1914, dopo la conclusione della prima battaglia di Ypres, nelle Fiandre, la situazione giunse a un punto di stallo: la guerra di movimento cessò e il fronte si stabilizzò lungo una linea continua di trincee estesa dal Mare del Nord alla Svizzera, dietro le quali i contendenti si ammassarono a difesa.
Nel mese di dicembre piovve continuamene nelle Fiandre. I soldati tedeschi e quelli inglesi inviati in Europa camminavano nelle trincee invase dal fango, scivolando nella melma tra l’odore nauseante della decomposizione proveniente dalle vittime che non si potevano seppellire.
Venne quindi la sera della vigilia di Natale.
Proprio nelle trincee di Ypres, in Belgio, accadde qualcosa di straordinario.
I soldati tedeschi accesero le candele su migliaia di piccoli alberi di Natale improvvisati e cominciarono a cantare canti di Natale. I soldati inglesi risposero con un applauso, dapprima timido, poi sempre più scrosciante. Poi, a loro volta, cominciarono a intonare le proprie canzoni e i soldati tedeschi li applaudirono. All’alba di Natale ricominciarono i canti e gli applausi. Poi, dalla trincea tedesca, uscirono i primi soldati disarmati. I britannici emersero a loro volta dai ripari e si incamminarono verso i tedeschi.
Si incontrarono nel terreno tra le due trincee, scambiandosi piccoli doni: tabacco, bottoni, sigarette e souvenir. Furono addirittura scattate foto ricordo. I tedeschi portarono sigari e brandy, gli inglesi carne di manzo. E seduti intorno al fuoco i soldati festeggiarono insieme quel Natale, nel fango della zona deserta tra le due linee.
Fu addirittura organizzata una partita a calcio, uno sport che allora cominciava a diffondersi ovunque. Per la cronaca vinsero i tedeschi 3 a 2.
Sembra una favola, ma invece è realtà. Non ne parlarono le fonti ufficiali, perché poco in linea con lo spirito belligerante dei governi. Non ne scrisse la stampa, in una sorta di silente censura. Il primo a riferirne fu dopo qualche settimana il New York Times, forse perché giornale di un Paese allora neutrale.
Questa bella storia ci è stata tramandata dalle lettere dei soldati inviate alle famiglie.
Una vicenda che merita di essere ricordata, emblema di uno spirito natalizio che vince sul male, riaffermando la propria essenza incancellabile. Un vero “Canto di Natale” del ventesimo secolo: non più individualistico quale quello di Dickens, ma corale, così come corale è stato il Novecento.
Auguro a tutti voi un Natale simile. Una festa nella quale i dispiaceri, le preoccupazioni e i problemi del quotidiano possano essere accantonati con un abbraccio e, magari, con un piccolo dono, foss’anche un bottone.
Un Natale in cui si possa comprendere che non esiste un nemico invincibile, ma semplicemente “l’altro”.
Un’alterità che deve essere rispettata. Non è detto che si debba “amare” indistintamente ogni persona al mondo, compito – questo – lasciato ai santi. Ma certamente possiamo far nostri i doni del rispetto, della tolleranza, della giustizia.
Per rendere il Natale l’alba di un nuovo mondo. Per tutti.

Foto “Tempi”

