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Pesach

Pasqua significa “passaggio”, “passare oltre”, dall’aramaico pasah. Gli Ebrei in questa festa, che chiamavano
Pesach, ricordavano il passaggio attraverso il mar Rosso dalla schiavitù d’Egitto alla liberazione. Per i
cristiani è la festa del passaggio dalla morte alla vita di Gesù Cristo.
Quest’anno abbiamo realmente bisogno che la Pasqua rappresenti un passaggio: verso un futuro diverso e
migliore.
Mentre ancora viviamo la pandemia di Covid, che nonostante una minor attenzione da parte dei mezzi di
comunicazione continua a mietere oltre cento vittime al giorno, sperimentiamo anche una guerra nel
nostro continente. Una Pasqua di sangue, potremmo dire. Ancora una volta. La prima occasione in cui
venne utilizzata questa espressione fu nel 1916, allorquando a Dublino gli irlandesi insorsero contro il
dominio britannico. Le truppe della “democratica” Gran Bretagna risposero utilizzando, per la prima volta, i
carri armati contro i civili. Gli organizzatori delle manifestazioni che non morirono sotto il fuoco dei blindati
finirono giustiziati.
Oggi, ancora una volta, la guerra insanguina la Pasqua in Europa. Nel nostro continente, certo, perché in
altre parti del mondo i conflitti perdurano da anni, senza che siano accompagnati da eguale clamore.
Non ho scritto, in queste ultime settimane, di questa vicenda. Sia per la sua cogente e dolorosa tragicità, sia
per il fatto che meriterebbe riflessioni profonde, condotte con una ragionevolezza che vedo carente nel
dibattito in essere.
Esiste un Paese aggressore e uno aggredito. Non ci piove ed è una realtà indiscutibile.
Punto e a capo, però. Non punto e basta! Condannare fermamente ma cercare di comprendere la realtà, le
cause e i possibili scenari futuri è ciò che distingue un essere senziente e ragionevole da un fanatico
pappagallo.
Vi è una frase di Edmund Burke, della seconda metà del ‘700, che campeggia, incisa in trenta lingue diverse,
su un monumento collocato nel campo di concentramento di Dachau: “Chi non conosce la storia è
condannato a ripeterla”.
Pare invece essere in atto una campagna mediatica ispirata dai grossi gruppi editoriali per cui chiunque
voglia approfondire o capire meglio quanto sta accadendo diviene ipso facto un seguace di Putin, il che è
assurdo.
Persino un giornalista solitamente misurato come Gramellini si è esibito in un articolo contro l’Associazione
dei Partigiani davvero vergognoso, in cui è giunto ad accusare i vecchi partigiani di aver tradito i valori della
Resistenza e di omaggiare l’estrema destra ungherese per la disposizione dei colori della bandiera
(ignorando, Gramellini, che tale disposizione era quella utilizzata dalla Resistenza nel ’44) e per la
contrarietà all’invio di armi al governo ucraino e all’aumento di spese militari. Se questo significa tradire i
valori della Resistenza e financo essere contigui al fascismo allora potremmo individuare in Papa Francesco
il leader assoluto di questo fantomatico neo-fascismo!
E’ invece doveroso porsi domande su quali siano le strade migliori per giungere in fretta al termine del
conflitto e su quale ruolo possa svolgere in questa situazione la diplomazia e, in primis, l’Europa, teatro di
questa tragedia.
Temo tuttavia che proprio l’Europa, sino ad oggi, sia una delle vittime della guerra.
