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Una lezione inascolata

Lo scrittore britannico Aldous Huxley, celebre per i suoi romanzi di narrativa distopica, affermava che il fatto che gli uomini non imparino molto dalla storia è la lezione più importante che la storia stessa ci insegna. Triste ma, purtroppo, vero.
L’avvenimento che oggi vorrei ricordarvi ne è l’ennesima conferma: 1.917 persone morirono in quella circostanza. Eppure, vien da dire, invano.
Era il 9 ottobre del 1963.
Quella sera gli abitanti di Erto e Casso, due paesi che sorgono nella valle del torrente Vajont, in provincia di Belluno, si godevano il riposo dopo una giornata di duro lavoro, faticoso come lo è in montagna. A monte di questi paesi sorgeva quella che allora era la più grande diga del mondo: la diga del Vajont.
Alle 22 e 39 una frana di 270 milioni di metri cubi si staccò dal fianco del Monte Toc, che costeggiava la diga, precipitando nel lago artificiale appositamente creato. Tutta la costa della montagna, larga quasi tre chilometri e costituita da boschi, campi coltivati ed abitazioni, affondò nel bacino sottostante, provocando addirittura una scossa sismica.
La frana non colpì direttamente la diga, che infatti non crollò. Tuttavia, riempendo l’invaso di detriti, fece sì che la massa liquida si innalzasse, formando un’onda alta 250 metri, che si divise in tre parti. La prima colpì il comune di Casso. La seconda si diresse verso Erto. La terza onda, di 50 milioni di metri cubi d’acqua e di roccia, scese a valle verso Longarone a 80 km all’ora, creando un vento impetuoso e sempre più intenso, che aveva una potenza, pensate, pari a quella dell’onda d’urto creata dalla bomba di Hiroshima.
Allo sbocco della valle del Vajont l’onda era alta 70 metri.
Gli abitanti di Longarone, dopo l’interruzione della corrente elettrica, videro il cielo illuminarsi di lampi: erano gli elettrodotti austriaci in corto-circuito che, prima di esser divelti dai tralicci, illuminarono a giorno la valle. Subito dopo arrivò il vento, che toglieva il respiro. Alle 22 e 43, quattro minuti dopo la frana, l’onda piombò su Longarone, polverizzando persone e case. Il livello del fiume Piave si alzò di 12 metri e, dopo 15 minuti, l’onda di riflusso tornò a spianare tutto, trasformando il paesaggio in una brulla spianata di fango. In totale morirono 1.917 persone, di cui 487 bambini e ragazzi; 451 vittime non sono mai state ritrovate.
Le vicende che portarono a questa immane tragedia furono lunghe e lastricate da errori, superficialità e irresponsabilità.
L’idea di sfruttare le acque del Vajont per fini economici risale al 1900, quando un piccolo industriale, Gustavo Protti, presentò la domanda per la costruzione di una piccola diga.
Ma presto l’idea di un maggior utilizzo si fece strada in alcuni imprenditori. Fu così che l’ing. Carlo Semenza (che firmerà poi tutti i successivi progetti, fino all’ultimo) presentò nel 1929 un progetto per la costruzione di una diga che avrebbe dovuto raggiungere i 130 metri di altezza e contenere un invaso di oltre 33 milioni di metri cubi d’acqua. Nel 1937 venne presentato un nuovo progetto, ancora più faraonico, che prevedeva la costruzione di una diga di 190 metri di altezza, in grado di creare un bacino di 46 milioni di metri cubi d’acqua. Infine, nel 1952, a seguito di un decreto presidenziale, si diede il via al progetto del “Grande Vajont”. L’altezza dell’opera era stata portata a 263 metri, facendo della struttura la diga più grande del mondo.
Sin dall’inizio dei lavori gli abitanti della vallata espressero molte perplessità, ben consapevoli della fragilità della montagna sovrastante l’invaso artificiale.
Già durante i lavori di costruzione si notarono movimenti del suolo e smottamenti. Non è certo un caso che il nome Toc, attribuito al monte, sia l’abbreviazione di “patoc”, che in friulano significa marcio. Nomen omen, insomma.
La SADE, società costruttrice, a seguito di questi segnali di allarme chiese una ulteriore perizia geologica a Leopold Müller, ingegnere geotecnico fondatore della scuola di Salisburgo. L’austriaco effettuò opportuni carotaggi, stabilendo che sul monte Toc si trovava una frana antica larga un paio di chilometri, profonda centinaia di metri.
Come se tutto ciò non fosse sufficiente il 4 novembre 1960 una prima frana di 800.000 metri cubi di roccia precipitò nel lago artificiale. Segnale perlomeno inquietante, ma evidentemente non sufficiente ai fini di un ripensamento.
Una giornalista cominciò ad indagare sulla diga e riportò i fatti e le preoccupazioni degli abitanti della zona: si chiamava Tina Merlin. A causa di uno dei suoi articoli venne accusata dalla società costruttrice Sade di “diffondere notizie false e tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico” e rinviata a giudizio, dove peraltro venne assolta in quanto nelle sue denunce “non vi sarebbe nulla di falso, esagerato o di tendenzioso”.
A seguito dei preoccupanti segnali nell’aprile del 1963 vennero effettuate prove di invaso e svaso, con successivi riempimenti e rapidi svuotamenti del bacino. Anche questi risultati avrebbero dovuto far riflettere. Al crescere del livello dell’acqua diminuiva infatti la coesione tra le rocce, mentre il rapido svuotamento del lago indeboliva ulteriormente la compattezza.
Nei primi giorni di quel tragico ottobre gli abitanti di Erto e Casso videro i pini e i larici inclinarsi verso il lago. Sulle strade comparvero buche profonde ed irregolari. Il 7 ottobre, Guglielmo Celso, sindaco di Longarone, contattò ripetutamente Prefettura e Genio Civile esprimendo la propria preoccupazione: da questi ricevette l’invito a non provocare inutili allarmismi.
Si giunse, quindi, alla notte del 9 ottobre: il più grande disastro mai avvenuto in Europa.
Il tentativo di insabbiare cause e responsabilità fu immediato e ben orchestrato.
In questo fu pienamente complice la stampa italiana, da subito pronta ad attribuire alla fatalità e a un destino crudele la responsabilità di quanto occorso. Giorgio Bocca, tra i molti, si prodigò in questa direzione: “Non c’era niente da fare, non ci sono rimorsi, non ci sono colpevoli. Ci siamo solo noi, i moscerini, che vogliamo (…) dichiarare guerra alla natura”.
Solo la stampa estera raccontò le responsabilità: con gli articoli del New York Times, dell’Herald Tribune e di Le Monde emerse chiaramente la verità. Ma a quei tempi non c’era internet e quasi nessuno leggeva i giornali stranieri.
Da una così immane strage sortirono in sede giudiziaria condanne irrisorie. Di tutti coloro che furono imputati solo due furono condannati: l’ingegnere capo Alberico Biadene a cinque anni (con tre di condono) e Francesco Sensidoni, membro della commissione di collaudo, a tre anni e otto mesi (anch’egli con tre di condono).
Quella tragedia, purtroppo, resta una lezione inascoltata in un’Italia di ponti che crollano, di frane che distruggono, di montagne che si sfaldano a ogni pioggia e di fiumi che si fanno strumento di morte a ogni perturbazione.
Un Paese dove ancora ci si fa beffe della sicurezza e l’incuria svetta vincente, brandendo lo stendardo fasullo della carenza di risorse. Sotto la bandiera unificante ed umiliante della corruzione.
Per questo oggi è ancora inascoltato il grido delle vittime del Vajont.
Un urlo strozzato nella gola dal vento e dalla furia delle acque. Ma soprattutto dalla pavida incoscienza e dalla disonestà ancor più radicatesi.
Ascoltiamo quel grido, affinché si faccia monito.