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Una data da ricordare

12 dicembre 1969. Un venerdì pomeriggio. A Milano faceva freddo. Una tipica giornata dell’inverno meneghino di allora, con un’umidità che strigliava le ossa e una luce flebile nel plumbeo di un cielo disadorno.
Sant’Ambrogio era da poco trascorso e Natale si avvicinava in punta di piedi. In Piazza del Duomo i bambini passeggiavano avvolti in colorate sciarpe di lana, amorevolmente sferruzzate dalle nonne. Il profumo dei dolcetti stuzzicava l’attesa.
Un Natale semplice, in cui la recente povertà si avventurava incredula in un benessere sobrio e non urlato. Con meno luminarie ma più aspettative. Con la semplicità dei piccoli presepi accovacciati nel muschio.
Nella adiacente Piazza Fontana la sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura era ancora aperta e gremita di clienti, molti dei quali – a ragione del mercato del venerdì – provenivano da fuori Milano.
Verso le 16 e 30 i dipendenti osservavano l’orologio con il desiderio di chiudere la banca.
Alle 16 e 37 un potente ordigno esplose nel salone centrale della banca. Si trattava di sette chili di tritolo, chiusi in una valigetta sistemata sotto un ampio tavolo al centro del locale. Gli effetti furono devastanti: il pavimento fu squarciato, formando un’autentica voragine: diciassette persone restarono uccise e altre ottantotto furono ferite. La fossa creatasi, secondo i testimoni, era piena di corpi mutilati che bruciavano.
Non fu l’unico attentato di quella giornata. Qualche minuto prima, infatti, un altro ordigno era stato rinvenuto nella vicina sede della Banca Commerciale Italiana, in piazza della Scala. Tra le 16 e 55 e le 17 e 30, inoltre, altre tre esplosioni si verificarono a Roma: una, all’interno della Banca Nazionale del Lavoro di via San Basilio; altre due sull’Altare della Patria di piazza Venezia.
Una giornata terribile, che colpì al cuore il Paese, smarrito ed incredulo dinnanzi ad eventi che mai aveva sperimentato dalla fine della guerra.
Quel giorno prese il via il periodo più oscuro della storia italiana, caratterizzato da quella che venne definita “strategia della tensione”. Anni nei quali fu attaccata alle sue radici la democrazia, investita da una violenza mai sperimentata.
Quella di Piazza Fontana fu solo la prima di una infinita serie di stragi e attentati volti a scardinare l’ordinamento democratico: Piazza della Loggia, l’Italicus, la Questura di Milano, Peteano…. Sino all’orrore della Stazione ferroviaria di Bologna nel 1980.
Eventi terribili, ai quali si affiancò la defatigante serie di agguati e omicidi, con cadenza quasi quotidiana, commessi dalle Brigate Rosse e dai gruppi che le fiancheggiavano.
Un altro avvenimento, oggi pressoché scordato, ebbe luogo il 7 dicembre 1970.
Quella notte ebbe luogo il tentato colpo di stato organizzato da Junio Valerio Borghese. Un evento ormai scordato da tutti.
I pochi che ancora ricordano tendono a ritenerla una farsa da operetta messa in atto da quattro vecchi rimbambiti. Una versione simile a quella descritta da Mario Monicelli nel film satirico del 1973 “Vogliamo i colonnelli”, con Ugo Tognazzi maschera grottesca e ridicola.
In effetti un golpe organizzato con l’ausilio di 187 forestali ed alcune decine di estremisti poco credibile lo sembra davvero. Ma così non è.
La possibilità di un colpo di stato in Italia era stata telegrafata a Washington il 7 agosto 1970 dall’ambasciatore statunitense a Roma, Graham Martin. Quest’ultimo non considerò l’operazione “Tora-Tora” (come venne definita in codice) un’iniziativa di vecchi idealisti.
Il Fronte Nazionale, organizzazione di estrema destra diretta dal Valerio Borghese, ricevette cospicui finanziamenti, nell’ordine di miliardi di lire (che allora erano cifre impressionanti). Da chi? Non è mai stato accertato.
Il piano del golpe prevedeva l’occupazione del Ministero degli Interni, di quello della Difesa e della sede della Rai, insieme al rapimento del presidente della Repubblica Giuseppe Saragat e all’omicidio del capo della Polizia Angelo Vicari.
Al Viminale già dal pomeriggio, si erano insediati alcuni golpisti vestiti da operai.
