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Attualità di Enrico Mattei

Sessant’anni anni fa, il 27 ottobre 1962 moriva Enrico Mattei, in un incidente aereo che solo recentemente è stato riconosciuto come “non accidentale”.
Mattei rappresenta nella nostra storia il simbolo di un Paese che ha raggiunto la modernità della democrazia economica attraverso tutte le luci e tutte le ombre del ventesimo secolo. Ed è questa un’ottima ragione per parlarne ancora.
Marchigiano di Acqualagna, Mattei era il secondo dei cinque figli di un brigadiere dei carabinieri convinto che “restare poveri è una disgrazia perché non si può studiare”. La povertà della famiglia e la rigida disciplina imposta dal padre lo spinsero a cercarsi presto un lavoro. Iniziò in una fabbrica come verniciatore, quindi venne assunto come garzone in una Conceria. La sua carriera fu rapida: prima operaio, poi aiutante chimico, infine direttore di laboratorio. Nel 1929 Mattei fondò con la sorella e un fratello la sua prima fabbrica: un piccolo laboratorio di oli emulsionanti per l’industria conciaria e tessile. Nel 1934 provò a diventare un vero industriale e fondò a Milano la Chimica Lombarda.
Ma la sua storia è intimamente legata a quella – estremamente attuale – dell’indipendenza energetica italiana.
A seguito della tardiva unità raggiunta, il nostro Paese, all’inizio del Novecento, si trovava svantaggiato rispetto alle altre nazioni europee, dotate di colonie che fornivano regolarmente materie prime energetiche.
Il governo fascista, negli anni Venti, mostrò grande pragmatismo, stringendo un accordo con l’Unione Sovietica per l’approvvigionamento di petrolio a un prezzo decisamente inferiore a quello imposto dagli americani. Con il paradosso che il governo fascista fu il primo nel mondo occidentale a riconoscere di fatto l’Unione Sovietica, con grande disappunto degli altri Paesi occidentali (oggi diremmo degli altri Paesi della NATO).
Sempre in quegli anni un’altra società americana, la SINCLAIR, tentò di ottenere alcuni contratti per lo sfruttamento dei giacimenti italiani in Sicilia ed Emilia, facendo un larghissimo ricorso a strumenti di corruzione. Alcuni storici sostengono che il reale movente del delitto Matteotti fu legato alla conoscenza da parte di quest’ultimo di numerosi fatti di corruzione e alla sua volontà di denunciare corrotti e corruttori davanti al Parlamento.
In questo contesto, nel 1926, venne creata l’Agip, Azienda Generale Italiana Petroli, la quale funzionò in modo alterno, sino alla sua quasi dissoluzione negli anni del conflitto mondiale.
Nell’immediato dopoguerra, su pressioni degli Stati Uniti e delle compagnie petrolifere americane, si pensò di smantellare l’Agip.
A questo compito fu chiamato proprio Enrico Mattei.
Il quale, tuttavia, ebbe un’idea geniale. Anziché concentrarsi sul petrolio, comunque scarso e fuori mercato, individuò la possibilità fornita dai giacimenti di gas. Non facevano viaggiare le auto ma permettevano il funzionamento delle industrie.
Da quel momento l’Agip, anziché essere liquidata, si rese protagonista di uno sviluppo senza precedenti, dotando il Paese di una rete di gasdotti tra le più ramificate del mondo.
Per il petrolio, invece, imitò il pragmatismo del fascismo e, grazie all’aiuto dell’amico partigiano Luigi Longo, strinse un accordo con l’Unione Sovietica per ottenere il prodotto a un costo irrisorio rispetto a quello delle compagnie petrolifere statunitensi e offrendo in cambio tecnologia per la costruzione di oleodotti e le petroliere costruite da Fincantieri.
Mattei voleva conseguire un obiettivo che riteneva fondamentale: garantire al Paese un’impresa energetica nazionale, che dal 1953 si chiamerà Eni, in grado di assicurare quanto serviva ai bisogni delle famiglie e allo sviluppo della piccola e media impresa, a prezzi più bassi rispetto a quelli degli oligopoli internazionali.
Mattei si mosse con intelligenza anche sulla scena internazionale e fu tra i primi a coltivare il rispetto delle culture diverse, avendo ben chiaro che non era possibile fare strategia internazionale senza conoscere bene i singoli territori. La diversità Eni fu per anni una sorta di eccezione, un’impresa che compiva scelte diverse da quelle della maggioranza dei suoi concorrenti. Anche per questo Mattei è stato il simbolo di un modo di pensare l’Italia talmente visionario da riuscire a trasformare una nazione sconfitta e contadina in un Paese avanzato con una forte industria energetica.
Mattei, a capo dell’ENI, avvicinò il mondo africano e mediorientale armato di una formula di concessione (“75-25”, ossia 75 al paese produttore e 25 all’ENI) molto più favorevole per i Paesi produttori rispetto a quello delle compagnie petrolifere statunitensi. Inoltre il suo linguaggio era sintonizzato sulle parole d’ordine di tutti i giovani nazionalismi anti-colonialisti. Nacquero così gli accordi con Marocco, Iran, Libia, Tunisia e l’Egitto di Nasser.
L’Eni di Mattei divenne un operatore planetario. Il suo successo, ovviamente, era visto con grande livore negli Stati Uniti. Lo stesso avvenne in Gran Bretagna: in alcuni documenti di quegli anni del Foreign Office si legge che “l’Eni sta diventando una crescente minaccia, non solo dal punto di vista commerciale. La minaccia dell’Eni si sviluppa infatti, in molte parti del mondo, nell’infondere una sfiducia latente nei confronti delle compagnie petrolifere occidentali”.
Quando la sera del 27 ottobre 1962 l’aereo di Mattei cadde in fiamme a Bascapè, nei pressi di Pavia, furono in molti a pensare a un attentato.
Ma fu soltanto 43 anni dopo, nel 2005, che una perizia tecnica ordinata dai magistrati pavesi – sulla scorta di filoni giudiziari riguardanti fatti mafiosi – accertò che l’aereo fu distrutto in volo da un’esplosione.
Per il sostituto procuratore Vincenzo Calia il fondatore dell’ENI fu “inequivocabilmente” vittima di un attentato. L’indagine ha definitivamente dimostrato che l’esplosione che abbatté il bimotore su cui viaggiava Mattei fu causata da una bomba collocata nel carrello d’atterraggio del velivolo. Venne anche provato che l’inchiesta del 1962, presieduta dal generale dell’Aeronautica Ercole Savi, fu un vero insabbiamento.
Che Mattei sia stato vittima di un attentato è stato altresì ribadito nella sentenza di un processo a latere, quello per l’omicidio del giornalista Mauro de Mauro: secondo la Corte d’assise di Palermo de Mauro è stato ucciso perché stava per divulgare quanto aveva scoperto sulla morte di Enrico Mattei.
Così come Pierpaolo Pasolini fu ucciso pochi giorni prima che scrivesse il capitolo del romanzo “Petrolio” intitolato “lampi sull’ENI”, in cui avrebbe trattato dei mandanti del delitto Mattei.
Nel nostro Paese non ci si rese conto della funzione straordinaria di Mattei nella ricostruzione e nell’ascesa del Paese a grande potenza industriale.
Mattei è stato un manager che ha reso grande l’Italia per amore del suo Paese e per senso del dovere. Quanta diversità rispetto a tanti presunti super-manager attuali! Pensate che Mattei aveva disposto che il suo stipendio venisse versato al monastero delle Clarisse di Matelica, cittadina nella quale era cresciuto. Questo perché, nel suo rigore morale, riteneva possibile un minuscolo conflitto d’interessi, visto la originaria comproprietà con il fratello di una piccola azienda chimica. Cose d’altri tempi, verrebbe da dire, ma tempi certamente migliori.
Enrico Mattei rimane un simbolo per il nostro Paese. Un’Italia eternamente imperfetta, ma capace, nella sua “provincia”, di inventare grandi visioni, grandi aziende, grandi italiani. Un Paese che non si genuflette all’arroganza, che non si arrende alla corruzione, capace di una larga visione dell’interesse comune.
Un’Italia che sembra scomparsa, in una cupa rassegnazione intrisa di cinismo, nell’elogio del “così fan tutti”.
Ricordare oggi Mattei significa riscoprire valori solo apparentemente arcaici e proporre nuovamente tale visione, perché un diverso futuro è ancora possibile.
E’ sempre possibile!