Assolutamente privi di ogni iniziativa, che non sia occasionale e singola, i paesi europei si sono totalmente
appiattiti, ancora una volta, sulle posizioni degli Stati Uniti. Ma siamo certi che gli interessi americani
coincidano con quelli europei e, ancor di più, con i nostri?
Personalmente ne dubito fortemente.
Di certo agli Stati Uniti non è utile una rapida cessazione della guerra. Innanzitutto perché un conflitto
prolungato tenderebbe a indebolire Putin. Poi perché il tempo potrebbe, nei loro disegni, imporre
definitivamente l’influenza e il controllo sull’Europa, grazie anche al monopolio digitale delle cosiddette Big
Tech: non dimentichiamoci la lettera acida e minacciosa inviata dall’amministrazione Biden a Bruxelles lo
scorso febbraio in occasione dell’emanazione di un pacchetto di leggi tese a limitare lo strapotere dei
colossi Tech statunitensi. Un altro motivo consiste nel tentativo di sostituirsi nel ruolo di fornitore di beni e
prodotti ai partner europei, come già iniziato con granaglie, petrolio e gas liquefatto. A costi, ovviamente, ​
ben più onerosi. Infine, come spesso accade negli USA, una guerra aiuta la popolarità della leadership. Il che
è particolarmente utile in un momento in cui Biden, dipinto dai media americani come “un anziano che dice
cose sconclusionate” (un “rincoglionito” ha chiosato con minor eleganza Travaglio) è precipitato ai minimi
storici del gradimento.
L’Europa, da parte sua, ha invece il contrario interesse ad una rapida chiusura del conflitto che, in ultima
analisi, è una guerra “per procura” tra Putin e Biden tramite il suo emissario Zelensky. Non solo per motivi
economici, essendo i paesi europei a pagare il costo maggiore della situazione, ma – e soprattutto – per
motivi umanitari.
L’Unione Europea dovrebbe adoperarsi, in autonomia, non già nell’invio sempre maggiore di armi (fatto,
peraltro di dubbia costituzionalità, come ha recentemente argomentato Lorenza Carlassare, docente di
Diritto Costituzionale all’Università di Pavia) ma perché si giunga ad un immediato cessate il fuoco che
consenta l’avvio di una vera trattativa. Sforzo che può compiere solo agendo in prima persona, e non in
qualità di subordinato altrui. Quindi è necessario che stabilisca e disciplini il rapporto con Kiev, desiderosa
di entrare in Europa. E, da ultimo, che affronti di petto il problema della convivenza con Mosca, aldilà di
Putin e anche in funzione di un suo ridimensionamento. Non è pensabile, storicamente e culturalmente,
un’Europa senza Russia.
Occorre – in altre e più semplici parole – uno sforzo immenso verso la pace.
Che è il percorso indicato ieri sera da Papa Francesco, che ha posto accanto una donna russa e una ucraina
nella via crucis, a testimonianza di un immenso dolore che è un’atrocità umana.
Come ha detto il gesuita Padre Antonio Spadaro, è necessario partire dal disarmo delle coscienze, dalla
velleità della pace.
Partiamo da queste basi, cercando la pace e la concordia. Facciamo cessare il rombo delle armi, come
ancora ha ripetuto il pontefice.
Solo così sarà davvero “pasah”, un passare oltre, verso un futuro diverso.
Per l’Ucraina, per la Siria, per lo Yemen, per gli altri 25 Paesi del mondo coinvolti in guerre.
E allora sarà realmente una Buona Pasqua.