Alle 22 e 30 giunsero davanti al ministero una cinquantina di estremisti di destra che entrarono nell’armeria, asportando i circa duecento mitra che vi erano custoditi. L’operazione fu favorita da alcuni emissari interni al ministero. Tra questi Salvatore Drago, uomo di Avanguardia nazionale, ma al tempo stesso legato al servizio segreto civile, alla mafia e alla loggia segreta P2, altrettanto attiva nel progetto eversivo. Le plurime appartenenze di Salvatore Drago sono lo specchio dell’articolazione nella quale si mosse questo tentativo.
Il colpo di Stato non fu portato a termine, perché Borghese ricevette una telefonata da qualcuno, sempre rimasto sconosciuto, che gli diede l’ordine di sospendere l’operazione.
Lo storico Aldo Giannuli dell’università di Milano ha recentemente dichiarato al Corriere della Sera: “il golpe Borghese non è stato capito e inquadrato correttamente: o è stato visto come una buffonata di quattro rimbambiti, oppure come un vero colpo di Stato fallito. La verità sta nel mezzo: le persone coinvolte erano tante, ma non bastavano per instaurare un regime militare». In ogni caso il rischio che si sparasse sulle strade e che ci scappasse qualche centinaio di morti è stato reale.
Esiste un termine spagnolo per definire quanto accadde la notte del 7 dicembre 1970: è la parola “intentona”, ossia una specie di colpo di stato virtuale che serva da avvertimento.
Una notte, quella del 7 dicembre del 1970, rimasta avvolta dal mistero e ormai dimenticata.
Liquidata anche dalla Cassazione nel 1986, con una sentenza secondo la quale “La Corte ritiene che i clamorosi eventi della notte in argomento si siano concretati in un conciliabolo di quattro o cinque sessantenni”.
Ben diverso il parere della CIA. Nei documenti recentemente desecretati si legge che il Dipartimento di Stato statunitense era perfettamente a conoscenza del tentativo di colpo di stato, ritenendo che il fallimento fu imputabile essenzialmente al rifiuto dei Carabinieri di aderire al progetto.
La CIA attribuì al Vaticano il ruolo decisivo nel bloccare l’operazione eversiva.
Altri tempi, ci verrebbe da pensare. Parlare oggi di golpe e di carri armati per le strade parrebbe irrealistico. Ma non illudiamoci.
Allora lo spirito democratico era solido e tenacemente diffuso tra la gente.
Oggi ritengo che la democrazia, e non solo nel nostro Paese, sia molto più fragile.
Non solo perché ritenuta meno essenziale – come dimostrato da un’indagine demoscopica a livello europeo dell’Università di Cambridge – ma perché data troppo spesso per scontata. Con il paradosso creato da chi, denunciando improbabili regimi, in realtà li evoca.
Oggi non occorrerebbero più mezzi blindati. Sarebbe sufficiente “pilotare” le opinioni, condizionando i comportamenti. Cosa resa facile dall’enorme diffusione dei social. Consideriamo che un controllo sostanziale di questi mezzi, così come di altri settori nevralgici dell’economia globale, è oggi in mano a tre fondi (Vanguard, BlackRock, Wellington) che valgono, insieme, 14.500 miliardi di dollari, ossia, per rendere l’idea, il PIL italiano moltiplicato per dieci.
Nulla di illecito, si intende. Ma che rende necessario un attento monitoraggio e opportune regole certe. Senza le quali la nostra democrazia sarà sempre più fragile. Anche senza carri armati per le strade.

Foto di Fondazione Ugo Spirito

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Ricordate questa foto!

Guardate questa foto. E ricordatela.

Rammentatela domani, quando l’onda retorica del 25 novembre vi sommergerà in un profluvio di immagini e di belle frasi erroneamente attribuite.

Ma soprattutto tenetela presente quando udirete le roboanti e indignate dichiarazioni dei partiti politici e dei loro leader, tutti affratellati dallo sdegno per la violenza sulle donne.

Perché quando si tratta di impegnarsi realmente in tale direzione la risposta è tutta in questa foto, scattata ier l’altro, il 22 novembre.

La Ministra per le Pari Opportunità Elena Bonetti, vestita di rosso, mascherina compresa, perché il rosso è il colore scelto per la Giornata contro la Violenza sulle donne, illustra alla Camera una mozione sull’argomento, enunciando alcune importanti misure a sostegno delle vittime, tra cui il microcredito di libertà e il reddito di libertà.

Peccato che su 630 deputati siano presenti in 8!

Un sintomo profondo del disinteresse della politica per un tema che è divenuto solo strumento di propaganda e palestra di retorica.