Immagine di Rai News

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Inizio anno scolastico

Prende il via oggi, in molte regioni, il nuovo anno scolastico.
L’istruzione rappresenta, nel nostro Paese, un tema essenziale, che investe prioritariamente il nostro presente ma che stende la sua ombra imponente sul futuro.
L’Italia versa tuttavia in un profondo stato di emergenza culturale.
La confusione di valori nella quale annaspa il Paese, l’incapacità di ipotizzare scenari di sviluppo credibili e che non si nutrano di mere parole d’ordine imbibite di banalità ha infatti radici culturali prima ancora che economiche.
Un saggio edito un paio di anni fa ha evidenziato il malessere che affligge la nostra scuola. Gli scolari disobbediscono alle loro maestre. Gli adolescenti aggrediscono i loro insegnanti. I genitori di quegli adolescenti si precipitano a scuola per picchiare gli insegnanti già aggrediti dai propri figli. E’ cronaca quotidiana. Una fattualità che pare indicare il tramonto, se non la liquidazione, della pedagogia. Ma non già, si badi bene, di una sua forma, magari perché ritenuta non più adeguata, ma l’abbandono stesso dell’idea che il bambino debba essere in qualche modo – e da qualcuno – accompagnato, guidato, condotto per mano a una destinazione a lui ignota. Con l’inevitabile e conseguente presupposto di una subordinazione dell’educando all’educatore, di una disciplina che mobiliti un sapere da trasmettere e apprendere, preludio indispensabile a una formazione che prosegua per tutta la vita dell’uomo. La liquidazione della scuola si pone come soluzione finale di uno scenario nel quale l’educazione stessa scompare dall’orizzonte della nostra esperienza umana.
Un quadro davvero preoccupante, che delinea orizzonti ancor peggiori, rappresentati da una società sempre più individualista e dedita all’improvvisazione.
La scuola soffre, vittima innanzitutto di un profondo disinteresse da parte della classe politica.
Una spesa per l’istruzione al terz’ultimo posto in Europa e una sottovalutazione, anche economica, del ruolo dei docenti, senz’altro aggravati dalla crisi pandemica e dalla scuola “a distanza”, hanno drammaticamente contribuito al peggioramento del quadro generale.
Uno studio di queste settimane ha affrontato il tema della dispersione scolastica. Si tratta, in sostanza, della incompleta o irregolare fruizione dei servizi dell’istruzione da parte dei giovani in età scolare. In quest’ambito, con una percentuale del 12,7%, l’Italia ha ottenuto il peggior risultato in Europa.
Vi è poi – altrettanto grave – il fenomeno della cosiddetta dispersione “implicita”, rappresentato dai giovani che terminano il ciclo di studi senza le competenze minime necessarie per entrare nel mondo del lavoro o dell’Università, Qui la percentuale è del 9,7%, ancora una volta tra le peggiori d’Europa. Con punte in Campania, Sicilia e Calabria che sfiorano il 20%. In queste regioni il 60% degli studenti non raggiunge il livello base delle competenze in italiano, mentre quelle in matematica sono disattese dal 70%.
Molto deve essere fatto, ma occorre una forte spinta da parte dell’esecutivo.
Spiace notare che, ancora una volta, tra i temi più ripetuti nella campagna elettorale in corso ben poco appaia l’istruzione, se non in termini generici e piuttosto banali.
Non occorrerebbero manovre faraoniche.
Portare la spesa per l’istruzione al 5% del PIL, che è la media investita nei paesi europei, significherebbe stanziare 93 miliardi contro i 71 stanziati per il 2020. Ventidue miliardi in più, molti di meno di quanto è costato allo stato finanziare il cosiddetto bonus 110%.
Nell’auspicare un felice anno scolastico non possiamo prescindere dalle riflessioni che vi ho esposto, perché la scuola torni ad essere, come deve, un momento essenziale di formazione e di sviluppo. Un veicolo di crescita civile e sociale. Una speranza per il domani.
Per gli alunni, perché sappiano cogliere nel loro percorso didattico non già uno scaffale di nozioni, ma un germinatoio di idee. Perché, come disse Sidney Harris, lo scopo della scuola è quello di trasformare gli specchi in finestre.
Per gli insegnanti, cuore della formazione culturale e civile delle future generazioni. Strumento vivo per un’educazione che sia fondamento non solo di progresso ma anche di umanità. Diceva Henry Brooks Adams che “un insegnante colpisce per l’eternità; non si può mai dire dove la sua influenza si ferma”. Grazie al loro impegno, al quotidiano mettersi in gioco, alla capacità di cogliere le emozioni dell’alunno per farle proprie e appassionarlo: portandolo ad amare quanto deve apprendere. Con il dovere da parte dello stato di un equo riconoscimento.
Per la scuola, perché – come ebbe a dire Piero Calamandrei in un suo celebre discorso – trasformare i sudditi in cittadini è il miracolo che solo la scuola può compiere.

Foto Regione Lazio
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Non scordiamo mai