Foto di “Avvenire”
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La notte degli Oscar e lo schiaffo

In giorni tristi di guerra e pandemia mi è parso perlomeno eccessivo lo spazio dedicato dai mezzi di comunicazione a quanto accaduto nella cosiddetta “notte degli Oscar”, allorquando l’attore Will Smith è piombato sul palco del Dolby Theatre di Los Angeles per rifilare un ceffone in pieno volto al comico Chris Rock, reo di aver pronunciato una battuta sul taglio di capelli della moglie Jada Pinkett-Smith, da anni affetta da alopecia.
Ciò che mi ha colpito è stato che, quasi unanimemente, i commenti sono stati rivolti, con diverse sfumature, al gesto – certamente sbagliato – compiuto dall’attore americano.
Premesso che ogni gesto di violenza è sbagliato, e quindi anche quello di Will Smith, personalmente punterei il dito – al contrario – sul comico Chris Rock, autore delle battute sui problemi di salute della consorte dell’attore.
Ma che comicità è quella che irride a un problema di salute? Che ironia è scherzare su di una patologia certamente foriera di imbarazzo e di disagio?
Non è comicità: è bullismo da quattro soldi. Sono battutacce da osteria malfamata, da cialtrone privo di ogni senso di rispetto per il dolore. Né mi si venga a dire, come qualche osservatore ha fatto, che negli Stati Uniti una simile forma di comicità è da tempo “sdoganata”. Nella patria della violenza e dell’individualismo più becero sarà anche vero, ma non è la deriva morale a giustificare l’inescusabile.
Ha sbagliato Will Smith a tirare un ceffone al comico. Avrebbe dovuto semplicemente alzarsi in piedi e scandire la pura verità: che Chris Rock fa schifo, come comico e, soprattutto, come uomo.