Quando Elena Bonetti ha scandito, ad alta voce, che sono 108 le donne vittime di femminicidio quest’anno, l’eco della sua voce nell’aula vuota è divenuta un “j’accuse” irrevocabile verso un’intera classe politica.

Non sto facendo del facile qualunquismo.

Non si tratta di porsi contro il sistema basato sulla democrazia parlamentare che, al contrario, è il miglior metodo di governo ad oggi conosciuto.

Non si tratta di criticare il metodo democratico, ma di bollare di incapacità, egoismo e inefficacia la classe politica che incarna questo sistema.

Non è il metodo da cambiare, ma le persone che lo incarnano oggi.

Per questo non dobbiamo scordare questa foto!

Foto “Il Messaggero”
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Non solo il 25 novembre!

A Reggio Emilia Juana Cecilia Hazana Loayza, una donna di origini peruviane, è stata trovata morta in un parco pubblico. Sul collo aveva un’ampia ferita da arma da taglio. A infliggerla sarebbe stato Mirko Genco, ventiquattrenne di Parma, che da tempo perseguitava la donna.
A Sassuolo, poche ore prima, Nabil Dahir aveva barbaramente ucciso la sua ex compagna Elisa Mulas, la mamma della donna, Simonetta Fontana, e i due figli di 2 e 5 anni.
Lo stesso giorno Anna Bernardi è stata uccisa dal marito nella loro casa: dopo averle tagliato la gola l’uomo ha provato a togliersi la vita, Senza riuscirci.
Potrei proseguire per molte pagine. Quelle necessarie a contenere i nomi e le storie delle 108 vittime di femminicidio nei primi dieci mesi del 2021.
Sono consapevole che se parlerà a lungo tra pochissimi giorni, il 25 novembre, giornata contro la violenza delle donne.
Ma sono altresì convinto che proprio la pletora di commemorazioni e l’onda lunga di addolorato sdegno dettato dalla ricorrenza rendano il tema tanto solenne e liturgico quanto destinato a svanire il giorno dopo nell’oblio del quotidiano.
Per questo scrivo queste considerazioni oggi, in una data diversa da quella destinata alla commemorazione, nella speranza che la riflessione sia più attenta e meno scontata.
108 vittime in 11 mesi: una donna morta ogni tre giorni. Stando ai dati del Viminale 96 omicidi sono stati commessi in ambito familiare e 68 donne sono state uccisa da partner o ex partner.
Mentre il totale degli omicidi in Italia, nel corso degli ultimi 5 anni, è diminuito del 28%, il numero dei femminicidi è invece notevolmente aumentato. Questi ultimi, rispetto al totale delle uccisioni, sono infatti aumentati dal 35 al 44 per cento. Ormai quasi un omicidio su due, in Italia, è un femminicidio.
Nonostante le tante “panchine rosse” si rischia ormai, proprio per la frequenza del crimine e l’assuefazione allo stesso, di rendere invisibili le vittime, con un faro che ormai si accende solamente il 25 novembre, con una ritualità che si insinua stancamente nella rassegnazione.
Che fare per arginare questa tragedia?
Innanzitutto dobbiamo ragionare in termini di adeguamento giuridico.
E’ vero che, nel corso degli ultimi anni, alcune novazioni sono state introdotte, dalla legge del 2013 al cosiddetto codice rosso del 2019, ma i risultati ancora non si vedono.
Se è vero che – come risulta dai dati pubblicati dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla violenza sulle donne – il 63% delle vittime non aveva mai denunciato le violenze subite, è tuttavia triste che coloro che lo hanno fatto ne abbiano tratto ben poco beneficio.
Si tratta, in prima istanza, di una mancata “formazione” del personale deputato a raccogliere le denunce e ad assumere i provvedimenti conseguenti.
Leggendo la relazione della Commissione cogliamo perfettamente, in molti casi, un modo di ragionare che ci proietta indietro nel tempo. In molti piccoli centri, in cui dovrebbe essere proprio il fattore della conoscenza personale ad aiutare nella lettura della violenza e del rischio, alcune delle donne uccise hanno chiesto aiuto alle forze dell’ordine rappresentando la paura e la difficoltà di denunciare o la presenza di armi e sono state dissuase dal farlo, sono state rassicurate e rimandate a casa. In alcuni casi le forze di polizia, non distinguendo tra violenza domestica e lite familiare, nonostante il tangibile terrore della donna, si sono limitate a “calmare gli animi” (come si legge testualmente nei verbali).
Ai pubblici ministeri la Commissione rimprovera invece una difficoltà a riconoscere la violenza nelle relazioni intime e una non adeguata conoscenza dei fattori di rischio.
Anche qui si tratta di un problema di formazione. Un giudice deve cogliere segnali, decodificare comportamenti, inoltrarsi nei risvolti psicologici di chi agisce con violenza. Allora saprà valutare meglio il rischio che corre la donna e di conseguenza prendere provvedimenti adeguati. Il che non sempre significa affidarsi alla mera applicazione del diritto, perché agire secondo legge non sempre basta a scongiurare il peggio,
Dobbiamo a mio parere giungere, in caso di comportamenti persecutori verso la donna, al “braccialetto elettronico”, oggi impossibile in quanto serve il permesso dell’interessato e non esiste alcuna norma che indichi il carcere quale alternativa a tale strumento.
Ma aldilà dell’aspetto normativo è essenziale anche una svolta culturale. La relazione della Commissione Parlamentare ha rilevato alcune problematiche persino nel linguaggio usato nelle sentenze e nelle molte archiviazioni. Spesso la pregressa condotta violenta dell’uomo viene definita “relazione burrascosa, tumultuosa, turbolenta, instabile…”, anche a fronte di precedenti denunce della vittima per gravi maltrattamenti. Le vittime di femminicidio vengono spesso chiamate per nome, gli imputati per cognome, così generando una discriminazione anche linguistica, non giuridicamente giustificabile. Le vittime non sono descritte rispetto al loro contesto sociale e professionale, ma indicate come madri, mogli e figlie, cioè rispetto al loro ruolo familiare. Infine quando svolgono attività di prostituzione vengono chiamate prostitute e non con nome e cognome, così stigmatizzandole in partenza.
Ma il vero nucleo di cambiamento culturale è rappresentato dal binomio scuola e famiglia, laddove devono essere eradicati stereotipi arcaici ma pericolosi ancora presenti per creare una nuova visione di genere basata su rispetto e uguaglianza.
Molte scuole si stanno attivando per realizzare progetti promossi dal Dipartimento delle Pari Opportunità e finanziati dalla Commissione Europea per prevenire la violenza sulle donne. L’educazione alla parità tra i sessi e alla prevenzione della violenza di genere deve entrare a far parte del Piano dell’Offerta Formativa di ogni istituto e investire in maniera trasversale tutte le discipline, anche mediante la scelta oculata dei libri di testo.
Sono queste le iniziative necessarie a combattere la piaga del femminicidio.
Senz’altro più efficaci delle panchine rosse inaugurate ogni 25 novembre, in una giornata per molti sconfinata nella retorica.