2 agosto 1980. Chi visse quella giornata non la potrà mai scordare.
Era il primo sabato d’agosto. Allora, molto più di oggi, era quello del “grande esodo”. Le ferie si concentravano in quel mese, con la chiusura delle grandi fabbriche del Nord, trasformando le città in spettrali scenografie di case vuote e negozi chiusi.
A Bologna, quel giorno, faceva un caldo insopportabile, perché nella “bassa” l’umidità accentua la sensazione di disagio.
La stazione ferroviaria felsinea era affollata, con le famiglie che partivano per le ferie con l’aria felice di chi aveva consegnato a quei giorni di vacanza tutti i sogni tenuti chiusi per mesi nel cassetto della laboriosa quotidianità. Improvvisamente, alle 10 e 25, il tempo si fermò.
Un boato spazzò la spensieratezza e tantissime vite. Oltre venti chilogrammi di tritolo, contenuti in una valigia, esplosero nella sala d’aspetto di seconda classe. Le lancette del grande orologio della stazione segnano ancora oggi quell’ora terribile. La deflagrazione causò il crollo dell’ala sinistra dell’edificio. Della sala d’aspetto, del ristorante, degli uffici del primo piano non restò più nulla. Una valanga di macerie si abbatté anche sul treno “Adria Express Ancona-Basilea”, fermo sul primo binario. Uomini, donne e bambini persero la vita, dilaniati o schiacciati.
I morti furono 85, i feriti e mutilati oltre 200. Le vittime più piccole furono Angela Fresu, di appena 3 anni, Luca Mauri di 6 e Sonia Burri di 7. Le più anziane Maria Idria Avati di 80 anni e Antonio Montanari di 86.
La città di Bologna si mobilitò immediatamente: molti cittadini, insieme ai viaggiatori presenti, prestarono i primi soccorsi alle vittime e contribuirono ad estrarre le persone sepolte dalle macerie.
Per ore sanitari, vigili del fuoco, forze dell’ordine, militari e volontari lavorarono incessantemente alla ricerca di vite da soccorrere e da salvare. Una catena spontanea che in pochissimo tempo rimise in moto la città che stava ‘chiudendo per ferie’. Saltarono le linee telefoniche e i cronisti giunti sul posto, per poter raccontare l’inferno di quei momenti, utilizzarono la cabina dei controllori degli autobus sul piazzale, dove il telefono invece funzionava. Cellulari e internet ancora non esistevano, ma dagli ospedali giunse comunque l’invito a medici e infermieri di tornare in servizio. Un appello accolto da tutti. Un autobus urbano della linea 37 divenne il simbolo di quel terribile giorno, trasformandosi in un improvvisato carro funebre che trasportava le salme all’Istituto di Medicina legale.
La solidarietà fu immensa anche nel resto del Paese.
Migliaia di messaggi furono inviati al sindaco felsineo, Renato Zangheri, da ogni parte del mondo. Vi era molta fiducia nel sindaco e altrettanta nel Presidente della Repubblica, Sandro Pertini. Fu proprio Pertini, nel corso dei funerali celebrati nella Basilica di San Petronio, ad affermare in lacrime di fronte ai giornalisti di non avere parole, sopraffatto di fronte all’impresa più criminale mai avvenuta in Italia.
Per la strage, dopo anni di depistaggi, sono stati condannati cinque esecutori: in via definitiva Valerio Fioravanti, detto Giusva, Francesca Mambro, moglie di Fioravanti, Luigi Ciavardini, e – per concorso nel reato – Gilberto Cavallini, esponenti del gruppo terroristico di estrema destra denominato NAR, Nuclei Armati Rivoluzionari. Condannato lo scorso aprile in primo grado anche Paolo Bellini.
I due principali artefici furono proprio Valerio Fioravanti e Francesca Mambro.
Fioravanti, autore anche di numerosi altri omicidi e atti terroristici, fu condannato in tutto a 8 ergastoli, 134 anni e 8 mesi di reclusione. Ottenuta la libertà vigilata nel 2004, è un libero cittadino dal 2009.
Francesca Mambro, condannata complessivamente a 9 ergastoli, 84 anni e 8 mesi di reclusione, ha ottenuto la libertà vigilata nel 2008 ed è una libera cittadina dal 2013.
Dal 1982 l’iter giudiziario non si è ancora concluso, costellato – anche in questo caso – da depistaggi, misteri e collusioni.
L’ultima sentenza è quella del 6 aprile scorso, nell’ambito della quale, oltre all’ergastolo comminato a Paolo Bellini quale esecutore, la Corte di Assise di Bologna ha condannato anche l’ex ufficiale dell’Arma, Piergiorgio Segatel a sei anni per depistaggio e a quattro anni Domenico Catracchia, l’ex amministratore di condominio di via Gradoli a Roma, dove dimorarono prima le Br e poi i Nar, per aver raccontato il falso ai pubblici ministeri.
Quest’ultimo processo (il tredicesimo!) ha individuato anche i finanziatori e mandanti: il venerabile Licio Gelli (onnipresente nelle pagine più cupe della nostra storia), che avrebbe finanziato la strage con i fondi distratti dal fallimento dell’Ambrosiano. Il suo collaboratore e braccio destro Umberto Ortolani, l’ex capo dell’ufficio Affari Riservati del Ministero dell’Interno, Federico Umberto D’Amato e il direttore del settimanale “Borghese”, Mario Tedeschi.
Tutti, ovviamente, sono deceduti.
Dopo 42 anni, nonostante i colpevoli, mandanti e esecutori, siano tutti liberi o deceduti, quella insopportabile polvere che ha ricoperto i corpi martoriati delle vittime e che troppo a lungo ha celato le tante responsabilità si sta finalmente diradando, illuminando nuovi profili dell’accaduto.
Fu un’epoca terribile per il nostro Paese, che tuttavia seppe reagire difendendo strenuamente i valori della democrazia e sconfiggendo sia lo stragismo nero che il brigatismo rosso.
Si trattava però di un’Italia diversa da quella attuale, saldamente ancorata ai valori fondanti della convivenza civile nata con la Repubblica. Rappresentata da forze politiche che, indipendentemente dalle naturali e persino opportune differenze strategiche e prospettiche, si richiamavano al nocciolo duro e inviolabile dei valori espressi nella Costituzione Repubblicana. Quel due di agosto del 1980, spontaneamente, milioni di persone in tutta Italia scesero nelle piazze, senza bandiere di partito, per affermare con forza che non si sarebbero arrese, che non avrebbero ceduto agli architetti del terrore, agli stregoni dell’angoscia. Fu la manifestazione di una tenuta democratica che fece scudo alle istituzioni repubblicane contro il bieco disegno del terrore.
Temo che oggi tale reazione sarebbe impensabile.
La caduta dei valori civici diffusi è mortificante, e fa da contraltare alla peggior classe politica che mai ha calpestato (e offeso) gli scenari delle istituzioni.
Fu un’epoca terribile certamente. Ma con un Paese migliore.

Foto Istituto Nazionale Ferruccio Parri
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Paolo Borsellino: trant’anni con noi.