Foto del settimanale “Amica”
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Nessuna esclusa

Sono giorni tristi questi.
Una pandemia tragica è ancora lontana dalla conclusione. Nelle scorse ore si sono registrati oltre 41 mila casi: gli stessi del novembre 2020, anche se, grazie alla campagna vaccinale, i morti sono diminuiti.
A questo dramma, che certamente non è poco, si sono aggiunte le azioni di guerra che scuotono in questi giorni l’Ucraina.
Un quadro fosco, un connubio inquietante che diffonde una sensazione diffusa di paura.
Al timore per una pandemia mai sperimentata da chi oggi vive si è aggiunta l’angoscia per un conflitto nel nostro continente, che ormai consideravamo indenne da tali flagelli.
In tale contesto si celebra oggi l’8 marzo.
Credo sia evidente a tutti come tale giornata, quest’anno, assuma una dimensione diversa e, certamente, più ampia, laddove ogni aspetto di futile celebrazione floreale lascia il campo a riflessioni articolate e più esaustive.
I principali mezzi di comunicazione hanno dedicato l’odierna ricorrenza alle “donne ucraine”.
Ineccepibile rivolgere loro un pensiero in giornate così dolorose e drammatiche.
Ineccepibile ma limitativo, frutto forse di una giustificata onda emotiva e di una narrazione in verità piuttosto standardizzata.
Credo che un pensiero debba essere rivolto anche alle donne russe, perché se è terribile essere coinvolte in un conflitto lo è anche veder partire i propri figli per una guerra che, magari, neppure si comprende né si condivide.
Così come dobbiamo ricordare le donne afghane. Dimenticate prima dalle forze militari occidentali, in primis da quelle della Nato, in una vergognosa quanto disordinata fuga e oggi del tutto scordate dai mezzi di informazione, che hanno steso su di loro un velo di imperdonabile oblio. Essere frustate per una passeggiata in solitudine, allontanate dallo studio, impedite nell’igiene personale svolta negli hammam, costrette a matrimoni con i guerriglieri talebani e talora costrette alla vendita dei loro figli per sopravvivere non è certo scenario migliore. Anche se non accade in Europa.
Dovremmo inoltre dimenticare duecento milioni di ragazze africane sottoposte a mutilazioni genitali femminili?
O le donne curde, siriane, libanesi, yemenite, haitiane o del Myanmar che da anni combattono, soffrono e convivono con inesplicabili guerre divenendo spesso profughe prive di soccorso? Forse perché tali conflitti avvengono lontano dal nostro continente?
La lezione che dobbiamo trarre da questi giorni difficili e tragici è che l’8 marzo non è una serata in compagnia o un mazzo di mimose.
Mai come quest’anno deve essere un’occasione per scorgere nel mondo il dramma delle donne private dei loro diritti e la necessità di un profondo cambiamento.
Guardando anche, come ovvio, al nostro Paese.
Perché anche in Italia molto rimane da fare per l’universo femminile.
Ci sono le 119 donne vittime di femminicidio nel 2021, con un collaterale aumento dei casi di stalking, maltrattamenti e violenza sessuale, cresciuti del 30%.
Ma ci sono anche situazioni meno eclatanti, che non godono delle luci della cronaca, ma che costituiscono uno stillicidio di prepotenza e ingiustizia.
Persistono purtroppo ingiustificabili divari, per esempio, nel lavoro e a livello di retribuzioni, nelle posizioni dirigenziali e nella partecipazione alla vita politica e istituzionale.
Secondo un recente studio, rispetto agli uomini più donne concludono gli studi universitari, con voti migliori e prendono parte a esperienze di tirocinio curriculare, nonché di lavoro durante gli studi e di formazione all’estero. Ma tutto questo non sana le inique differenze: il tasso di occupazione dei laureati di secondo livello, a cinque anni dal titolo, è dell’85,2 per cento per le donne e del 91,2 per cento per gli uomini.
A cinque anni dalla laurea gli uomini percepiscono, in media, circa il 20 per cento in più e svolgono professioni maggiormente qualificate. E il divario si amplifica in presenza di figli, perché la maternità e il lavoro continuano a essere inconciliabili per troppe madri.
Esiste poi l’intramontabile – e immarcescibile – repertorio di luoghi comuni e di stereotipi sulle donne. Espressioni che feriscono, segnano confini di genere e costringono le donne in ruoli prestabiliti, imprigionandole in una gabbia invisibile e inviolabile.
Luoghi comuni che troppo spesso tendiamo a cogliere con un sorriso di imbarazzo o, al più, con un senso di fastidio, anziché con l’indignazione che dovrebbero suscitare.
L’8 marzo di quest’anno, come sempre dovrebbe essere ma oggi ancor più, non è pertanto una “festa”, bensì una celebrazione dedicata ai diritti delle donne.
Di ogni parte del mondo e di ogni età.
Perché un mondo senza le donne sarebbe solo un malinconico errore.