Foto di Canal de Denúncias

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Kristallnacht e il muro

La notte tra il 9 e il 10 novembre del 1938 si verificò un’ondata di violenza antisemita che si propagò in tutta la Germania, nell’annessa Austria e nella regione dei Sudeti della Cecoslovacchia, da poco occupata dalle truppe tedesche.
In tutto il Reich tedesco centinaia di sinagoghe furono attaccate, soggette ad atti di vandalismo, saccheggiate e distrutte. Molte furono date alle fiamme. Ai vigili del fuoco fu ordinato di lasciar bruciare le sinagoghe, ma di evitare che le fiamme si propagassero agli edifici vicini. Le vetrine di migliaia di negozi ebrei furono distrutte e la merce rubata. I cimiteri ebraici furono profanati. Molti ebrei furono attaccati da squadre di truppe d’assalto (SA).
Venne in seguito chiamata “la notte dei cristalli”, dalla parola tedesca Kristallnacht, espressione che deve il suo nome alle schegge dei vetri frantumati che tappezzavano le strade tedesche all’indomani del pogrom e che provenivano delle finestre delle sinagoghe, delle case e delle vetrine dei negozi di proprietà di ebrei e che erano stati saccheggiati e distrutti durante i disordini.
Il governo nazionalsocialista dichiarò nei giorni successivi che la Kristallnacht era stata la reazione emotiva dell’opinione pubblica all’assassinio di Ernst vom Rath. Vom Rath, un funzionario presso l’Ambasciata tedesca di Parigi, assassinato in un attentato il 7 novembre da Herschel Grynszpan, un diciassettenne ebreo polacco. Ma non era andata così. Gli atti di violenza furono istigati soprattutto dagli ufficiali del Partito Nazista, dai membri delle SA e dalla Gioventù hitleriana. Nonostante l’apparenza di “disordini spontanei” che il pogrom assunse, le direttive generali impartite dai vertici nazisti contenevano indicazioni ben precise: i rivoltosi “spontanei” non dovevano commettere azioni dannose verso persone o proprietà di cittadini non ebrei; non dovevano attaccare gli stranieri (anche nel caso di ebrei stranieri) e dovevano sequestrare gli archivi delle sinagoghe prima di distruggerle insieme alle altre proprietà delle comunità ebraiche e inviare tutto il materiale d’archivio ai Servizi di sicurezza (Sicherheitsdienst o SD). Gli ordini includevano che i poliziotti dovessero arrestare gli ebrei, soprattutto giovani e di buona costituzione fisica, fino a riempire le carceri.
Le unità delle SS e della Gestapo, seguendo queste direttive, ne arrestarono oltre 30.000 e trasferirono la maggior parte di loro dalle prigioni locali a Dachau, Buchenwald, Sachsenhausen e ad altri campi di concentramento. La Kristallnacht rappresenta il primo caso in cui il regime nazista imprigionò in massa gli ebrei basandosi solo sulla loro etnia. A centinaia morirono nei campi in seguito ai brutali trattamenti ricevuti. Altri furono rilasciati nei tre mesi successivi, a patto che avviassero le pratiche per espatriare dalla Germania.
Quasi nessuno rammenta oggi questo avvenimento, che fu il principio di un cammino che condusse alla “Shoah”. Ricordarlo è invece necessario, perché ci mostra come da episodici disordini, ancorché manovrati, nasce spesso il cammino lastricato d’odio che conduce alle più terribili aberrazioni umane.
Lo è ancor più in questi giorni, in cui folle di dimostranti, sparute ma ignoranti, percorrono le vie delle nostre città accusando di comportamento nazista il governo italiano ed evocano scenari da campi di sterminio. Offendendo, con tali mascalzonate, la memoria e la vita di coloro che veramente furono vittime dei perfidi regimi del Novecento.
Se realmente fossimo governati da un sistema di tipo dittatoriale e nazista dubito fortemente che domattina questi figuri si sveglierebbero sereni nei loro letti.
Quasi a fare da contraltare alla Kristallnacht, in questi giorni si celebra anche il ricordo di un evento ben più lieto: la caduta del muro di Berlino.
La sera del 9 novembre 1989, nel corso di una conferenza stampa, il portavoce del governo della Germania Est, Guenter Schabowski, incalzato dall’allora corrispondente dell’ANSA a Berlino Est, Riccardo Ehrman, annunciò, forse per un malinteso, la modifica con effetto “immediato” delle “norme per i viaggi all’estero”: in particolare sarebbero state permessi gli spostamenti a Berlino Ovest per qualsiasi motivo.
Tale dichiarazione spinse decine di migliaia di berlinesi dell’est verso i posti di frontiera fra le due parti della città. Le guardie, colte di sorpresa da un afflusso così massiccio, chiesero ordini su come comportarsi, ma comunque alzarono le sbarre bianche e rosse permettendo a tutti di passare senza controlli.
Per tutta la notte, una marea festante attraversò il varco proibito, unendosi ad altrettante migliaia di cittadini dell’Ovest che applaudivano. Abbracci tra parenti e amici, costretti a vivere divisi per decenni. Fiaccole, birra e spumante, accompagnarono la folla. In quelle stesse ore fu distribuito un tabloid stampato a tempo di record, con il titolo “Berlino è di nuovo Berlino”. Le immagini di quella notte sono rimaste scolpite nella memoria di tutti noi: sono quelle dei tanti giovani che scavalcarono il muro aiutandosi a vicenda, poi i picconi e i martelli usati dalla sommità della barriera, ormai demolita nelle mente e che presto lo sarebbe stata nei fatti.
Un muro, quello di Berlino, che era rimasto in piedi per 28 anni, causando la morte di 943 persone: i tedeschi della Germania dell’Est che negli anni della Guerra Fredda vennero uccisi nel tentativo di fuggire in Occidente.
Questi due episodi devono essere un monito: è lenta e spesso impercettibile la deriva verso i regimi, ma ancor più lungo e doloroso è il cammino verso la libertà.