Vi sono date scolpite in modo indelebile nella storia del nostro Paese.
Una di questa è il 19 luglio 1992, esattamente trent’anni fa.
Quel giorno, a Palermo, in via d’Amelio, l’esplosione di una Fiat 126 imbottita con oltre cento chilogrammi di tritolo uccise il giudice Paolo Borsellino e gli agenti di scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cusina, e Claudio Traina.
Era domenica e Borsellino aveva trascorso alcune ore al mare con la moglie Agnese, nella villetta di Villagrazia. Alle 16,30, con la sua immancabile borsa di pelle contenente anche la celeberrima agenda rossa mai più ritrovata, il magistrato salutò la Agnese e il figlio Manfredi per andare a trovare la madre.
Alle 16 e 58 minuti, mentre Borsellino aveva appena suonato al citofono della mamma in via d’Amelio, l’autobomba esplose.
Da oltre venti giorni il magistrato, quasi avesse un presentimento, aveva sollecitato la questura affinché provvedesse alla rimozione delle auto in sosta dalla zona antistante l’abitazione della madre. La sua richiesta non fu presa in considerazione e fu proprio una vettura posteggiata a provocare la strage.
Nei giorni che precedettero la strage Borsellino aveva osservato come tanta gente andasse da lui a porgere le condoglianze per la morte di Giovanni Falcone, ucciso cinquantasette giorni prima, ricavandone tuttavia la sensazione che vedessero in lui la prossima vittima.
Quel 19 luglio rappresentò un vulnus terribile alla credibilità dello Stato. Le generazioni che si affacciavano allora alla vita, ma non solo loro, videro annichilita quella fiducia nelle istituzioni che la scuola, la televisione e, per i più fortunati, la famiglia avevano provato a inculcare.
Noi oggi consideriamo “eroi” i giudici Falcone e Borsellino, ma non possiamo scordare che tali divennero soltanto dopo la loro morte. In vita erano stati vittime di veleni, sospetti e maldicenze tali da alimentare l’intreccio che portò alla loro fine. Vennero accusati di protagonismo, vanità, scarso senso dello stato. Anche da persone insospettabili, quali Leonardo Sciascia e Leoluca Orlando. Borsellino, non a caso, affermò che Falcone iniziò a morire dopo l’articolo di Sciascia sui “professionisti dell’antimafia”.
Nel dicembre 1987, alla chiusura del maxi-processo contro Cosa Nostra che portò a 360 condanne, il clima intorno ai magistrati divenne pesante. Il nuovo ministro della Giustizia Giuliano Vassalli, il 19 gennaio 1988, nominò Antonino Meli capo dell’Ufficio istruzione di Palermo, ignorando la candidatura di Falcone.
Meli cominciò subito ad assegnare a magistrati esterni al pool le inchieste di mafia, e sul tavolo di Falcone e dei suoi colleghi piovvero invece indagini per borseggi, scippi, assegni a vuoto. Borsellino parlò allora di grandi manovre per smantellare il pool antimafia.
Fu così che si giunse alle stragi di Capaci e di via Amelio del 1992.
In quel mese di luglio tutti a Palermo sapevano che Paolo Borsellino sarebbe stato ucciso. Lo sapevamo i giornalisti che frequentavano il ‘Palazzaccio’, lo sapevano i palermitani che ne chiacchieravano liberamente nei bar. Lo sapeva anche Paolo Borsellino che ne parlò apertamente. Il magistrato aveva fatto intendere di “aver compreso”. Certo non aveva in tasca nomi e cognomi delle menti criminali coinvolte, ma aveva intuito il senso di tutta l’operazione stragista, ordita da qualcuno un po’ più raffinato e intelligente di Totò Riina e solamente appaltata ai macellai di Cosa nostra.
La sua, come hanno raccontato alcuni pentiti, era una morte programmata da tempo, ma anticipata con una incredibile premura. I pubblici ministeri che indagarono sulla sua morte scrissero che la tempistica della strage fu certamente influenzata dall’esistenza e dall’evoluzione della cosiddetta trattativa tra uomini delle istituzioni e Cosa Nostra.
Borsellino era perfettamente consapevole di andare incontro alla morte.
Il 13 luglio, sconsolato, affermò di aver appreso dell’arrivo del tritolo a lui destinato. Il 17, due giorni prima della morte, salutò singolarmente i colleghi, abbracciandoli. Quindi chiamò l’amico don Cesare Rattoballi e chiese di confessarsi, convinto che il suo momento stesse arrivando.
La decisione di uccidere Borsellino, come detto, fu “accelerata” da personaggi esterni alla mafia. Del resto, come affermato dal Procuratore di Palermo Francesco Lo Voi, la mafia uccide raramente solo per vendetta. Borsellino, che lo aveva capito, disse a sua moglie che sarebbe stata la mafia a ucciderlo, ma quando altri lo avessero deciso. Lo stesso Riina, intercettato durante un’ora d’aria mentre era detenuto, raccontò a un altro detenuto mafioso che l’omicidio del magistrato fu una cosa decisa alla giornata, perché arrivò “quello” e disse di farlo subito. Chi era “quello”? Uno dei tanti misteri della storia italiana, uno dei più inquietanti.
Roberto Tartaglia, già pubblico ministero nel pool di Palermo, si disse convinto che Paolo Borsellino potesse rappresentare un ostacolo alla prosecuzione della trattativa Stato-mafia.
Oggi alcune cose sono cambiate e le mafie hanno scelto una nuova strategia che ha permesso l’ascesa economica e territoriale. Agli omicidi eccellenti e alle bombe si sono sostituiti incentivi di natura finanziaria, quali la corruzione di pubblici ufficiali e professionisti. La pandemia ha offerto ai capitali delle mafie ulteriori possibilità di riciclo ed emersione, a causa dei problemi finanziari abbattutisi su negozi, imprese e semplici cittadini. Oggi un’altra sponda offerta alle organizzazioni mafiose è rappresentata dai bonus edilizi. Il clan camorristico dei Casalesi parrebbe essere stato il primo ad aver fiutato l’affare, avendo storicamente disponibilità di centinaia di ditte edilizie compiacenti o addirittura allo stesso riconducibili. Solamente l’istituto di Poste Italiane, una delle principali piattaforme per trasformare i crediti in soldi, avrebbe inconsapevolmente monetizzato per il clan diverse centinaia di milioni di euro. Le cifre precise sono in corso di verifica da parte dell’Agenzia delle Entrate. Ma questa è solo la punta dell’iceberg. Secondo i dati della Unità di informazione finanziaria (Uif) della Banca d’Italia, infatti, il 21,4% delle 459 segnalazioni per operazioni sospette legate alla cessione crediti d’imposta nel 2021, ha connessioni a contesti “potenzialmente riconducibili alla criminalità organizzata”. Parliamo di una cifra che si attesta sui 5,6 miliardi di Euro.
L’omicidio di Paolo Borsellino, dopo trent’anni, resta senza colpevoli.
Si sono susseguiti in numero di processi di cui è difficile persino tenere il conto.
Borsellino 1, bis, ter, quater, un giudizio di revisione per rimediare a sette ergastoli inflitti ingiustamente, poi l’atto d’accusa contro quello che è stato definito “il depistaggio più grave della storia repubblicana” e infine il giudizio, ancora in corso in secondo grado, a carico dell’ultimo superlatitante di Cosa nostra: il boss Matteo Messina Denaro.
Senza contare gli appelli e le pronunce della Cassazione. Decine di sentenze che hanno chiarito certamente il ruolo della mafia nell’attentato al giudice Paolo Borsellino e agli agenti della scorta, ma che lasciano ancora senza risposta tanti interrogativi: dalle responsabilità esterne a Cosa nostra, alla sorte dell’agenda rossa, il diario sul quale il giudice scriveva i suoi segreti, sparita nel nulla. Fino ai nomi degli autori del depistaggio delle indagini sull’eccidio. Anni di giudizi senza una verità: un paradosso tutto italiano.
Ma non dobbiamo arrenderci.
La battaglia quotidiana contro la sottocultura mafiosa, anche quella attuale, basata sull’infiltrazione, deve rimanere un impegno quotidiano nella scuola, nelle famiglie, nelle istituzioni. Dobbiamo credere, così come credeva lo stesso Borsellino, che la lotta alla mafia deve essere un movimento culturale e morale, in grado di coinvolgere tutti, specialmente le giovani generazioni, le più pronte a rifiutare il puzzo del compromesso morale e dell’indifferenza.
Le battaglie in cui si crede non sono mai battaglie perse.
Così è, e per questo ancora oggi Paolo Borsellino è vivo tra noi.

Foto di Radio Monte Carlo
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Buon compleanno Anna!