Foto: Ministero della Salute – Italia
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E’ appeso lì, a quella forca…

Il 27 gennaio 1945 l’Armata Rossa aprì i cancelli di Auschwitz.
L’ONU, nel 2005, ha stabilito che in questa data venga celebrata la Giornata della Memoria, in ricordo della Shoah, un terribile vocabolo ebraico che ci parla di orrore e dolore infinito. La parola Shoah è presente nel libro di Isaia 47,11: “Ti verrà addosso una SCIAGURA che non saprai scongiurare; ti cadrà sopra una calamità che non potrai evitare. Su di te piomberà improvvisa una CATASTROFE che non prevederai”.
Gli ebrei non furono le uniche vittime dei campi di sterminio, ma lo furono in modo speciale, immenso e tragico. Gli storici più accreditati, tra cui Raul Hilberg, ritengono che la cifra delle vittime ebraiche si aggiri tra 5.200.000 e 6.000.000.
Non fu neppure il primo genocidio della storia. Ad aprire il XX secolo fu quello degli armeni, operato dai turchi intorno al 1915 nell’indifferenza generale della comunità mondiale. Una tragedia che fornì lo spunto ad Adolf Hitler per il disegno di annientamento degli ebrei.
Sono passati quasi ottant’anni da quei giorni. Ma è ancora importante ricordare. Perché lungi dall’essere patrimonio di un passato sepolto, l’antisemitismo è ancora presente nella nostra società, dalle forme più eclatanti ed estreme, tese financo a negare la storia, sino a quelle più subdole che inzaccherano di microviolenza il nostro quotidiano.
Addirittura in crescita.
Secondo uno studio di autorevoli organizzazioni, tra cui il WZO, il 2021 è stato l’anno più denso di episodi di antisemitismo degli ultimi decenni. Proprio la pandemia, con i suoi osceni corollari di complottismo, ha accentuato un sentore di odio antiebraico mai sopito. Un odio che – non a caso – si è sempre nutrito delle più truci teorie del complotto, a partire dall’opera “I protocolli dei Savi Anziani di Sion” elaborata dalla Ochrana, la polizia segreta zarista, e mai rinnegata dal successivo regime staliniano.
Il sito dell’Osservatorio del Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea contiene una pagina in cui vengono elencati gli episodi di antisemitismo che avvengono nel nostro Paese. Scorrerla produce in noi un senso di crescente disagio. Danneggiamenti, vandalismi, scritte, aggressioni fisiche… Un tragico florilegio di orrore. Ancora due giorni fa, nei pressi di Livorno, un bambino di dodici anni è stato aggredito con insulti e sputi perché ebreo. L’aspetto che rende ancor più grave l’accaduto è che autrici del gesto sono state due ragazzine di quindici anni. Vien da chiedersi che educazione possano aver avuto in famiglia!
Oggi per noi è difficile anche il solo immaginare quanto accadde nei campi di sterminio.
Dobbiamo riflettere su come sia stato possibile annientare ogni senso di umanità, non solo nei carnefici ma anche nelle vittime. In uno dei racconti del libro “Paesaggio dopo la battaglia”, dello scrittore polacco Tadeusz Borowskj, sopravvissuto ad Auschwitz, si narra che mentre una colonna di donne avanzava agitando le braccia e gridando “aiuto!”, perché condotte alle camere a gas, oltre diecimila uomini osservarono la scena nel più profondo silenzio e nell’inerzia totale. Una indifferenza che segnerà con un senso di colpa il resto della vita dei superstiti.
Elsa Binder, diciassettenne ebrea che viveva nella Polonia invasa dalla Germania nazista raccontava che i superstiti non erano più in grado di ridere. Una parola divertente era sufficiente a suscitare un senso di colpa. Un semplice momento di serenità evocava una processione di amici scomparsi.
Questi ricordi dovrebbero indurre a riflettere quei laidi figuri che evocano il nazismo e la shoah dinnanzi all’obbligo di certificazione verde. Gli ebrei, negli anni ’40 del secolo scorso, non potevano sfilare per le vie di Berlino per protestare conto l’obbligo di indossare una stella gialla cucita sull’abito: erano troppo impegnati a morire nei campi di sterminio!
Ogni squallido paragone è tale da risultare offensivo per l’intelligenza umana.
Elie Wiesel, scrittore ebraico trasferitosi negli Stati Uniti dopo la fine della guerra, dopo esser stato prigioniero ad Auschwitz, Monowitz e Buchenwald fra il 1944 e il 1945, ha raccontato l’impiccagione di un bambino insieme a due adulti. Narrava che mentre I due adulti già erano morti, la terza corda non era ancora immobile perché il bambino viveva ancora. Lottò fra la vita e la morte per oltre mezz’ora, agonizzando sotto gli occhi degli altri prigionieri. Qualcuno domandò: «Dov’è dunque Dio?». E Wiesel rispose: «Dov’è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca…»”.
Che la nostra indifferenza e i blasfemi paralleli di qualcuno non ci inducano, ancora una volta, a uccidere Dio e la nostra residua umanità.