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Una lezione inascolata

Lo scrittore britannico Aldous Huxley, celebre per i suoi romanzi di narrativa distopica, affermava che il fatto che gli uomini non imparino molto dalla storia è la lezione più importante che la storia stessa ci insegna. Triste ma, purtroppo, vero.
L’avvenimento che oggi vorrei ricordarvi ne è l’ennesima conferma: 1.917 persone morirono in quella circostanza. Eppure, vien da dire, invano.
Era il 9 ottobre del 1963.
Quella sera gli abitanti di Erto e Casso, due paesi che sorgono nella valle del torrente Vajont, in provincia di Belluno, si godevano il riposo dopo una giornata di duro lavoro, faticoso come lo è in montagna. A monte di questi paesi sorgeva quella che allora era la più grande diga del mondo: la diga del Vajont.
Alle 22 e 39 una frana di 270 milioni di metri cubi si staccò dal fianco del Monte Toc, che costeggiava la diga, precipitando nel lago artificiale appositamente creato. Tutta la costa della montagna, larga quasi tre chilometri e costituita da boschi, campi coltivati ed abitazioni, affondò nel bacino sottostante, provocando addirittura una scossa sismica.
La frana non colpì direttamente la diga, che infatti non crollò. Tuttavia, riempendo l’invaso di detriti, fece sì che la massa liquida si innalzasse, formando un’onda alta 250 metri, che si divise in tre parti. La prima colpì il comune di Casso. La seconda si diresse verso Erto. La terza onda, di 50 milioni di metri cubi d’acqua e di roccia, scese a valle verso Longarone a 80 km all’ora, creando un vento impetuoso e sempre più intenso, che aveva una potenza, pensate, pari a quella dell’onda d’urto creata dalla bomba di Hiroshima.
Allo sbocco della valle del Vajont l’onda era alta 70 metri.
Gli abitanti di Longarone, dopo l’interruzione della corrente elettrica, videro il cielo illuminarsi di lampi: erano gli elettrodotti austriaci in corto-circuito che, prima di esser divelti dai tralicci, illuminarono a giorno la valle. Subito dopo arrivò il vento, che toglieva il respiro. Alle 22 e 43, quattro minuti dopo la frana, l’onda piombò su Longarone, polverizzando persone e case. Il livello del fiume Piave si alzò di 12 metri e, dopo 15 minuti, l’onda di riflusso tornò a spianare tutto, trasformando il paesaggio in una brulla spianata di fango. In totale morirono 1.917 persone, di cui 487 bambini e ragazzi; 451 vittime non sono mai state ritrovate.
Le vicende che portarono a questa immane tragedia furono lunghe e lastricate da errori, superficialità e irresponsabilità.
L’idea di sfruttare le acque del Vajont per fini economici risale al 1900, quando un piccolo industriale, Gustavo Protti, presentò la domanda per la costruzione di una piccola diga.
Ma presto l’idea di un maggior utilizzo si fece strada in alcuni imprenditori. Fu così che l’ing. Carlo Semenza (che firmerà poi tutti i successivi progetti, fino all’ultimo) presentò nel 1929 un progetto per la costruzione di una diga che avrebbe dovuto raggiungere i 130 metri di altezza e contenere un invaso di oltre 33 milioni di metri cubi d’acqua. Nel 1937 venne presentato un nuovo progetto, ancora più faraonico, che prevedeva la costruzione di una diga di 190 metri di altezza, in grado di creare un bacino di 46 milioni di metri cubi d’acqua. Infine, nel 1952, a seguito di un decreto presidenziale, si diede il via al progetto del “Grande Vajont”. L’altezza dell’opera era stata portata a 263 metri, facendo della struttura la diga più grande del mondo.
Sin dall’inizio dei lavori gli abitanti della vallata espressero molte perplessità, ben consapevoli della fragilità della montagna sovrastante l’invaso artificiale.
Già durante i lavori di costruzione si notarono movimenti del suolo e smottamenti. Non è certo un caso che il nome Toc, attribuito al monte, sia l’abbreviazione di “patoc”, che in friulano significa marcio. Nomen omen, insomma.
La SADE, società costruttrice, a seguito di questi segnali di allarme chiese una ulteriore perizia geologica a Leopold Müller, ingegnere geotecnico fondatore della scuola di Salisburgo. L’austriaco effettuò opportuni carotaggi, stabilendo che sul monte Toc si trovava una frana antica larga un paio di chilometri, profonda centinaia di metri.
Come se tutto ciò non fosse sufficiente il 4 novembre 1960 una prima frana di 800.000 metri cubi di roccia precipitò nel lago artificiale. Segnale perlomeno inquietante, ma evidentemente non sufficiente ai fini di un ripensamento.
Una giornalista cominciò ad indagare sulla diga e riportò i fatti e le preoccupazioni degli abitanti della zona: si chiamava Tina Merlin. A causa di uno dei suoi articoli venne accusata dalla società costruttrice Sade di “diffondere notizie false e tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico” e rinviata a giudizio, dove peraltro venne assolta in quanto nelle sue denunce “non vi sarebbe nulla di falso, esagerato o di tendenzioso”.
A seguito dei preoccupanti segnali nell’aprile del 1963 vennero effettuate prove di invaso e svaso, con successivi riempimenti e rapidi svuotamenti del bacino. Anche questi risultati avrebbero dovuto far riflettere. Al crescere del livello dell’acqua diminuiva infatti la coesione tra le rocce, mentre il rapido svuotamento del lago indeboliva ulteriormente la compattezza.
Nei primi giorni di quel tragico ottobre gli abitanti di Erto e Casso videro i pini e i larici inclinarsi verso il lago. Sulle strade comparvero buche profonde ed irregolari. Il 7 ottobre, Guglielmo Celso, sindaco di Longarone, contattò ripetutamente Prefettura e Genio Civile esprimendo la propria preoccupazione: da questi ricevette l’invito a non provocare inutili allarmismi.
Si giunse, quindi, alla notte del 9 ottobre: il più grande disastro mai avvenuto in Europa.
Il tentativo di insabbiare cause e responsabilità fu immediato e ben orchestrato.
In questo fu pienamente complice la stampa italiana, da subito pronta ad attribuire alla fatalità e a un destino crudele la responsabilità di quanto occorso. Giorgio Bocca, tra i molti, si prodigò in questa direzione: “Non c’era niente da fare, non ci sono rimorsi, non ci sono colpevoli. Ci siamo solo noi, i moscerini, che vogliamo (…) dichiarare guerra alla natura”.
Solo la stampa estera raccontò le responsabilità: con gli articoli del New York Times, dell’Herald Tribune e di Le Monde emerse chiaramente la verità. Ma a quei tempi non c’era internet e quasi nessuno leggeva i giornali stranieri.
Da una così immane strage sortirono in sede giudiziaria condanne irrisorie. Di tutti coloro che furono imputati solo due furono condannati: l’ingegnere capo Alberico Biadene a cinque anni (con tre di condono) e Francesco Sensidoni, membro della commissione di collaudo, a tre anni e otto mesi (anch’egli con tre di condono).
Quella tragedia, purtroppo, resta una lezione inascoltata in un’Italia di ponti che crollano, di frane che distruggono, di montagne che si sfaldano a ogni pioggia e di fiumi che si fanno strumento di morte a ogni perturbazione.
Un Paese dove ancora ci si fa beffe della sicurezza e l’incuria svetta vincente, brandendo lo stendardo fasullo della carenza di risorse. Sotto la bandiera unificante ed umiliante della corruzione.
Per questo oggi è ancora inascoltato il grido delle vittime del Vajont.
Un urlo strozzato nella gola dal vento e dalla furia delle acque. Ma soprattutto dalla pavida incoscienza e dalla disonestà ancor più radicatesi.
Ascoltiamo quel grido, affinché si faccia monito.