12 giugno. Anche quest’anno vorrei ricordare il tuo compleanno.
Quello di una bambina che non è mai potuta crescere, che non ha conosciuto la pienezza della maturità, che non ha avuto la ventura di sperimentare lo scorrere del tempo che graffia il corpo con i sospiri della vecchiaia.
Dei tuoi pochi compleanni Anna, perché così ti chiamavi, ve n’è uno speciale: quello del 1942, ottant’anni fa.
Era un venerdì, e ti trovavi ad Amsterdam. Mi piace pensare che vi fosse un tiepido sole ad accarezzare il respiro dell’estate che si affacciava timida alle porte del cielo. Anche in Olanda, dove i papaveri si inchinano lieti al vento che sfiora i campi con leggera tenerezza.
Quel giorno compivi tredici anni.
Tra i tanti doni hai ricevuto un diario, con la copertina a quadretti rossi. Per te era il regalo più bello, perché amavi scrivere parole che disegnavano emozioni in un ordito sapiente. Dicevi che “la carta è più paziente degli uomini”. Non immaginavi allora – e come avresti potuto? – che le tue pagine, un giorno, sarebbero divenute famose, lette da donne e uomini di ogni tempo e di ogni Paese.
Due giorni dopo il tuo compleanno hai inaugurato il nuovo diario con queste parole:
“Venerdì 12 giugno ero già sveglia alle sei: si capisce, era il mio compleanno! Ma alle sei non mi era consentito d’alzarmi, e così dovetti frenare la mia curiosità fino alle sei e tre quarti. Allora non potei più tenermi e andai in camera da pranzo, dove Moortje, il gatto, mi diede il benvenuto strusciandomi addosso la testolina. Subito dopo le sette andai da papà e mamma e poi nel salotto per spacchettare i miei regalucci. Il primo che mi apparve fosti tu, forse uno dei più belli fra i miei doni. Poi un mazzo di rose, una piantina, due rami di peonie; altri ancora ne giunsero durante il giorno. Da papà e mamma ebbi una quantità di cose, e anche i nostri numerosi conoscenti mi hanno veramente viziata. Fra l’altro ricevetti un gioco di società, molte ghiottonerie, cioccolata, un puzzle, una spilla, la Camera oscura, le Saghe e leggende olandesi di Joseph Cohen e un po’ di denaro, così che mi potrò comprare i Miti di Grecia e di Roma. Che bellezza!”
Come tutte le ragazze, desideravi un’amica del cuore, a cui confidare i tuoi innocenti segreti. Hai scritto sul diario qualche giorno dopo:
“Ho dei cari genitori e una sorella di sedici anni; conosco, tutto sommato, una trentina di ragazze di alcune delle quali potreste dire che sono mie amiche. Ho dei parenti, care zie e cari zii, un buon ambiente familiare; no, apparentemente non mi manca nulla, salvo l’amica. Con nessuno dei miei conoscenti posso far altro che chiacchiere, né parlar d’altro che dei piccoli fatti quotidiani. Non c’è modo di diventare più intimi, ecco il punto. Forse questa mancanza di confidenza è colpa mia; comunque è una realtà, ed è un peccato non poterci far nulla. Perciò questo diario. Allo scopo di dar maggior rilievo nella mia fantasia all’idea di un’amica lungamente attesa, non mi limiterò a scrivere i fatti del diario, come farebbe qualunque altro, ma farò del diario l’amica, e l’amica si chiamerà Kitty”.
Il mondo era difficile in quegli anni. C’era la guerra. E il nazismo. Le truppe tedesche avevano invaso l’Olanda. Eri ebrea. Purtroppo, per i nazisti, era maledettamente importante. Sai, Anna, sembra incredibile ma per troppi lo è ancora oggi!
Per sfuggire ai soldati sei stata costretta a nasconderti, con i tuoi genitori e un’altra famiglia, in due locali sopra gli uffici di una azienda. L’alloggio segreto, come lo chiamavi.
Hai trascorso due anni in quegli angusti locali, senza mai uscire neppure una volta.
Detestavi la matematica, la geometria e l’algebra, mentre adoravi la storia e le materie letterarie. Ti piaceva tanto la mitologia greca e romana e la storia dell’arte.
A Natale del 1943 hai scritto sul diario:
“Cara Kitty, credimi, quando sei stata rinchiusa per un anno e mezzo, ti capitano dei giorni in cui non ne puoi più. Sarò forse ingiusta e ingrata, ma i sentimenti non si possono reprimere. Vorrei andare in bicicletta, ballare, fischiettare, guardare il mondo, sentirmi giovane, sapere che sono libera, eppure non devo farlo notare perché, pensa un po’, se tutti e otto ci mettessimo a lagnarci e a far la faccia scontenta, dove andremo a finire? A volte mi domando: «Che non ci sia nessuno capace di comprendere che, ebrea o non ebrea, io sono soltanto una ragazzina con un gran bisogno di divertirmi e di stare allegra?»”.
Un giorno un infame, mai identificato, ha segnalato l’alloggio segreto alla Gestapo. Il 4 agosto 1944 le Schutzstaffel – le SS – hanno fatto irruzione nei locali e vi hanno condotto tutti al campo di smistamento di Westerbork. Il 2 settembre foste deportati ad Auschwitz.
Dopo un mese sei stata trasferita con tua sorella Margot a Bergen-Belsen, un campo di concentramento nella bassa Sassonia.
Nel marzo del 1945, neppure conosciamo il giorno preciso, ti sei ammalata di tifo, per le terribili condizioni di vita nel lager
Sei morta a 15 anni e gettata in una fossa comune.
Alla fine della guerra fu ritrovato, nell’alloggio segreto, il tuo diario con le tue ultime parole:
“È un gran miracolo che io non abbia rinunciato a tutte le mie speranze perché esse sembrano assurde e inattuabili. Le conservo ancora, nonostante tutto, perché continuo a credere nell’intima bontà dell’uomo. Mi è impossibile costruire tutto sulla base della morte, della miseria, della confusione. Vedo il mondo mutarsi lentamente in un deserto, odo sempre più forte l’avvicinarsi del rombo che ucciderà noi pure, partecipo al dolore di milioni di uomini, eppure, quando guardo il cielo, penso che tutto volgerà nuovamente al bene, che anche questa spietata durezza cesserà, che ritorneranno l’ordine, la pace e la serenità. Intanto debbo conservare intatti i miei ideali; verrà un tempo in cui forse saranno ancora attuabili”.
Che sia così, lo speriamo anche noi.
Buon compleanno Anna Frank.

Foto Città Nuova Editrice
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Buona Festa della Repbubblica!

2 giugno. Festa della Repubblica.
In ogni Paese la Festa nazionale è un evento di importanza assoluta: pensate al 14 luglio nella vicina Francia, oppure al 4 luglio per gli statunitensi.
In Italia, al contrario, il 2 giugno non è mai diventato un momento di celebrazione e coinvolgimento popolare. Al punto che dal 1977 al 2001, per ben ventiquattro anni, la festività fu soppressa, riservando qualche modesta celebrazione, perlopiù di impronta militare, alla prima domenica di giugno. Una specie di festa della mamma o dei nonni, insomma. Facendo del nostro Paese l’unico privo di una celebrazione nazionale, dato che con la stessa legge del 1977 fu abolita anche la Festa dell’Unità Nazionale, che si celebrava il 4 novembre a memoria della vittoria nella Prima Guerra mondiale.
Nulla avviene a caso.
In molti avevano pensato, in quel lontano 1946, che l’Italia potesse iniziare un inarrestabile cammino di crescita morale e culturale. Approfittando di quello che Piero Calamandrei definì un autentico “miracolo della ragione”: una Repubblica proclamata per libera scelta di popolo mentre era ancora sul trono il re.
Al contrario tale momento di gioia e di festa fu ben presto offuscato, o forse deliberatamente emarginato.
Il nostro è un Paese che non ama la storia, men che meno la sua.
Ancora oggi i testi scolastici poco si occupano della nascita della Repubblica e, comunque, in modo superficiale e anacronistico. Generalmente liquidano il 2 giugno in cinque righe e restituiscono una visione molto semplificata dell’origine della Repubblica, nata malamente in un’Italia spaccata in due e con una debole legittimazione popolare. Visione che una banale analisi da “rotocalco” dei dati sarebbe sufficiente a smontare. Lo storico Maurizio Ridolfi ha osservato che bastano solo due cifre per scardinare l’immagine di un’Italia settentrionale interamente proiettata verso la Repubblica e un’Italia meridionale interamente monarchica: il 40 per cento degli italiani che votarono per il re viveva tra Torino, Milano e Padova. E il 20 per cento dei voti repubblicani era concentrato nel Meridione, e fu decisivo!
Neppure i partiti usciti dal secondo dopoguerra amavano fino in fondo il 2 giugno. Le forze moderate e centriste per il timore di un nazionalismo che potesse ricordare alcuni aspetti del “ventennio”. Il mondo cattolico per una diffusa e per certi versi inconscia ostilità verso lo Stato seguita a Porta Pia, al Sillabo e al celebre non expedit. La sinistra per la sua diffidenza verso le manifestazioni di patriottismo e le esibizioni militari. Allora, perlomeno, quando era impensabile che il leader del principale partito di sinistra fosse candidato alla segreteria generale della NATO.
Venne così meno la risorsa identitaria del patriottismo costituzionale, ossia quella che meglio qualifica e protegge il carattere democratico-pluralistico della res publica attraverso il principio del riconoscimento reciproco dell’identità culturale e della legittimità politica delle parti in competizione democratica, principio in base al quale ciascuna parte interpreta sulla scena la propria legittima versione della patria repubblicana, dalla posizione di maggioranza vincitrice o da quella di minoranza all’opposizione.
Abbiamo scordato che la Repubblica, e con lei la Costituzione, sono una grande vittoria, in un Paese che non è più capace di raccontare vittorie ma preferisce celebrare vittime. I nostri costituenti non sono morti per la Repubblica, ma sono rimasti vivi per costruirla e difenderla. Calamandrei diceva ai ragazzi che la Carta non è una macchina che una volta messa in moto va avanti da sé: perché si muova bisogna ogni giorno rimetterci dentro il combustibile, ossia l’impegno e la responsabilità. Della nostra legge fondamentale rimane oggi il mito (la costituzione più bella del mondo) ma non la consapevolezza di un sentimento collettivo.
Occorre ristabilire il primato del 2 giugno quale Festa fondante del nostro Paese.
E’ necessaria una festa nazionale che ci induca a riflettere sul nostro Paese, sui suoi tanti problemi ma anche sulle sue infinite potenzialità.
Per raccoglierci intorno a un denominatore comune che ci porti a uno slancio di rinascita.
Dobbiamo liberarci di molte zavorre che rallentano l’Italia e la portano a essere una realtà di cui talora, confessiamolo, ci vergogniamo un po’.
Della corruzione, della “furbizia”, di quell’individualismo meschino che ammorba la società.
Da quel “particolarismo” che da geografico si è mutato in difesa degli interessi di singole categorie che ambiscono a essere caste.
Di una classe politica ormai palesemente inidonea a governare il Paese.
Diceva De Gasperi, citando a sua volta il predicatore unitariano James Freeman Clarke, che mentre un politico pensa alle prossime elezioni, un uomo di stato deve avere a cuore la prossima generazione.
Noi abbiamo una classe politica che guarda ai sondaggi e ha come termine ultimo la prossima consultazione elettorale!
Ci occorre una autentica Festa Nazionale, che ci ricordi anche le meraviglie del nostro Paese, la sua storia, la sua cultura, l’arte e le lettere. La cultura che ha unificato il Paese, che ha saputo esprimere Svevo e Pirandello, D’Annunzio e Pascoli, Pavese e Vittorini. Che ha dato vita a forme d’arte inimitabili.
Che ci renda fieri della nostra appartenenza. Non con un sentimento di arido nazionalismo, ma con una feconda consapevolezza che ci induca a combattere i troppi mali che affliggono l’Italia.
E’ compito della cultura agevolare questo. E’ compito della scuola.
Cessiamo di penalizzare la scuola con investimenti vergognosi. L’Italia è all’ultimo posto nell’Europa per gli investimenti nell’istruzione, con il 7.9% della spesa contro una media superiore al 10%. Germania e Francia sono sopra il 10%, addirittura la Svizzera e l’Islanda al 16%. Persino la Grecia ci supera con l’8,5%.
Dobbiamo vivere di un patriottismo che non sfoci nel nazionalismo, ma che si apra ad un respiro europeo, con l’ambizione di essere protagonista. Di un Europa diversa però, che non sia né un mero e arcigno revisore di conti altrui né un asettico bancomat a cui attingere nei periodi di crisi. Bensì una cassa di risonanza di valori e cultura.
Forse l’Europa si è estesa troppo negli ultimi anni, accogliendo Paesi che non ne condividono appieno i valori fondanti. Molti Paesi dell’Est Europa sono forse stati accolti con eccessivo slancio, in quanto portatori di una propria interpretazione dei principi democratici che sono alla base della idea fondante dell’Unione Europea. Si tratta di un contrasto che mette in evidenza una profonda diversità sulla visione dell’Unione e sul suo futuro. Mettere in discussione i principi legati allo Stato di Diritto significa prospettare un diverso ruolo dell’UE nel rispetto dei diritti dell’uomo basati sulla Carta dei diritti fondamentali. Neppure in una bocciofila si entra senza condividere integralmente lo statuto!
Festeggiamo dunque la nostra Festa Nazionale, con la discrezione della consapevolezza.
Rammentiamo che la nostra Repubblica, la Costituzione e le nostre istituzioni sono ciò che ci siamo dati nel momento in cui eravamo sobri, a valere per i momenti in cui siamo sbronzi.
Buona Festa della Repubblica!