Foto unsertirol24

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Noi, da tempo, abbiamo scelto la vita

11 settembre 2001: esattamente 20 anni fa.
Una data che ha scandito la nostra storia recente, quasi un contrafforte tra due epoche.
Due aerei provenienti da Boston e diretti a Los Angeles furono dirottati e lanciati contro le due torri dell’Word Trade Center a New York. Un altro aereo, a sua volta dirottato, fu fatto precipitare sul Pentagono. Un quarto velivolo, probabilmente destinato a colpire la Casa Bianca, si schiantò in Pennsylvania per l’eroica ribellione dei passeggeri che avevano saputo degli altri attentati e preferirono farlo cadere prima.
I morti di questa indimenticabile giornata furono 2.966. Non dobbiamo dimenticare anche le vittime successive, uccise da tumori e altre malattie provocate dalle esalazioni degli incendi: sono ad oggi oltre quarantamila.
Non fu un attacco agli Stati Uniti. Le vittime appartenevano a oltre settanta diverse nazionalità. Oltre 400 erano musulmane.
Fu un attacco al mondo libero, ai valori di dignità e eguaglianza così insopportabili al terrorismo islamico. Un vulnus a chi viveva nella convinzione che il dialogo e il rispetto fossero i sentieri da percorrere nel cammino verso il futuro.
Questo anniversario, il ventesimo, coincide con il ritiro delle forze occidentali dall’Afghanistan, dove – vent’anni fa – fu programmata e decisa la mattanza dell’11 settembre.
Devo ribadire il mio profondo dissenso verso tale scelta: tragica, pericolosa e inutile. Non nell’interesse degli afghani e non nel nostro. Solo un affettato rigurgito di sovranismo para-nazionalista ha indotto Trump a programmare il ritiro e l’attuale presidente Biden a portarlo – malamente – a conclusione.
Tale ripiegamento culturale verso la politica definita dallo slogan America First (che produce una curiosa assonanza “immorale” con il nostrano assioma “prima gli italiani”), non tiene in alcun modo conto della grande novità introdotta proprio dalle stragi dell’11 settembre: la globalizzazione del terrore.
Fu proprio con quell’attentato che ci rendemmo conto che il mondo era ormai uno scenario unico e che le decisioni criminali prese in un deserto remoto di un paese dell’Asia Centrale potevano portare – come hanno portato – a migliaia di morti in tutto il mondo. Perché la spinta che induce uno jihadista a farsi esplodere non è l’odio verso una nazione, una città, una discoteca o un ristorante. Ma quello nei confronti della democrazia, della libertà, della cultura, dei diritti umani e delle donne.
Non si dia neppure molto credito verso la tesi che vorrebbe i terroristi agire in nome della povertà contro il lusso o della religione islamica contro il cristianesimo. Delle 1.324 vittime trucidate in attacchi jihadisti in tutto il mondo negli ultimi 30 giorni (avete letto bene: 30 giorni!) la quasi totalità era musulmana e composta da poveri e diseredati.
Credo che sia corretto dire – come l’intellettuale Adam Michnik – che proprio in quell’11 settembre è nato il XXI secolo. In quel giorno si sono affacciati totalitarismi, fanatismi e populismi: tutti basati non sulla forza degli argomenti, ma sull’argomento della forza. La politica dell’esclusione ha sbarrato la strada a quella dell’inclusione e del rispetto.
Per questo la fuga disordinata da Kabul, messa in scena dagli americani, è una pagina cupa per il mondo intero. Si è decisa nonostante l’impegno nel 2021 non fosse lontanamente paragonabile a quello di venti o addirittura dieci anni fa, in circostanze in cui il numero delle truppe era diminuito al minimo e nessun soldato alleato aveva perso la vita in combattimento da 18 mesi.
E’ stata compiuta nella consapevolezza che, sebbene imperfetti e immensamente fragili, negli ultimi vent’anni ci sono stati reali miglioramenti nella vita in Afghanistan. Si pensi solo a tutti i lenti progressi compiuti dalle donne, ma in realtà dall’intera società afghana. La nascita di una nuova squadra di basket femminile, l’apertura di ogni palestra alle donne, le neo-giornaliste assunte nel proliferare di giornali, radio e televisioni, l’apparire sul mercato del lavoro di professioniste pronte a prendere il proprio posto in uffici che sino ad allora erano stati solo per uomini: sembravano, questi, successi destinati a durare, a cambiare il Paese per sempre.
Oggi le donne protestano in piazza per difendere queste ancora poche ma significative conquiste. Un fatto assolutamente impensabile vent’anni fa.
Gli americani, Biden in testa e prima di lui Trump, dissero che i Talebani avrebbero assunto atteggiamenti meno rigorosi. Mentivano sapendo di mentire. Già nei primi giorni i nuovi signori di Kabul stanno stroncando ogni novazione. Niente sport per le donne, istruzione a classi separate, niente giornaliste, insegnanti quasi sparite: nelle scuole sono state create stanze riservate per le poche docenti, che non possono più stare con i colleghi. E lo stesso vale per il personale della segreteria. I muratori hanno modificato le porte di accesso al loro ufficio. Sembrano quella di una cella, con gli studenti costretti a comunicare con loro attraverso una fessura nel muro. Le donne stanno sedute nella penombra col capo coperto. Sembrano fantasmi, sono vittime.
Anche il governo creato dai Talebani è uno sberleffo alla politica americana.
Ministro dell’Interno è Serajuddin Haqqani, leader della temibile e omonima rete ritenuta vicina ad Al Qaida. Attualmente è ricercato dall’Fbi per terrorismo, con una taglia di 5 milioni di dollari. Il premier Mohammad Hasan è nella lista Onu dei terroristi. Insieme a molti altri ministri, ricercati da Fbi, Unione Europea e Nazioni Unite. Erano il Male (e ancora lo sono) ma ora compongono il governo. Ovviamente senza neppure una donna. Perché, come ha detto il portavoce del governo dei mullah, una donna non può fare il ministro, sarebbe come metterle al collo un peso che non può sostenere. Non è necessario che le donne siano nel governo, loro devono fare figli.
Anche per queste ragioni questo ventesimo anniversario assume un significato così importante.
Ricordiamo le vittime del terrorismo jihadista: quelle dell’11 settembre, ma anche quelle di Parigi, Londra, Madrid, Bruxelles. Le stragi in Asia come gli eccidi in Africa e i rapimenti di ragazze dei Boko Haram.
Soprattutto non lasciamo che l’indignazione di questi giorni per i fatti afghani si dissolva lentamente come nebbia al mattino.
Non diamo spazio a chi nella religione trova solo una scusa al suo atavico e arretrato fanatismo.
I jiaidhisti si credono eroi e martiri, ma sono solo dei perdenti e dei falliti, burattini senza dignità né umanità.
Il nostro mondo è fragile, imperfetto, certamente da correggere e migliorare. Ma è infinitamente migliore del loro, che presumono perfetto ma che puzza solo di vergogna e di miseria morale.
Noi non dimenticheremo, ma – contrariamente a loro – non odieremo.
Perché noi, da tempo, abbiamo scelto la vita.