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Noi, da tempo, abbiamo scelto la vita

11 settembre 2001: esattamente 20 anni fa.
Una data che ha scandito la nostra storia recente, quasi un contrafforte tra due epoche.
Due aerei provenienti da Boston e diretti a Los Angeles furono dirottati e lanciati contro le due torri dell’Word Trade Center a New York. Un altro aereo, a sua volta dirottato, fu fatto precipitare sul Pentagono. Un quarto velivolo, probabilmente destinato a colpire la Casa Bianca, si schiantò in Pennsylvania per l’eroica ribellione dei passeggeri che avevano saputo degli altri attentati e preferirono farlo cadere prima.
I morti di questa indimenticabile giornata furono 2.966. Non dobbiamo dimenticare anche le vittime successive, uccise da tumori e altre malattie provocate dalle esalazioni degli incendi: sono ad oggi oltre quarantamila.
Non fu un attacco agli Stati Uniti. Le vittime appartenevano a oltre settanta diverse nazionalità. Oltre 400 erano musulmane.
Fu un attacco al mondo libero, ai valori di dignità e eguaglianza così insopportabili al terrorismo islamico. Un vulnus a chi viveva nella convinzione che il dialogo e il rispetto fossero i sentieri da percorrere nel cammino verso il futuro.
Questo anniversario, il ventesimo, coincide con il ritiro delle forze occidentali dall’Afghanistan, dove – vent’anni fa – fu programmata e decisa la mattanza dell’11 settembre.
Devo ribadire il mio profondo dissenso verso tale scelta: tragica, pericolosa e inutile. Non nell’interesse degli afghani e non nel nostro. Solo un affettato rigurgito di sovranismo para-nazionalista ha indotto Trump a programmare il ritiro e l’attuale presidente Biden a portarlo – malamente – a conclusione.
Tale ripiegamento culturale verso la politica definita dallo slogan America First (che produce una curiosa assonanza “immorale” con il nostrano assioma “prima gli italiani”), non tiene in alcun modo conto della grande novità introdotta proprio dalle stragi dell’11 settembre: la globalizzazione del terrore.
Fu proprio con quell’attentato che ci rendemmo conto che il mondo era ormai uno scenario unico e che le decisioni criminali prese in un deserto remoto di un paese dell’Asia Centrale potevano portare – come hanno portato – a migliaia di morti in tutto il mondo. Perché la spinta che induce uno jihadista a farsi esplodere non è l’odio verso una nazione, una città, una discoteca o un ristorante. Ma quello nei confronti della democrazia, della libertà, della cultura, dei diritti umani e delle donne.
Non si dia neppure molto credito verso la tesi che vorrebbe i terroristi agire in nome della povertà contro il lusso o della religione islamica contro il cristianesimo. Delle 1.324 vittime trucidate in attacchi jihadisti in tutto il mondo negli ultimi 30 giorni (avete letto bene: 30 giorni!) la quasi totalità era musulmana e composta da poveri e diseredati.
Credo che sia corretto dire – come l’intellettuale Adam Michnik – che proprio in quell’11 settembre è nato il XXI secolo. In quel giorno si sono affacciati totalitarismi, fanatismi e populismi: tutti basati non sulla forza degli argomenti, ma sull’argomento della forza. La politica dell’esclusione ha sbarrato la strada a quella dell’inclusione e del rispetto.
Per questo la fuga disordinata da Kabul, messa in scena dagli americani, è una pagina cupa per il mondo intero. Si è decisa nonostante l’impegno nel 2021 non fosse lontanamente paragonabile a quello di venti o addirittura dieci anni fa, in circostanze in cui il numero delle truppe era diminuito al minimo e nessun soldato alleato aveva perso la vita in combattimento da 18 mesi.
E’ stata compiuta nella consapevolezza che, sebbene imperfetti e immensamente fragili, negli ultimi vent’anni ci sono stati reali miglioramenti nella vita in Afghanistan. Si pensi solo a tutti i lenti progressi compiuti dalle donne, ma in realtà dall’intera società afghana. La nascita di una nuova squadra di basket femminile, l’apertura di ogni palestra alle donne, le neo-giornaliste assunte nel proliferare di giornali, radio e televisioni, l’apparire sul mercato del lavoro di professioniste pronte a prendere il proprio posto in uffici che sino ad allora erano stati solo per uomini: sembravano, questi, successi destinati a durare, a cambiare il Paese per sempre.
Oggi le donne protestano in piazza per difendere queste ancora poche ma significative conquiste. Un fatto assolutamente impensabile vent’anni fa.
Gli americani, Biden in testa e prima di lui Trump, dissero che i Talebani avrebbero assunto atteggiamenti meno rigorosi. Mentivano sapendo di mentire. Già nei primi giorni i nuovi signori di Kabul stanno stroncando ogni novazione. Niente sport per le donne, istruzione a classi separate, niente giornaliste, insegnanti quasi sparite: nelle scuole sono state create stanze riservate per le poche docenti, che non possono più stare con i colleghi. E lo stesso vale per il personale della segreteria. I muratori hanno modificato le porte di accesso al loro ufficio. Sembrano quella di una cella, con gli studenti costretti a comunicare con loro attraverso una fessura nel muro. Le donne stanno sedute nella penombra col capo coperto. Sembrano fantasmi, sono vittime.
Anche il governo creato dai Talebani è uno sberleffo alla politica americana.
Ministro dell’Interno è Serajuddin Haqqani, leader della temibile e omonima rete ritenuta vicina ad Al Qaida. Attualmente è ricercato dall’Fbi per terrorismo, con una taglia di 5 milioni di dollari. Il premier Mohammad Hasan è nella lista Onu dei terroristi. Insieme a molti altri ministri, ricercati da Fbi, Unione Europea e Nazioni Unite. Erano il Male (e ancora lo sono) ma ora compongono il governo. Ovviamente senza neppure una donna. Perché, come ha detto il portavoce del governo dei mullah, una donna non può fare il ministro, sarebbe come metterle al collo un peso che non può sostenere. Non è necessario che le donne siano nel governo, loro devono fare figli.
Anche per queste ragioni questo ventesimo anniversario assume un significato così importante.
Ricordiamo le vittime del terrorismo jihadista: quelle dell’11 settembre, ma anche quelle di Parigi, Londra, Madrid, Bruxelles. Le stragi in Asia come gli eccidi in Africa e i rapimenti di ragazze dei Boko Haram.
Soprattutto non lasciamo che l’indignazione di questi giorni per i fatti afghani si dissolva lentamente come nebbia al mattino.
Non diamo spazio a chi nella religione trova solo una scusa al suo atavico e arretrato fanatismo.
I jiaidhisti si credono eroi e martiri, ma sono solo dei perdenti e dei falliti, burattini senza dignità né umanità.
Il nostro mondo è fragile, imperfetto, certamente da correggere e migliorare. Ma è infinitamente migliore del loro, che presumono perfetto ma che puzza solo di vergogna e di miseria morale.
Noi non dimenticheremo, ma – contrariamente a loro – non odieremo.
Perché noi, da tempo, abbiamo scelto la vita.

Foto Magnum – Corriere della Sera
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Non è la banalità dei protagonisti a rendere meno orribile il male