Foto de “Il Messaggero”
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Il 25 aprile e la Pace

25 aprile. Una data fondamentale per il nostro Paese.
Non solo per “qualcuno”, non per “una parte” dell’Italia. Ma una festa di tutti, nessuno escluso; qualunque siano le proprie convinzioni.
In questo giorno non si festeggia una vittoria militare: la guerra, in Italia, terminò infatti il 3 maggio. Si festeggia una riscossa civile. Come disse Piero Calamandrei “il carattere che distingue la Resistenza da tutte le altre guerre, anche da quelle fatte da volontari, anche dall’epoca garibaldina, è stato quello di essere più che un movimento militare, un movimento civile”.
Troppo spesso, infatti, rammentiamo la Resistenza armata a scapito di quella “disarmata”, disconoscendo la dignità, la forza, la caparbietà di tanti “civili” – in gran parte donne, vecchi e bambini – che dall’entrata in guerra dell’Italia fino alla Liberazione dovettero convivere con la disoccupazione e la fame mai saziata dai razionamenti. Furono eroiche soprattutto le donne che per tanti mesi lavorarono per un salario di fame, fecero lunghe ed estenuanti code per comprare qualcosa per i propri figli a casa, sempre con il pensiero costante al figlio o al marito in qualche lontano fronte di guerra.
In quel giorno del 1945 era nata l’illusione che l’idea stessa di guerra fosse sconfitta e che ci attendesse un futuro di pace e benessere.
Un’illusione, purtroppo.
I conflitti non sono mai cessati. Già nel 1946 iniziarono la guerra in Indocina e quella civile in Grecia. Ma neppure un anno, da allora, è trascorso senza battaglie e vittime. Solo che queste erano quasi sempre lontane dal cosiddetto Occidente e, di conseguenza, meno degne di attenzione da parte dei mezzi di informazione.
Ora, al contrario, anche il nostro continente è scenario di un conflitto, che si aggiunge, giova rammentare, agli altri 58 sparsi per il mondo, come ci ricorda l’organizzazione “The Armed Conflict Location & Event Data Project (ACLED)”.
Non che sia la prima volta per l’Europa nel dopoguerra. Ben rammentiamo, infatti, il conflitto nei Balcani all’inizio degli anni ’90, con decine di migliaia di vittime, per la gran parte donne e bambini. Quanto accadde in quegli anni fece impallidire l’operato del nazismo: ricordiamo solamente la strage di Srebrenica, avvenuta con la complicità dei “caschi blu” dell’ONU presenti, che consegnarono addirittura donne e bambini agli aguzzini e fornirono i buldozer per coprire le fosse comuni. Nel 2015 un’inchiesta del giornale britannico “The Observer”, sulla base di alcuni documenti declassificati dalla Gran Bretagna, dimostrò gravissime responsabilità di Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna e delle stesse Nazioni Unite che, in nome della realpolitik, preferirono accettare le migliaia di morti di Srebrenica pur di raggiungere un accordo con Milošević. Ma, lo sappiamo, non tutte le vittime sono eguali, neppure in Europa.
In questi giorni è l’Ucraina scenario di una nuova battaglia.
Una guerra che ci riporta in pieno Novecento. Senza tecnologie, droni e aerei senza pilota, ma con cannoni, bombe, carri armati e soldati.
E’ necessario usare ogni sforzo diplomatico, nessuno escluso, per giungere a una immediata cessazione delle ostilità.
Non credo che insistere nell’armare una delle parti, ancorché sia la parte aggredita, con ordigni sempre più sofisticati e potenti sia nell’interesse della pace. Semmai giova a ben altri interessi.
Nel 1972, nel corso dell’inchiesta dell’Washington Post denominata “scandalo Watergate”, Mark Felt, confidente segreto dei giornalisti Woodward e Bernstein, usò la celebre frase “follow the money” (seguite i soldi), poi ripresa da Giovanni Falcone con eccellenti risultati contro la mafia.
Seguendo il denaro capiamo come il perdurare del conflitto giova ai gruppi industriali che sostengono più fermamente, da dietro le quinte, i mastini della guerra dei salotti atlantisti. L’industria bellica, le compagnie di combustibili fossili minacciati dalla conversione energetica, la lobby dell’industria pesante hanno sempre considerato la guerra e le ricostruzioni un’immancabile occasione per enormi profitti. L’autoesclusione della Russia, se dura, dal mercato del gas, del petrolio e dell’agricoltura di base lascia spazio ai suoi competitor che, a prezzi di molto più alti, sono pronti a incassare gli extraprofitti. La sintesi di questa realtà è racchiusa in una frase di John D. Rockfeller riferita ai mercati finanziari: “Compra quando scorre il sangue nelle strade”.
Giova, soprattutto, alla potentissima industria delle armi. Negli ultimi dieci giorni l’amministrazione americana ha stanziato circa un miliardo di dollari in forniture all’Ucraina per fronteggiare l’avanzata russa nel Paese. Una cifra che raddoppia se si tiene conto del totale delle forniture inviate da Washington a Kiev in poco più di un anno, ovvero da quando Joe Biden è diventato capo della Casa Bianca. Numeri impressionanti che dimostrano un cambio di marcia netto rispetto ai predecessori, Trump e Obama, che non solo avevano stanziato fondi ben inferiori, ma avevano anche effettuate spedizioni di materiale non letale. L’industria italiana delle armi, in primis Leonardo, è anch’essa tra i beneficiati dalla guerra. Azienda tra le prime nel mondo e con notevoli addentellati con i partiti politici. Tanto potente che la Fondazione Med-Or, dalla stessa fondata e presieduta dall’ex ministro in quota PD Marco Minniti, ha sottoscritto un accordo di collaborazione per la predisposizione di analisi e studi sperimentali di previsione strategica con il Ministero degli Esteri: in altre parole il governo ha come consigliere per gli scenari esteri una fondazione dell’azienda di armi.
Ritengo che oggi lo sforzo di tutti i Paesi debba essere quello di porre fine alle ostilità, dando vita a ogni iniziativa diplomatica. Di perseguire un accordo che tenga ovviamente conto delle necessità inderogabili dell’Ucraina, che è e rimane il Paese aggredito, ma che, al tempo stesso, abbia la lungimiranza di rispettare le esigenze di sicurezza della Russia, in particolar modo quella di non avere intorno a sé Paesi armati da potenze avversarie.
Si tratta della cosiddetta “Dottrina Monroe”, elaborata proprio dagli Stati Uniti negli anni venti dell’800, che vietava l’intromissione di forze esterne in America Latina. Ricordate la crisi di Cuba del 1962, allorquando l’allora Unione Sovietica stava per installare missili con testate nucleari nell’isola e J. F. Kennedy, in un discorso alla nazione, prospettò l’ipotesi di un conflitto nucleare? I missili puntati sulle proprie città dalla propria soglia non piacciono a nessuno!
In questa ricorrenza è davvero importante invocare la pace!
Perché il 25 aprile non è una Festa di guerra, ma di Pace e di Liberazione dalla violenza in ogni sua forma.
In questo senso penso che la più bella celebrazione di questa ricorrenza abbia avuto luogo stamane, con un giorno di anticipo. Alludo alla Marcia per la Pace di Assisi, dove un fiume di persone di diversa estrazione, provenienza e ideologia, alle quali ha rivolto il suo saluto e ringraziamento Papa Francesco, hanno sfilato chiedendo la cessazione della guerra. Il portavoce dei francescani ha detto che, pur nella consapevolezza dei diversi ruoli tra aggressore e aggredito, l’invito a fermarsi deve essere unanime.
Un 25 aprile come festa di Liberazione e di riunificazione, ma anche di pace.
Perché la pace non è sufficiente a garantire la libertà. Ma senza la pace non può esistere libertà.
Buon 25 aprile.