Foto Magnum – Corriere della Sera
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Una strategia per il futuro

Si è conclusa nei tempi stabiliti l’evacuazione – ma forse sarebbe meglio chiamarla fuga – delle truppe americane dall’Afghanistan, insieme a quella dei militari degli altri paesi occidentali che avevano collaborato.
Nel corso di un discorso alla nazione il Presidente Biden ha dichiarato che “l’evacuazione è stata un successo straordinario”.
Ma la decisione di abbandonare a se stessa una popolazione è stata una scelta altrettanto straordinaria?
Su questo argomento, nei giorni scorsi, Tony Blair, già premier laburista della Gran Bretagna e figura imponente del riformismo del secolo scorso, ha pubblicato un interessante intervento sul sito della Fondazione “Tony Blair Institute for Global Change”.
L’apertura stessa dell’articolo è un assunto perfetto di quanto accaduto: “L’abbandono dell’Afghanistan e del suo popolo è tragico, pericoloso, inutile, non nel loro interesse e non nel nostro”.
Chiaro ed esaustivo.
Successivamente Blair pone una serie di quesiti sui quali, nelle prossime settimane, sarà opportuno riflettere a fondo: “All’indomani della decisione di restituire l’Afghanistan allo stesso gruppo da cui è scaturita la carneficina dell’11 settembre, e in un modo che sembra quasi progettato per ostentare la nostra umiliazione, la domanda posta da alleati e nemici allo stesso modo è: l’Occidente ha perso la sua volontà strategica? Ovvero: è in grado di imparare dall’esperienza, pensare strategicamente, definire i propri interessi e su questa base impegnarsi? Il lungo termine è un concetto che l’Occidente è ancora in grado di afferrare? La natura della sua politica è ancora compatibile con l’affermazione del tradizionale ruolo di leadership globale?”.
L’alleanza occidentale intervenne nel territorio afghano, non scordiamolo, a seguito del rifiuto dei Talebani di interrompere la protezione sino ad allora concessa al gruppo terroristico di al Qaida, autore dell’attacco alle Torri Gemelle che causò oltre tremila vittime.
In seguito, soprattutto dopo l’uccisione del suo leader Osama Bin Laden, la missione assunse progressivamente una diversa attenzione alle necessità della popolazione afghana. Si creò un impegno a trasformare l’Afghanistan da un santuario terrorista fallito in una democrazia funzionante: ancora embrionale ma in via di ripresa. Un’ambizione forse un po’ temeraria, ma dotata di una indiscutibile nobiltà e, comunque, figlia di una strategia.
Ben diversa da una strategia è stata la decisione del ritiro: semplicemente la concretizzazione di una decisione politica basata su meri sondaggi demoscopici. Figlia di una obbedienza a uno slogan politico populistico sulla fine delle “guerre per sempre“, come se il nostro impegno nel 2021 fosse lontanamente paragonabile al nostro impegno di 20 o addirittura dieci anni fa, considerando che il numero delle truppe era diminuito al minimo e nessun soldato alleato aveva perso la vita in combattimento per 18 mesi.
Ci ricorda ancora Tony Blair a proposito della fuga: “Lo abbiamo fatto nella consapevolezza che, sebbene immensamente fragili, negli ultimi 20 anni ci sono stati reali miglioramenti. E chiunque lo contesti, legga i lamenti strazianti di ogni segmento della società afghana su ciò che temono sarà perduto. Miglioramenti nel tenore di vita, nell’istruzione, in particolare delle ragazze, nella libertà. Non ancora quello che volevamo. Ma neppure niente. Qualcosa che valeva la pena difendere. Valeva la pena proteggere. Lo abbiamo fatto quando i sacrifici delle nostre truppe avevano reso quelle fragili conquiste qualcosa che era nostro dovere preservare. Lo abbiamo fatto quando l’accordo del febbraio 2020, a sua volta pieno di concessioni ai talebani, era stato violato quotidianamente. Lo abbiamo fatto mentre ogni gruppo jihadista in tutto il mondo esultava”.
Credo che il vulnus principale di questa debacle sia la perdita assoluta di ogni credibilità da parte del mondo occidentale e della sua cultura e tradizione democratica.
Chiunque abbia preso impegni con i leader occidentali li considererà comprensibilmente una valuta instabile”, dice ancora Blair.
Ma – quel che è peggio – abbiamo perso ogni credibilità nei confronti delle popolazioni che aspirano a liberarsi da un barbarico medioevo.
In un’intervista concessa a un giornalista del quotidiano “Il Foglio”, lo scrittore afghano Ali Eshani, che ora risiede in Italia. afferma: “Tutto il progresso afghano è stato possibile solo grazie alla presenza occidentale. Ci sono donne che hanno iniziato a fare le parrucchiere, che sono diventate giornaliste e medici. Che hanno studiato. Ora stanno chiudendo tutto. I Talebani ammazzeranno anche le parrucchiere. Non dovevano lasciare l’Afghanistan. Chi si fiderà più dell’America? Tanti afghani mi dicono che sono stati abbandonati. I giovani erano tutti contenti della presenza occidentale!“.
Credo che le prossime debbano essere settimane dense di riflessione e di analisi.
Una traccia per queste riflessioni è indicata nel citato scritto di Tony Blair: “Se l’Occidente vorrà portare nel 21° secolo i propri irrinunciabili valori, ci vorrà impegno. Tra alti e bassi. Quando è difficile oltre che quando è facile. Occorre fare in modo che gli alleati abbiano fiducia e che gli avversari siano prudenti. E’ necessario accumulare una reputazione per la costanza e il rispetto dell’orizzonte dei valori e per l’abilità nella sua attuazione. E’ opportuno che una parte della destra politica capisca che l’isolamento in un mondo interconnesso è controproducente e che una parte della sinistra accetti l’idea che l’intervento a volte può essere necessario per sostenere i nostri valori”.
Da queste riflessioni e dalle scelte che ne scaturiranno dipenderà la visione che il mondo ha di noi e la nostra visione di noi stessi.