Ha senso, a distanza di decenni, rievocare eventi accaduti durante il secondo conflitto mondiale?
Nel caso di fatti per certi versi “ordinari”, ancorché tragici, probabilmente no. Ma vi sono episodi che, per la loro efferatezza, non devono mai essere scordati. Affinché il loro ricordo si erga a perenne monito per il futuro, a evitare che nuovamente la barbarie più becera possa macchiare la storia.
Quanto voglio ricordare oggi appartiene sicuramente a quest’ultima categoria.
Si tratta di una tragedia accaduta 77 anni fa, il 12 agosto del 1944, a Sant’Anna di Stazzema, un paese sull’Appennino in provincia di Lucca.
Pochi giorni prima questa località era stata qualificata dal comando militare tedesco “zona bianca”, ossia adatta ad accogliere sfollati: per questo, alla popolazione residente, si erano aggiunte centinaia di altre persone in cerca di sicurezza.
Nonostante quanto assicurato, all’alba di quel 12 agosto tre reparti di “SS” salirono verso Sant’Anna, mentre un quarto chiudeva ogni via di fuga a valle. Strada facendo le truppe si fermarono a Capezzano Monte, dove fucilarono numerosi giovani.
Alle sette le Schutzstaffel, le famigerate SS, raggiunsero Sant’Anna, accompagnate da collaborazionisti che fungevano da guide. Gli uomini del paese si rifugiarono nei boschi, per non essere deportati, mentre donne, vecchi e bambini restarono nelle loro case, sicuri che nulla sarebbe capitato loro, in quanto civili inermi. Non fu così.
In poco più di tre ore vennero massacrati 560 civili, in gran parte bambini, donne e anziani. I nazisti li rastrellarono, li chiusero nelle stalle o nelle cucine delle case, li uccisero con colpi di mitra e bombe a mano. La vittima più giovane, Anna Pardini, aveva solo 20 giorni. Anche se in realtà non era lei la creatura più piccola morta nella strage: infatti era stato ucciso anche un “non ancora nato”. Tolto dal ventre della madre, ancora legato al cordone ombelicale, era stato ucciso su di un tavolo. Altri bambini di poche settimane vennero lanciati in aria e colpiti dagli spari come si fa al tiro al volo. Altri ancora vennero infilzati con le baionette. Non si trattò di rappresaglia. Come è emerso dalle indagini della Procura Militare si trattò di un’azione premeditata e curata in ogni minimo dettaglio. L’obiettivo era quello di distruggere il paese e sterminare la popolazione.
Lo scrittore Manlio Cancogni ha descritto quanto accaduto. “I tedeschi, a Sant’Anna, condussero gli esseri umani, strappati a viva forza dalle case, sulla piazza della chiesa. Li avevano presi quasi dai loro letti; erano mezzi vestiti, avevano le membra ancora intorpidite dal sonno; tutti pensavano che sarebbero stati allontanati da quei luoghi verso altri e guardavano i loro carnefici con meraviglia ma senza timore né odio. Li ammassarono prima contro la facciata della chiesa, poi li spinsero nel mezzo della piazza, una piazza non più lunga di venti metri e larga altrettanto, chiusa tra due brevi muriccioli; e quando puntarono le canne dei mitragliatori contro quei corpi li avevano tanto vicini che potevano leggere negli occhi esterrefatti delle vittime che cadevano sotto i colpi senza avere tempo nemmeno di gridare. Quindi ammassarono sul mucchio dei corpi ancora tiepidi e forse ancora viventi, le panche della chiesa devastata, i materassi presi dalle case, e appiccarono loro fuoco. E assistendo insoddisfatti alla consumazione dei corpi spingevano nel braciere altri uomini e donne che esanimi dal terrore erano condotti sul luogo, e che non offrivano alcuna resistenza. Poi c’erano i bambini: fracassarono loro il capo con il calcio della mitraglietta, e infilato loro nel ventre un bastone, li appiccicavano ai muri delle case”. La Wehrmacht aveva dato in più occasioni l’ordine di uccidere anche i civili. Ma in nessuno di questi ordini si era mai parlato dei bambini. Sembra però che a Sant’Anna fosse stata proprio la vista dei bambini a scatenare una sorta di raptus sanguinario. “Quando li sentivano piangere, s’ innervosivano, diventavano furiosi“, hanno detto alcune sopravvissuti.
Le vittime mostrarono una grande dignità. Tutti, quando capirono, attesero la morte nel silenzio più assoluto. Molti furono trovati con le foto della loro famiglia in mano per essere identificati dopo la morte.
Nel settembre del ’44 i militari alleati trovarono a Sant’Anna i resti di numerosi donne e bambini e, oltre alle testimonianze dei pochissimi superstiti, raccolsero anche la deposizione di un disertore delle SS. Le copie di quei documenti furono poi inviate in Italia, ma a Roma scomparvero nel cosiddetto “Armadio della vergogna”.
Si trattava di un armadio rimasto chiuso per decenni e scoperto solo nel 1994 nella cancelleria della Corte Militare di Appello presso la procura generale militare, nel Palazzo Cesi-Gaddi di Roma. Era girato contro un muro per “nasconderlo” e chiuso con una catena. Conteneva tredicimila pagine e oltre novecento fascicoli, che raccontavano la storia di quindicimila persone, coinvolte nei crimini di guerra commessi in Italia durante l’occupazione nazista. Riguardavano stragi come Sant’Anna di Stazzema, Fosse Ardeatine, Marzabotto, Monchio e Cervarolo e innumerevoli altre. In questa documentazione si identificava il nome del Comandante del battaglione di SS che operò la strage di Sant’Anna. Si trattava dell’austriaco Anton Galler, fino al 1933 oscuro fornaio, che – al termine della guerra – ritornò al suo totale anonimato di fornaio a Salisburgo. E’ la famosa “banalità del male” di cui ci parla Hannah Arendt nel saggio “Eichmann a Gerusalemme: resoconto sulla banalità del male”.
Perché furono occultate quei novecento faldoni per tredicimila pagine, senza mai perseguire i colpevoli?
In ossequio ai desideri di Stati Uniti e Gran Bretagna, che – una volta iniziata la Guerra Fredda – ritenevano opportuno stendere un velo sui massacri in Italia del 1944 e 1945.
E’ giusto ricordare che la Germania si è ampiamente ed ufficialmente scusata per questi eccidi.
Nel 2012 il ministro tedesco Michael Georg Link ha affermato che “Il governo federale continuerà ad assumersi la responsabilità storica dei crimini commessi per mano dei tedeschi” e che “faremo tutto il possibile affinché i crimini compiuti per mano dei tedeschi non vengano dimenticati“.
Frank-Walter Steinmeier, Presidente tedesco, ha chiesto solennemente perdono, a nome della Germania, per tutto quello che i nazisti hanno fatto durante l’ultima guerra mondiale. Ha confessato, esprimendosi in italiano, di provare “solo vergogna”. E nella sua lingua ha voluto aggiungere: “Lo dico per i cittadini tedeschi e per i giovani che ignorano questi avvenimenti”.
La Germania è il Paese che, più di ogni altro, ha saputo fare i conti con il proprio passato.
Vorrei sottolineare alcune parole del Presidente tedesco: “lo dico per i giovani che ignorano questi avvenimenti”. Secondo un’indagine Censis effettuata tra studenti delle medie superiori e dell’università più del 50 per cento ignora chi fosse Mendele, il 28 per cento considera un Progrom una festa ebraica, il 58,7 per cento crede che la notte dei cristalli fosse una parata militare notturna del Terzo Reich e ritiene Himmler e Goebbels ministri della Germania.
Per questo credo sia ancora importante ricordare i fatti che vi ho narrato oggi.
Accadimenti dei quali si dovrebbe parlare nelle scuole, per combattere sul nascere l’odio e l’indifferenza.
Tutti devono ricordare e temere questa barbarie, così come le altre atrocità del Ventesimo Secolo: i lager, i gulag, Pol Pot, i Talebani e via tristemente elencando.
Perché il Male, anche quello terribile di Sant’Anna, non è opera di qualche folle isolato, ma cammina con le gambe dei fornai, degli imbianchini e dei maestri elementari. Delle persone alle quali – sino al giorno prima – nessuno prestava attenzione.
Ma non è la banalità dei protagonisti a rendere meno orribile il male.

Foto tratta da Shalom