Disegno di Money
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Pesach

Pasqua significa “passaggio”, “passare oltre”, dall’aramaico pasah. Gli Ebrei in questa festa, che chiamavano
Pesach, ricordavano il passaggio attraverso il mar Rosso dalla schiavitù d’Egitto alla liberazione. Per i
cristiani è la festa del passaggio dalla morte alla vita di Gesù Cristo.
Quest’anno abbiamo realmente bisogno che la Pasqua rappresenti un passaggio: verso un futuro diverso e
migliore.
Mentre ancora viviamo la pandemia di Covid, che nonostante una minor attenzione da parte dei mezzi di
comunicazione continua a mietere oltre cento vittime al giorno, sperimentiamo anche una guerra nel
nostro continente. Una Pasqua di sangue, potremmo dire. Ancora una volta. La prima occasione in cui
venne utilizzata questa espressione fu nel 1916, allorquando a Dublino gli irlandesi insorsero contro il
dominio britannico. Le truppe della “democratica” Gran Bretagna risposero utilizzando, per la prima volta, i
carri armati contro i civili. Gli organizzatori delle manifestazioni che non morirono sotto il fuoco dei blindati
finirono giustiziati.
Oggi, ancora una volta, la guerra insanguina la Pasqua in Europa. Nel nostro continente, certo, perché in
altre parti del mondo i conflitti perdurano da anni, senza che siano accompagnati da eguale clamore.
Non ho scritto, in queste ultime settimane, di questa vicenda. Sia per la sua cogente e dolorosa tragicità, sia
per il fatto che meriterebbe riflessioni profonde, condotte con una ragionevolezza che vedo carente nel
dibattito in essere.
Esiste un Paese aggressore e uno aggredito. Non ci piove ed è una realtà indiscutibile.
Punto e a capo, però. Non punto e basta! Condannare fermamente ma cercare di comprendere la realtà, le
cause e i possibili scenari futuri è ciò che distingue un essere senziente e ragionevole da un fanatico
pappagallo.
Vi è una frase di Edmund Burke, della seconda metà del ‘700, che campeggia, incisa in trenta lingue diverse,
su un monumento collocato nel campo di concentramento di Dachau: “Chi non conosce la storia è
condannato a ripeterla”.
Pare invece essere in atto una campagna mediatica ispirata dai grossi gruppi editoriali per cui chiunque
voglia approfondire o capire meglio quanto sta accadendo diviene ipso facto un seguace di Putin, il che è
assurdo.
Persino un giornalista solitamente misurato come Gramellini si è esibito in un articolo contro l’Associazione
dei Partigiani davvero vergognoso, in cui è giunto ad accusare i vecchi partigiani di aver tradito i valori della
Resistenza e di omaggiare l’estrema destra ungherese per la disposizione dei colori della bandiera
(ignorando, Gramellini, che tale disposizione era quella utilizzata dalla Resistenza nel ’44) e per la
contrarietà all’invio di armi al governo ucraino e all’aumento di spese militari. Se questo significa tradire i
valori della Resistenza e financo essere contigui al fascismo allora potremmo individuare in Papa Francesco
il leader assoluto di questo fantomatico neo-fascismo!
E’ invece doveroso porsi domande su quali siano le strade migliori per giungere in fretta al termine del
conflitto e su quale ruolo possa svolgere in questa situazione la diplomazia e, in primis, l’Europa, teatro di
questa tragedia.
Temo tuttavia che proprio l’Europa, sino ad oggi, sia una delle vittime della guerra.
Assolutamente privi di ogni iniziativa, che non sia occasionale e singola, i paesi europei si sono totalmente
appiattiti, ancora una volta, sulle posizioni degli Stati Uniti. Ma siamo certi che gli interessi americani
coincidano con quelli europei e, ancor di più, con i nostri?
Personalmente ne dubito fortemente.
Di certo agli Stati Uniti non è utile una rapida cessazione della guerra. Innanzitutto perché un conflitto
prolungato tenderebbe a indebolire Putin. Poi perché il tempo potrebbe, nei loro disegni, imporre
definitivamente l’influenza e il controllo sull’Europa, grazie anche al monopolio digitale delle cosiddette Big
Tech: non dimentichiamoci la lettera acida e minacciosa inviata dall’amministrazione Biden a Bruxelles lo
scorso febbraio in occasione dell’emanazione di un pacchetto di leggi tese a limitare lo strapotere dei
colossi Tech statunitensi. Un altro motivo consiste nel tentativo di sostituirsi nel ruolo di fornitore di beni e
prodotti ai partner europei, come già iniziato con granaglie, petrolio e gas liquefatto. A costi, ovviamente, ​
ben più onerosi. Infine, come spesso accade negli USA, una guerra aiuta la popolarità della leadership. Il che
è particolarmente utile in un momento in cui Biden, dipinto dai media americani come “un anziano che dice
cose sconclusionate” (un “rincoglionito” ha chiosato con minor eleganza Travaglio) è precipitato ai minimi
storici del gradimento.
L’Europa, da parte sua, ha invece il contrario interesse ad una rapida chiusura del conflitto che, in ultima
analisi, è una guerra “per procura” tra Putin e Biden tramite il suo emissario Zelensky. Non solo per motivi
economici, essendo i paesi europei a pagare il costo maggiore della situazione, ma – e soprattutto – per
motivi umanitari.
L’Unione Europea dovrebbe adoperarsi, in autonomia, non già nell’invio sempre maggiore di armi (fatto,
peraltro di dubbia costituzionalità, come ha recentemente argomentato Lorenza Carlassare, docente di
Diritto Costituzionale all’Università di Pavia) ma perché si giunga ad un immediato cessate il fuoco che
consenta l’avvio di una vera trattativa. Sforzo che può compiere solo agendo in prima persona, e non in
qualità di subordinato altrui. Quindi è necessario che stabilisca e disciplini il rapporto con Kiev, desiderosa
di entrare in Europa. E, da ultimo, che affronti di petto il problema della convivenza con Mosca, aldilà di
Putin e anche in funzione di un suo ridimensionamento. Non è pensabile, storicamente e culturalmente,
un’Europa senza Russia.
Occorre – in altre e più semplici parole – uno sforzo immenso verso la pace.
Che è il percorso indicato ieri sera da Papa Francesco, che ha posto accanto una donna russa e una ucraina
nella via crucis, a testimonianza di un immenso dolore che è un’atrocità umana.
Come ha detto il gesuita Padre Antonio Spadaro, è necessario partire dal disarmo delle coscienze, dalla
velleità della pace.
Partiamo da queste basi, cercando la pace e la concordia. Facciamo cessare il rombo delle armi, come
ancora ha ripetuto il pontefice.
Solo così sarà davvero “pasah”, un passare oltre, verso un futuro diverso.
Per l’Ucraina, per la Siria, per lo Yemen, per gli altri 25 Paesi del mondo coinvolti in guerre.
E allora sarà realmente una Buona Pasqua.