Foto del “Corriere della Sera”

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Noi siamo migliori

Si chiama Annamaria Tribuna.
Per la precisione Maggiore Annamaria Tribuna, perché è un ufficiale e un pilota dell’Aeronautica Militare italiana. Una pilota “combat ready” (pronta al combattimento) sui C-130J, esperta di missioni ad altissimo livello.
L’altro ieri, sulla pista di Kabul, era ai comandi di un C130 della nostra Aeronautica Militare con a borgo numerosi profughi afghani e alcuni giornalisti.
A seguito di alcune raffiche di mitragliatrice partite dai pressi dello scalo Annamaria ha effettuato una serie di manovre evasive per proteggere il velivolo e i passeggeri. Nessuno è rimasto ferito e nessun danno è stato riportato dal velivolo.
Un ufficiale di cui andiamo fieri. Una donna.
Nel frattempo i talebani hanno invitato i leader religiosi locali a fornire loro un elenco di ragazze di età superiore ai 15 anni e vedove con meno di 45 anni per costringerle a sposare i combattenti talebani, hanno dato la caccia alle donne magistrato, ritenendo blasfemo che una donna possa essere giudice, hanno stabilito che per le donne sia meglio restare a casa e non lavorare e le hanno cacciate dalla televisioni e dalla radio.
I loro rivali dell’ISIS, impegnati a mostrarsi ancor più fanatici, ne hanno fatte saltare in aria a decine nei pressi dell’aeroporto di Kabul, ovviamente insieme ai loro bambini.
Dobbiamo avere il coraggio di dirlo: non siamo eguali a loro. Un abisso etico, culturale e morale ci divide.
Saremo anche cinici, molte volte egoisti, troppo spesso indifferenti. Ma ci sono principi e valori essenziali e non negoziabili che appartengono al nostro patrimonio culturale e non al loro.
Per questo migliaia di donne terrorizzate tentano la fuga dall’Afghanistan, così come tanti ragazzi che, pur non avendo vissuto il regime talebano di vent’anni fa, hanno imparato a conoscerlo in pochi giorni.
Per questo la smobilitazione decisa dalla coppia Trump e Biden – peraltro trasformatasi in una fuga disordinata e indecorosa – è un errore di portata storica che offende la storia.
Abbiamo un dovere morale verso i nostri valori essenziali e non negoziabili.
Abbiamo un obbligo storico verso tante donne e ragazzi afghani.
Perché noi non siamo come i Talebani o come l’Isis.
Noi siamo diversi e, lasciatemelo dire, siamo migliori.

In una foto dell’Aeronautica Militare il capitano Tribuna, 6 dicembre 2020. Grazie all’ANSA.
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In questa lettera c’è davvero tutto

Il quotidiano statunitense “Politico” ha pubblicato oggi una lettera di un giornalista afghano.
Eccone alcuni brani:

Tanti giornalisti mi stanno chiamando. Ho paura per le loro vite. È la notte peggiore della mia vita per me e migliaia di altri. Pensavamo che gli americani non ci avrebbero abbandonato…
Non avremmo mai potuto immaginare e credere che sarebbe successo. Non avremmo mai immaginato di poter essere traditi così gravemente dagli Stati Uniti. La sensazione di tradimento è immensa.
C’erano molte promesse, molte garanzie. Si parla tanto di valori, si parla tanto di progresso, di diritti, di diritti delle donne, di libertà, di democrazia. Tutto si è rivelato vuoto.
Se avessi saputo che questo impegno era temporaneo, non avrei rischiato la vita. Sto cercando un modo per andarmene. Probabilmente ho un grosso bersaglio sulla schiena. Se dicessi “non ho paura”, mentirei.
La gente qui è scioccata dal ritiro degli Stati Uniti dall’Afghanistan. Non avrebbero mai potuto immaginare questo. Migliaia di persone saranno uccise. Gli Stati Uniti non hanno più l’autorità morale per dire: “Crediamo nei diritti umani. Lottiamo per i diritti umani e la democrazia”.
Non mi interessa se è l’amministrazione Trump o l’amministrazione Biden. Credevo negli Stati Uniti, ma si è rivelato un grosso errore
“.

In questa lettera c’è davvero tutto.

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Non è la banalità dei protagonisti a rendere meno orribile il male