Foto di “Avvenire”
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La notte degli Oscar e lo schiaffo

In giorni tristi di guerra e pandemia mi è parso perlomeno eccessivo lo spazio dedicato dai mezzi di comunicazione a quanto accaduto nella cosiddetta “notte degli Oscar”, allorquando l’attore Will Smith è piombato sul palco del Dolby Theatre di Los Angeles per rifilare un ceffone in pieno volto al comico Chris Rock, reo di aver pronunciato una battuta sul taglio di capelli della moglie Jada Pinkett-Smith, da anni affetta da alopecia.
Ciò che mi ha colpito è stato che, quasi unanimemente, i commenti sono stati rivolti, con diverse sfumature, al gesto – certamente sbagliato – compiuto dall’attore americano.
Premesso che ogni gesto di violenza è sbagliato, e quindi anche quello di Will Smith, personalmente punterei il dito – al contrario – sul comico Chris Rock, autore delle battute sui problemi di salute della consorte dell’attore.
Ma che comicità è quella che irride a un problema di salute? Che ironia è scherzare su di una patologia certamente foriera di imbarazzo e di disagio?
Non è comicità: è bullismo da quattro soldi. Sono battutacce da osteria malfamata, da cialtrone privo di ogni senso di rispetto per il dolore. Né mi si venga a dire, come qualche osservatore ha fatto, che negli Stati Uniti una simile forma di comicità è da tempo “sdoganata”. Nella patria della violenza e dell’individualismo più becero sarà anche vero, ma non è la deriva morale a giustificare l’inescusabile.
Ha sbagliato Will Smith a tirare un ceffone al comico. Avrebbe dovuto semplicemente alzarsi in piedi e scandire la pura verità: che Chris Rock fa schifo, come comico e, soprattutto, come uomo.

Foto del settimanale “Amica”
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Nessuna esclusa

Sono giorni tristi questi.
Una pandemia tragica è ancora lontana dalla conclusione. Nelle scorse ore si sono registrati oltre 41 mila casi: gli stessi del novembre 2020, anche se, grazie alla campagna vaccinale, i morti sono diminuiti.
A questo dramma, che certamente non è poco, si sono aggiunte le azioni di guerra che scuotono in questi giorni l’Ucraina.
Un quadro fosco, un connubio inquietante che diffonde una sensazione diffusa di paura.
Al timore per una pandemia mai sperimentata da chi oggi vive si è aggiunta l’angoscia per un conflitto nel nostro continente, che ormai consideravamo indenne da tali flagelli.
In tale contesto si celebra oggi l’8 marzo.
Credo sia evidente a tutti come tale giornata, quest’anno, assuma una dimensione diversa e, certamente, più ampia, laddove ogni aspetto di futile celebrazione floreale lascia il campo a riflessioni articolate e più esaustive.
I principali mezzi di comunicazione hanno dedicato l’odierna ricorrenza alle “donne ucraine”.
Ineccepibile rivolgere loro un pensiero in giornate così dolorose e drammatiche.
Ineccepibile ma limitativo, frutto forse di una giustificata onda emotiva e di una narrazione in verità piuttosto standardizzata.
Credo che un pensiero debba essere rivolto anche alle donne russe, perché se è terribile essere coinvolte in un conflitto lo è anche veder partire i propri figli per una guerra che, magari, neppure si comprende né si condivide.
Così come dobbiamo ricordare le donne afghane. Dimenticate prima dalle forze militari occidentali, in primis da quelle della Nato, in una vergognosa quanto disordinata fuga e oggi del tutto scordate dai mezzi di informazione, che hanno steso su di loro un velo di imperdonabile oblio. Essere frustate per una passeggiata in solitudine, allontanate dallo studio, impedite nell’igiene personale svolta negli hammam, costrette a matrimoni con i guerriglieri talebani e talora costrette alla vendita dei loro figli per sopravvivere non è certo scenario migliore. Anche se non accade in Europa.
Dovremmo inoltre dimenticare duecento milioni di ragazze africane sottoposte a mutilazioni genitali femminili?
O le donne curde, siriane, libanesi, yemenite, haitiane o del Myanmar che da anni combattono, soffrono e convivono con inesplicabili guerre divenendo spesso profughe prive di soccorso? Forse perché tali conflitti avvengono lontano dal nostro continente?
La lezione che dobbiamo trarre da questi giorni difficili e tragici è che l’8 marzo non è una serata in compagnia o un mazzo di mimose.
Mai come quest’anno deve essere un’occasione per scorgere nel mondo il dramma delle donne private dei loro diritti e la necessità di un profondo cambiamento.
Guardando anche, come ovvio, al nostro Paese.
Perché anche in Italia molto rimane da fare per l’universo femminile.
Ci sono le 119 donne vittime di femminicidio nel 2021, con un collaterale aumento dei casi di stalking, maltrattamenti e violenza sessuale, cresciuti del 30%.
Ma ci sono anche situazioni meno eclatanti, che non godono delle luci della cronaca, ma che costituiscono uno stillicidio di prepotenza e ingiustizia.
Persistono purtroppo ingiustificabili divari, per esempio, nel lavoro e a livello di retribuzioni, nelle posizioni dirigenziali e nella partecipazione alla vita politica e istituzionale.
Secondo un recente studio, rispetto agli uomini più donne concludono gli studi universitari, con voti migliori e prendono parte a esperienze di tirocinio curriculare, nonché di lavoro durante gli studi e di formazione all’estero. Ma tutto questo non sana le inique differenze: il tasso di occupazione dei laureati di secondo livello, a cinque anni dal titolo, è dell’85,2 per cento per le donne e del 91,2 per cento per gli uomini.
A cinque anni dalla laurea gli uomini percepiscono, in media, circa il 20 per cento in più e svolgono professioni maggiormente qualificate. E il divario si amplifica in presenza di figli, perché la maternità e il lavoro continuano a essere inconciliabili per troppe madri.
Esiste poi l’intramontabile – e immarcescibile – repertorio di luoghi comuni e di stereotipi sulle donne. Espressioni che feriscono, segnano confini di genere e costringono le donne in ruoli prestabiliti, imprigionandole in una gabbia invisibile e inviolabile.
Luoghi comuni che troppo spesso tendiamo a cogliere con un sorriso di imbarazzo o, al più, con un senso di fastidio, anziché con l’indignazione che dovrebbero suscitare.
L’8 marzo di quest’anno, come sempre dovrebbe essere ma oggi ancor più, non è pertanto una “festa”, bensì una celebrazione dedicata ai diritti delle donne.
Di ogni parte del mondo e di ogni età.
Perché un mondo senza le donne sarebbe solo un malinconico errore.

Foto: Ministero della Salute – Italia