Ha senso, a distanza di decenni, rievocare eventi accaduti durante il secondo conflitto mondiale?
Nel caso di fatti per certi versi “ordinari”, ancorché tragici, probabilmente no. Ma vi sono episodi che, per la loro efferatezza, non devono mai essere scordati. Affinché il loro ricordo si erga a perenne monito per il futuro, a evitare che nuovamente la barbarie più becera possa macchiare la storia.
Quanto voglio ricordare oggi appartiene sicuramente a quest’ultima categoria.
Si tratta di una tragedia accaduta 77 anni fa, il 12 agosto del 1944, a Sant’Anna di Stazzema, un paese sull’Appennino in provincia di Lucca.
Pochi giorni prima questa località era stata qualificata dal comando militare tedesco “zona bianca”, ossia adatta ad accogliere sfollati: per questo, alla popolazione residente, si erano aggiunte centinaia di altre persone in cerca di sicurezza.
Nonostante quanto assicurato, all’alba di quel 12 agosto tre reparti di “SS” salirono verso Sant’Anna, mentre un quarto chiudeva ogni via di fuga a valle. Strada facendo le truppe si fermarono a Capezzano Monte, dove fucilarono numerosi giovani.
Alle sette le Schutzstaffel, le famigerate SS, raggiunsero Sant’Anna, accompagnate da collaborazionisti che fungevano da guide. Gli uomini del paese si rifugiarono nei boschi, per non essere deportati, mentre donne, vecchi e bambini restarono nelle loro case, sicuri che nulla sarebbe capitato loro, in quanto civili inermi. Non fu così.
In poco più di tre ore vennero massacrati 560 civili, in gran parte bambini, donne e anziani. I nazisti li rastrellarono, li chiusero nelle stalle o nelle cucine delle case, li uccisero con colpi di mitra e bombe a mano. La vittima più giovane, Anna Pardini, aveva solo 20 giorni. Anche se in realtà non era lei la creatura più piccola morta nella strage: infatti era stato ucciso anche un “non ancora nato”. Tolto dal ventre della madre, ancora legato al cordone ombelicale, era stato ucciso su di un tavolo. Altri bambini di poche settimane vennero lanciati in aria e colpiti dagli spari come si fa al tiro al volo. Altri ancora vennero infilzati con le baionette. Non si trattò di rappresaglia. Come è emerso dalle indagini della Procura Militare si trattò di un’azione premeditata e curata in ogni minimo dettaglio. L’obiettivo era quello di distruggere il paese e sterminare la popolazione.
Lo scrittore Manlio Cancogni ha descritto quanto accaduto. “I tedeschi, a Sant’Anna, condussero gli esseri umani, strappati a viva forza dalle case, sulla piazza della chiesa. Li avevano presi quasi dai loro letti; erano mezzi vestiti, avevano le membra ancora intorpidite dal sonno; tutti pensavano che sarebbero stati allontanati da quei luoghi verso altri e guardavano i loro carnefici con meraviglia ma senza timore né odio. Li ammassarono prima contro la facciata della chiesa, poi li spinsero nel mezzo della piazza, una piazza non più lunga di venti metri e larga altrettanto, chiusa tra due brevi muriccioli; e quando puntarono le canne dei mitragliatori contro quei corpi li avevano tanto vicini che potevano leggere negli occhi esterrefatti delle vittime che cadevano sotto i colpi senza avere tempo nemmeno di gridare. Quindi ammassarono sul mucchio dei corpi ancora tiepidi e forse ancora viventi, le panche della chiesa devastata, i materassi presi dalle case, e appiccarono loro fuoco. E assistendo insoddisfatti alla consumazione dei corpi spingevano nel braciere altri uomini e donne che esanimi dal terrore erano condotti sul luogo, e che non offrivano alcuna resistenza. Poi c’erano i bambini: fracassarono loro il capo con il calcio della mitraglietta, e infilato loro nel ventre un bastone, li appiccicavano ai muri delle case”. La Wehrmacht aveva dato in più occasioni l’ordine di uccidere anche i civili. Ma in nessuno di questi ordini si era mai parlato dei bambini. Sembra però che a Sant’Anna fosse stata proprio la vista dei bambini a scatenare una sorta di raptus sanguinario. “Quando li sentivano piangere, s’ innervosivano, diventavano furiosi“, hanno detto alcune sopravvissuti.
Le vittime mostrarono una grande dignità. Tutti, quando capirono, attesero la morte nel silenzio più assoluto. Molti furono trovati con le foto della loro famiglia in mano per essere identificati dopo la morte.
Nel settembre del ’44 i militari alleati trovarono a Sant’Anna i resti di numerosi donne e bambini e, oltre alle testimonianze dei pochissimi superstiti, raccolsero anche la deposizione di un disertore delle SS. Le copie di quei documenti furono poi inviate in Italia, ma a Roma scomparvero nel cosiddetto “Armadio della vergogna”.
Si trattava di un armadio rimasto chiuso per decenni e scoperto solo nel 1994 nella cancelleria della Corte Militare di Appello presso la procura generale militare, nel Palazzo Cesi-Gaddi di Roma. Era girato contro un muro per “nasconderlo” e chiuso con una catena. Conteneva tredicimila pagine e oltre novecento fascicoli, che raccontavano la storia di quindicimila persone, coinvolte nei crimini di guerra commessi in Italia durante l’occupazione nazista. Riguardavano stragi come Sant’Anna di Stazzema, Fosse Ardeatine, Marzabotto, Monchio e Cervarolo e innumerevoli altre. In questa documentazione si identificava il nome del Comandante del battaglione di SS che operò la strage di Sant’Anna. Si trattava dell’austriaco Anton Galler, fino al 1933 oscuro fornaio, che – al termine della guerra – ritornò al suo totale anonimato di fornaio a Salisburgo. E’ la famosa “banalità del male” di cui ci parla Hannah Arendt nel saggio “Eichmann a Gerusalemme: resoconto sulla banalità del male”.
Perché furono occultate quei novecento faldoni per tredicimila pagine, senza mai perseguire i colpevoli?
In ossequio ai desideri di Stati Uniti e Gran Bretagna, che – una volta iniziata la Guerra Fredda – ritenevano opportuno stendere un velo sui massacri in Italia del 1944 e 1945.
E’ giusto ricordare che la Germania si è ampiamente ed ufficialmente scusata per questi eccidi.
Nel 2012 il ministro tedesco Michael Georg Link ha affermato che “Il governo federale continuerà ad assumersi la responsabilità storica dei crimini commessi per mano dei tedeschi” e che “faremo tutto il possibile affinché i crimini compiuti per mano dei tedeschi non vengano dimenticati“.
Frank-Walter Steinmeier, Presidente tedesco, ha chiesto solennemente perdono, a nome della Germania, per tutto quello che i nazisti hanno fatto durante l’ultima guerra mondiale. Ha confessato, esprimendosi in italiano, di provare “solo vergogna”. E nella sua lingua ha voluto aggiungere: “Lo dico per i cittadini tedeschi e per i giovani che ignorano questi avvenimenti”.
La Germania è il Paese che, più di ogni altro, ha saputo fare i conti con il proprio passato.
Vorrei sottolineare alcune parole del Presidente tedesco: “lo dico per i giovani che ignorano questi avvenimenti”. Secondo un’indagine Censis effettuata tra studenti delle medie superiori e dell’università più del 50 per cento ignora chi fosse Mendele, il 28 per cento considera un Progrom una festa ebraica, il 58,7 per cento crede che la notte dei cristalli fosse una parata militare notturna del Terzo Reich e ritiene Himmler e Goebbels ministri della Germania.
Per questo credo sia ancora importante ricordare i fatti che vi ho narrato oggi.
Accadimenti dei quali si dovrebbe parlare nelle scuole, per combattere sul nascere l’odio e l’indifferenza.
Tutti devono ricordare e temere questa barbarie, così come le altre atrocità del Ventesimo Secolo: i lager, i gulag, Pol Pot, i Talebani e via tristemente elencando.
Perché il Male, anche quello terribile di Sant’Anna, non è opera di qualche folle isolato, ma cammina con le gambe dei fornai, degli imbianchini e dei maestri elementari. Delle persone alle quali – sino al giorno prima – nessuno prestava attenzione.
Ma non è la banalità dei protagonisti a rendere meno orribile il male.

Foto tratta da Shalom
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Trump, Biden e le metastasi in Occidente

Le truppe degli Stati Uniti, seguite da quelle della “coalizione occidentale”, hanno ormai abbandonato l’Afghanistan.
La Casa Bianca e il Pentagono hanno sprecato un fiume di parole per tentare di attribuire una qualche dignità al ritiro annunciato dal presidente Biden. Inutilmente, perché non v’è traccia di dignità nella decisione di Biden, peraltro in assoluta continuità con le intenzioni del suo predecessore Trump.
La presenza dei militari occidentali nel paese asiatico non era un esercizio di tardo colonialismo, né, per una volta, un accaparramento di risorse naturali.
Era una difesa di principi non negoziabili di dignità umana. Era un tentativo di debellare l’orrore talebano.
Vogliamo fare un breve ripasso? Ventotto sono i divieti espressamente previsti per le donne, dal divieto assoluto di uscire di casa se non accompagnate da un parente stretto a quello assoluto di studio. Dal divieto all’uso di cosmetici (per le donne con lo smalto sulle unghie è previsto il taglio delle dita!) a quello di ridere ad alta voce. Dalla proibizione di mostrare le caviglie (oltre al viso e al resto del corpo, ovviamente) a quella di affacciarsi al balcone.
Vi sono poi norme e divieti validi per donne, uomini e bambini. Dal divieto di ascoltare musica a quello di guardare la televisione. Dalla proibizione di leggere libri non islamici (pena la morte) a quella di applaudire alle rare manifestazioni sportive, dove è lecito solo cantare “allah-o-akbar” (Dio è grande). Dal divieto di far volare gli aquiloni sino all’obbligo per le sparute minoranze non islamiche di portare cucito sui vestiti un pezzo di stoffa gialla per poter essere evitati (vi ricorda qualcosa?).
Il Presidente degli Stati Uniti ha affermato che al ritiro avrebbe fatto seguito un accordo tra i talebani e le truppe regolari dell’Afghanistan. Mentiva sapendo di mentire.
In solo tre giorni i talebani hanno conquistato cinque capoluoghi di provincia, instaurando da subito il terrore.
Due sono le considerazioni che sorgono spontanee.
La prima, inevitabile, è che il Jihad (nella sua becera versione odierna) è vincente.
Le frange terroristiche dell’islamismo sunnita non hanno mai avuto premura, confidando nella storia. Osama bin Laden diceva, rivolgendosi agli occidentali: “Voi avete gli orologi, noi abbiamo il tempo”. I fatti gli danno ragione.
La lezione che sta circolando in questi giorni, con grande entusiasmo, nei forum degli estremisti jihadisti è che, sul lungo termine, il terrorismo e la violenza pagano.
Vi è una ulteriore considerazione: dopo che avremo assistito – nei prossimi mesi – al riformarsi del cancro talebano in Afghanistan, non ci resterà che attendere le metastasi che – come negli scorsi anni – torneranno a diffondersi in Occidente.
Come le vittorie dello Stato Islamico (peraltro nemico giurato dei talebani) entusiasmarono migliaia di esaltati estremisti, poi ridotti ai minimi termini dalla sua successiva sconfitta, così la vittoria dei talebani darà nuova linfa ed entusiasmo ai combattenti – anche in Europa – di Al Qaida.
Quando, dopo aver assistito al sudario di orrore che soffocherà donne e uomini afghani, saremo raggiunti da queste metastasi sarà però troppo tardi.
Altro non ci rimarrà che ricordare le pavide bugie di Biden.

Foto di Sputnik Italia – © 2021 МИА “Россия сегодня”

politica · società

Regolamento di conti

In previsione della necessità di esibire il cosiddetto “green pass”, alcuni furbetti, evidentemente no-vax. hanno pensato bene di inviare i propri dati personali, copia di carta di identità e codice fiscale e una discreta quantità di denaro ad alcuni sconosciuti gestori di “gruppi” del social “Telegram” che promettevano l’invio di certificati falsificati.
Come era facilmente prevedibile, dopo aver ricevuto il denaro gli anonimi gestori sono scomparsi nel nulla, tenendosi i denari incassati e – ovviamente – senza inviare nulla.
I “furbetti” hanno a questo punto capito di essere stati truffati e hanno minacciato possibili denunce verso chi li ha beffati, ma ecco che arriva la seconda brutta notizia: i truffatori sono sempre rimasti completamente anonimi, invece i “furbetti” hanno riempito le loro tasche non solo di soldi, ma di dati personali. Per cui i truffaldini gestori hanno richiesto altri soldi per non divulgare in rete i dati personali e i documenti di identità di coloro che hanno chiesto il green pass falsificato.
Curioso: questi furbetti trovano insopportabile esibire un documento per accedere ad alcuni eventi ma trovano normale inviare tutti i propri dati a sconosciuti malfattori!
Una storia davvero triste.
Da un lato truffatori incalliti, che hanno illecitamente trafugato discrete somme di denaro. Dall’altro individui alla ricerca di un certificato falso per poter aggirare la legge a scapito della salute di tutti.
Le minacce e la polemica tra questi soggetti mi ricorda un’espressione molto usata in passato dalla stampa: regolamento di conti tra criminali.

Foto de “Il Corriere della Sera”

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Il lavoro e il valore della vita

8 agosto del 1956. In Belgio, nella miniera di carbone Bois du Cazier di Marcinelle, scoppiò un incendio causato dalla combustione d’olio ad alta pressione innescata da una scintilla elettrica. Le fiamme, sviluppatesi inizialmente nel condotto d’entrata d’aria principale, riempirono di fumo tutto l’impianto sotterraneo, provocando la morte di 262 persone delle 275 presenti. Di questi 136 erano emigrati italiani, metà dei quali abruzzesi. Ben 22 originari del comune di Manoppello.
Quella mattina le gabbie degli ascensori avevano distribuito le squadre nei vari piani, fino a 1.035 metri sottoterra. Alle 8,10 un carrello uscì dalle guide e andò a sbattere contro un fascio di cavi elettrici ad alta tensione che, con criminale negligenza, risultava privo della rete di protezione. L’incendio divampò subito e si propagò con grande velocità. Ci volle un intero giorno per spegnere le fiamme e per cominciare a recuperare le vittime.
Potete immaginare l’angoscia e, con il passare delle ore, la disperazione dei familiari dei minatori accorsi alla miniera. A portar loro conforto arrivò anche il Patriarca di Venezia, Giovanni Battista Roncalli, futuro Papa Giovanni XXIII.
Quando le squadre di salvataggio cominciarono a recuperare i corpi non fu neppure possibile procedere al riconoscimento, in quanto i cadaveri erano anneriti e gonfi, spesso mutilati.
Moltissimi minatori italiani, abbiamo visto. Non solo a Marcinelle. Nel 1956, fra i 142 000 minatori impiegati in Belgio, .44 000 erano italiani.
Tutto ebbe inizio nel 1946.
In quell’anno il governo italiano e quello belga sottoscrissero un accordo in forza del quale l’Italia avrebbe mandato i propri disoccupati a lavorare nelle miniere belghe e, in contropartita, il Belgio avrebbe venduto al nostro Paese un certo numero di tonnellate di carbone a basso costo.
Erano anni difficili per l’Italia, uscita distrutta dalla guerra. Agevolare l’emigrazione era un modo – ancorché sbrigativo – per diminuire il numero dei disoccupati.
In Belgio era difficile trovare lavoratori disposti a lavorare nelle miniere, anche tra gli stranieri. Si trattava di un lavoro pesante e mal retribuito. Non a caso, negli anni precedenti, a tale attività erano stati destinati i prigionieri di guerra.
Lo “Statuto del minatore”, approvato dal governo belga nel febbraio 1945, da un lato prevedeva miglioramenti dei salari, pensioni, un periodo di ferie e case operaie, ma dall’altro anche multe e prigione per chi, essendo già stato minatore nel passato, rifiutasse di scendere ancora in miniera.
In tutti i nostri comuni vennero affissi manifesti in cui si parlava di questa opportunità di lavoro in Belgio. Naturalmente non venivano forniti dettagli, ma si magnificava il salario sicuro e le ferie garantite.
La realtà che trovarono i lavoratori italiani in Belgio fu ben altra cosa rispetto alle promesse dei manifesti: un lavoro durissimo e pericoloso, da affrontare senza alcuna preparazione specifica.
I candidati minatori vennero avviati da tutta Italia verso Milano, con tappa alla Stazione Centrale. Dopo aver superato le visite mediche e dopo un viaggio di 72 ore, venivano scaricati nelle stazioni del Belgio: non tra i viaggiatori, ma nelle zone destinate alle merci. Un altro trauma fu quello dell’alloggio: infatti la sistemazione avveniva in baracche di legno che erano state utilizzate per i prigionieri russi durante l’occupazione nazista. Campi di concentramento, insomma.
I lavoratori italiani dovevano fermarsi almeno un anno; qualora non avessero rispettato questi accordi sarebbero stati rinchiusi in campi di prigionia e, infine, rimpatriati.
Gli storici ricordano come, insieme ai centri di emigrazione, si sviluppò in quegli anni anche la rete dei trafficanti di migranti: individui privi di scrupoli, cooperative, società di spregiudicati che illegalmente reclutavano nelle campagne braccia e famiglie da destinare al fruttuoso business dell’immigrazione.
Nihil sub sole novum, come affermò Qoèlet duemilatrecento anni fa.
Nel dicembre del 1953, allorché i minatori italiani uccisi nelle miniere erano già più di 200, il governo italiano spinse quello belga ad aprire un’inchiesta sul lavoro in tali strutture. Ma le miniere erano già sul punto di chiudere per la crisi del settore e l’avvento del petrolio e le leggi del profitto volevano che si continuasse, per il poco tempo restante, a lavorare nella stessa maniera.
Così si giunse a quella mattina dell’8 agosto del 1956.
Scrisse il Corriere delle Sera in un editoriale del giorno seguente: “L’Italia può esportare dei lavoratori, ma non degli schiavi. Se il contegno dei datori di lavoro stranieri e l’atteggiamento egoistico degli stessi sindacati di quei Paesi costringono i nostri uomini a lavorare in condizioni di estremo e continuo pericolo, è doveroso intervenire in loro difesa anche sul piano politico e diplomatico”.
Il processo che seguì alla strage di Marcinelle si concluse, naturalmente, con l’assoluzione dei dirigenti della società mineraria. La responsabilità fu attribuita all’addetto alla manovra del carrello, un italiano morto nel disastro. Da Marcinelle alla Thyssen il percorso è sempre quello.
La tragedia ebbe una vastissima eco, facendo conoscere a tutti le condizioni proibitive del lavoro nelle miniere. Il governo italiano, incalzato dalle opposizioni, fu costretto a bloccare l’emigrazione verso il Belgio che iniziò a sostituire i minatori italiani con quelli spagnoli e greci.
Nel 1990 la miniera di Marcinelle venne classificata monumento storico, grazie alla pressione di un vasto movimento di opinione pubblica composto da associazioni di ex minatori e cittadini. Un memoriale in ricordo delle vittime fu inaugurato nel 2002, grazie ai finanziamenti della Comunità Europea.
Ricordare oggi la tragedia di Marcinelle significa non soltanto onorare la memoria delle vittime, ma sottolineare la necessità della sicurezza sul lavoro. Tema sul quale, occorre dirlo, molto resta da fare. Anzi: moltissimo.
Franco Bettoni, Presidente dell’Inail, ha presentato lo scorso 19 luglio a Montecitorio la relazione annuale dell’Istituto, affermando che “non è sufficiente indignarsi ma occorre agire. Le norme ci sono e vanno rispettate. È necessario un impegno forte e deciso di tutti per realizzare un vero e proprio ‘patto per la sicurezza’ tra istituzioni e parti sociali”.
Nei primi cinque mesi di quest’anno le denunce per infortunio sono già arrivate a quota 219.262 (erano 207.472 nello stesso periodo del 2020), le morti a 434 (432): significa che se la tendenza media dovesse confermarsi, a fine anno avremo quasi mille decessi e più di mezzo milione di infortuni.
Per questo ricordare oggi Marcinelle significa rendere omaggio a coloro che hanno abbandonato le loro case in cerca di una vita più dignitosa trovando, invece, la morte.
Ma significa anche rilanciare l’attenzione sul tema più generale delle vittime del lavoro.
Vuol dire auspicare nuovi modelli di sviluppo e di crescita, pur senza demonizzare il progresso e migliori stili di vita. Evitando patetici luddismi e pauperismi da salotto. Non dobbiamo auspicare la decrescita, ma una crescita qualitativa.
Significa, infine e soprattutto, ribadire che la vita umana vale più di ogni cosa.
Di un pugno di carbone ieri, del risparmio sulle misure di sicurezza oggi.

Foto de “Il Corriere del Ticino”
politica · società

No, non siamo diventati migliori.

2 agosto 1980. Per molti di noi sembra soltanto ieri, perché fu una giornata che non potremo mai scordare.
Era il primo sabato d’agosto, che allora coincideva con quello che veniva chiamato il “grande esodo”. Si trattava di un’epoca diversa, in cui le ferie si concentravano in quel mese, con la chiusura delle grandi fabbriche del Nord, trasformando le città in spettrali fotogrammi di case vuote e negozi chiusi.
A Bologna, quel giorno, faceva molto caldo. Un caldo quasi insopportabile, perché nella “bassa” l’umidità accentua la sensazione di disagio: la famosa temperatura “percepita”.
La stazione ferroviaria felsinea era affollata, con tante famiglie che partivano per le ferie: valige, strepiti di bimbi, risate allegre di chi ha atteso a lungo un periodo di svago. Tutti con l’aria felice di chi aveva consegnato a quei giorni di vacanza tutti i sogni per un anno tenuti chiusi nel cassetto della laboriosa quotidianità. Improvvisamente, alle 10 e 25, il tempo si fermò.
Un boato spazzò la spensieratezza e tantissime vite. 23 kg di tritolo, contenuti in una valigia, esplosero nella sala d’aspetto di seconda classe. Le lancette del grande orologio della stazione segnano ancora oggi quell’ora terribile. La deflagrazione causò il crollo dell’ala sinistra dell’edificio. Della sala d’aspetto, del ristorante, degli uffici del primo piano non restò più nulla. Una valanga di macerie si abbatté anche sul treno “Adria Express Ancona-Basilea”, fermo sul primo binario. Pochi istanti per un’apocalisse: uomini, donne e bambini persero la vita, dilaniati o schiacciati.
I morti furono 85, i feriti e mutilati oltre 200. La vittima più piccola fu Angela Fresu, di appena 3 anni; e poi Luca Mauri, di 6, Sonia Burri, di 7. Fino ai più anziani: Maria Idria Avati, 80 anni, e ad Antonio Montanari, di 86.
La città di Bologna si mobilitò immediatamente: molti cittadini, insieme ai viaggiatori presenti, prestarono i primi soccorsi alle vittime e contribuirono ad estrarre le persone sepolte dalle macerie.
Per ore sanitari, vigili del fuoco, forze dell’ordine, Esercito e volontari lavorarono incessantemente alla ricerca di vite da soccorrere e da salvare. Una catena spontanea che in pochissimo tempo rimise in moto la città che stava ‘chiudendo per ferie’. Saltarono le linee telefoniche e i cronisti giunti sul posto, per poter raccontare l’inferno di quei momenti, utilizzarono la cabina dei controllori degli autobus sul piazzale, dove il telefono invece funzionava. Cellulari e internet ancora non esistevano, ma dagli ospedali giunse comunque l’appello a medici e infermieri di tornare in servizio. Un appello accolto da tutti. Un autobus urbano della linea 37 divenne il simbolo di quel terribile giorno, trasformandosi in un improvvisato carro funebre che trasportava le salme all’Istituto di Medicina legale. Alla guida vi era Agide Melloni, allora autista trentunenne. Raccontò alla stampa: ”Mi chiesero di portare via i cadaveri con il bus. Dal mattino alle tre di notte, con i lenzuoli bianchi appesi ai finestrini. Ma in ogni viaggio c’era qualche soccorritore con me, per sostenermi”.
La solidarietà fu immensa anche nel resto del Paese.
Migliaia di messaggi furono inviati al Sindaco dell’epoca, Renato Zangheri, da ogni parte del mondo. Vi era molta fiducia nel sindaco e altrettanta nel Presidente della Repubblica, Sandro Pertini. Fu proprio Pertini, nel corso dei funerali celebrati nella Basilica di San Petronio, ad affermare in lacrime di fronte ai giornalisti: “non ho parole, siamo di fronte all’impresa più criminale che sia avvenuta in Italia”.
Per la strage, dopo anni di depistaggi, sono stati condannati in via definitiva tre esecutori: Valerio Fioravanti, detto Giusva, Francesca Mambro, moglie di Fioravanti, e Luigi Ciavardini, esponenti del gruppo terroristico di estrema destra denominato NAR, Nuclei Armati Rivoluzionari.
Oggi tutti in libertà.
Fioravanti, autore anche di numerosi altri omicidi e atti terroristici, fu condannato in tutto a 8 ergastoli, 134 anni e 8 mesi di reclusione. Ottenuta la libertà vigilata nel 2004, è un libero cittadino dal 2009.
Francesca Mambro, condannata complessivamente a 9 ergastoli, 84 anni e 8 mesi di reclusione, ha ottenuto la libertà vigilata nel 2008 ed è una libera cittadina dal 2013.
Molto diversa è invece la situazione per quanto riguarda i mandanti. I loro nomi stanno emergendo soltanto ora, nell’ambito del processo che la Procura Generale ha avocato a sé nel 2017, nell’ambito di un’inchiesta sull’orlo della archiviazione.
Si tratta di Licio Gelli, accusato di aver distratto milioni di dollari dal crac Ambrosiano e di averne usato una parte per finanziare la strage. Del suo braccio destro Umberto Ortolani, dell’ex capo dell’ufficio Affari Riservati, Federico Umberto D’Amato e del direttore del settimanale Borghese, Mario Tedeschi. Tutti ormai defunti. A loro si è aggiunto Paolo Bellini, il killer di Alceste Campanile, accusato oggi dalla Procura generale di Bologna di avere avuto un ruolo attivo nell’orrore. Braccio della destra eversiva negli anni 70, latitante tra Brasile ed Europa con il falso nome di Roberto Da Silva negli anni ’80, negoziatore per conto dello Stato con Cosa nostra nei primi anni ’90 e sicario di ‘Ndrangheta qualche anno più tardi, il nome di Bellini attraversa in un modo o nell’altro mezzo secolo di storia e di segreti del nostro Paese.
Alla sbarra ci sono anche l’ex ufficiale dell’Arma, Piergiorgio Segatel e Domenico Catracchia, amministratore di condominio di via Gradoli a Roma, covo prima delle Br e poi dei Nar. Ed è curiosa questa contiguità tra terrorismo “nero” e “rosso”.
La speranza è che ora – finalmente – anche le caselle dei mandanti si riempiano con nomi e cognomi.
Anche se si tratta di una giustizia parziale, con gli esecutori liberi e i mandanti quasi tutti deceduti.
Resta tuttavia la consolazione ben rappresentata dalle parole del ministro della Giustizia, Marta Cartabia: “La polvere che rivestiva i corpi martoriati, quella polvere che troppo a lungo ha coperti molteplici responsabilità oggi quella polvere si sta diradando e lascia nuovi contorni e nuovi profili dell’accaduto”.
Il 2 agosto 1980 rappresentò il punto peggiore di un periodo di stragi che insanguinarono il Paese, mettendo a repentaglio gli ordinamenti della nostra democrazia, investita da una violenza del tutto nuova per modalità, tensione e durata.
Tra due giorni, non a caso, ricorre un altro anniversario, quello della strage dell’Italicus. La notte del 4 agosto 1974 una bomba esplose sul treno proveniente da Roma e diretto a Monaco di Baviera, provocando la morte di 12 persone. In realtà avrebbero dovuto essere molte di più: il convoglio, infatti, viaggiava in ritardo. Se fosse stato puntuale l’esplosione sarebbe avvenuta in una galleria lunga diciotto chilometri, senza possibilità di salvezza per tutti i mille passeggeri.
Tuttavia il Paese sconfisse la paura innescata dai terroristi.
Si trattava tuttavia di un’Italia diversa da quella attuale, saldamente ancorata ai valori fondanti della convivenza civile nata con la Repubblica. Rappresentata da forze politiche che, indipendentemente dalle naturali e persino opportune differenze strategiche e prospettiche, si richiamavano tutte al nocciolo duro e inviolabile dei valori espressi nella Costituzione Repubblicana. Il tanto vituperato, a torto, “arco costituzionale”.
Le schegge occulte dei poteri deviati, mai fino in fondo individuate e perseguite, fallirono nel loro insano tentativo di condurre la nazione nel baratro dell’angoscia a motivo del senso di unità del Paese. Quel valore che, negli anni successivi, è stato scientificamente distrutto da un interessato disegno di alcune forze politiche e dall’insipiente negligenza di altre.
Quel due di agosto del 1980, spontaneamente, milioni di persone in tutta Italia, e io tra loro, scesero nelle piazze, senza bandiere di partito, per affermare con forza: “noi non ci arrendiamo!”, non cederemo agli architetti del terrore, agli stregoni dell’angoscia. Fu la manifestazione di un ardore democratico che fece scudo alle istituzioni repubblicane contro il bieco becerume del terrore.
Temo che oggi tale reazione sarebbe impensabile.
No, non siamo diventati migliori.

Foto Corriere della Sera