Foto: Associazione Figli della Shoah
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Eppure…

“Tutti gli anni sono stupidi. È una volta passati, che diventano interessanti”. Così diceva Cesare Pavese.
Questa massima, talora veritiera in passato, si palesa del tutto fuori luogo nelle attuali circostanze.
Gli ultimi due anni, lungi dall’apparire interessanti, si sono mostrati dolorosi, angoscianti e faticosi.
Ci hanno introdotto in una nuova dimensione, in una modalità di vita sin qui sconosciuta.
Ci è parso di avviarci verso un cupo Ragnarök, popolati di forze ataviche in preda a cieca furia.
Una pandemia, che sino a due anni fa sarebbe stata la trama di un b-movie, ha sconvolto il mondo con il suo sudario di morte e paura.
Gli oltre 144 mila contagi registrati oggi, ancorché mitigati da una diminuita letalità legata alla preziosa campagna vaccinale, ci rammentano che siamo ancora lontani dalla auspicata conclusione.
In molti hanno perso i loro cari e tutti siamo stati toccati dal dolore.
Abbiamo compreso come d’ora in poi il mondo non sarà più lo stesso e come il nostro stesso stile di vita diverrà inevitabilmente diverso.
La retorica pilotata e un po’ patetica dei primi giorni, con i suoi cori dai balconi, ci ha raccontato che ne saremmo usciti migliori. Così non è stato, ovviamente.
Ho talora la convinzione che questo periodo abbia, al contrario, evocato il peggio che è in noi.
L’egoismo più becero si è accompagnato al più esasperato individualismo in una pessima cacofonia morale. L’ignoranza ha urlato, l’insipienza si è fatta spettacolo e il livore è divenuto ordinario.
Vittima, come sempre, la ragione.
Eppure…
Ebbene sì, c’è un eppure.
Nonostante questo scenario il nostro Paese ha anche motivi di sussurrato orgoglio.
La reazione alla pandemia, con una organizzazione nella gestione dei vaccini che, a parte una minoranza di no vax a cui è stato dato anche troppo spazio mediatico, ci ha fatto diventare un modello a livello globale. Per la Germania, come ha riconosciuto Angela Merkel nel suo addio alla politica, e per tanti altri Paesi, tra cui gli Stati Uniti, dove la gestione pandemica è stata fallimentare.
Una ripresa economica in cui eravamo i primi a non credere.
Una credibilità internazionale di governo dopo anni di facili bisbigli contro di noi.
E’ significativo il fatto che il settimanale “The Economist” abbia nominato l’Italia il Paese dell’anno.
Un dettaglio: lunedì a New York – mentre la curva dei contagi spaventava i mercati – Zegna, con lo sbarco a Wall Street, convinceva il mondo. Lo stesso giorno, a pochi chilometri dalla Borsa americana, una biotech italiana, Genenta Science, chiudeva le contrattazioni al Nasdaq con la cerimonia della campanella. Prima quotazione di una start up italiana al listino tecnologico newyorkese. Due realtà che hanno entusiasmato gli Stati Uniti. E che forse ci rappresentano molto più di quanto riusciamo a percepire.
Dobbiamo partire da questo per costruire il futuro.
Accompagnando tuttavia una eccellenza sistemica con una nuova etica diffusa.
Ritrovando a livello individuale valori che si impongano sulla sbandierata povertà morale che ha reso irrespirabile l’aria del nostro quotidiano.
Costruendo una nuova educazione, etica e civica, che sappia vincere la volgarità e sconfigga il latrato insopportabile di un ormai tracotante egocentrismo.
Affidandoci al dono del dubbio e abbracciando la ragione che – come amava dire Norberto Bobbio – non è un lume ma soltanto un lumicino. Unico strumento, tuttavia, per procedere in mezzo alle tenebre.
Così sarà possibile ritrovare la sobrietà di pensiero, opposta alle grida stridule delle paure scomposte, e superare il penoso riflettersi soltanto nei propri bisogni.
Abbiate un barlume di fiducia. Non nella natura, che è dolce e affettuosa solo nei film di Disney. Non nell’indole umana, capace dell’egoismo più atroce.
Ma in un oscuro disegno tracciato per ciascuno di noi e che sapremo cogliere nel silenzio, assecondandone il respiro.
Lo comprenderemo strada facendo, amando e proteggendo.
Lo vivremo ogni giorno facendo nostro il pensiero stoico di Lucio Anneo Seneca, secondo cui ogni giorno è l’inizio di un nuovo anno, da propiziare con buoni pensieri che liberano l’animo dalle meschinità.
E allora, di nuovo, ci scopriremo a sorridere. Perché la fine, a volte, sa farsi migliore inizio.
Buon anno.

Auguste Renoir – Dance at Le Moulin de la Galette – Musée d’Orsay
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La tregua di Natale

25 dicembre 1914.
La Grande Guerra era iniziata da pochi mesi e ormai era svanita l’illusione di una “soluzione lampo”. I morti avevano già superato il milione.
Nel mese di novembre di quel 1914, dopo la conclusione della prima battaglia di Ypres, nelle Fiandre, la situazione giunse a un punto di stallo: la guerra di movimento cessò e il fronte si stabilizzò lungo una linea continua di trincee estesa dal Mare del Nord alla Svizzera, dietro le quali i contendenti si ammassarono a difesa.
Nel mese di dicembre piovve continuamene nelle Fiandre. I soldati tedeschi e quelli inglesi inviati in Europa camminavano nelle trincee invase dal fango, scivolando nella melma tra l’odore nauseante della decomposizione proveniente dalle vittime che non si potevano seppellire.
Venne quindi la sera della vigilia di Natale.
Proprio nelle trincee di Ypres, in Belgio, accadde qualcosa di straordinario.
I soldati tedeschi accesero le candele su migliaia di piccoli alberi di Natale improvvisati e cominciarono a cantare canti di Natale. I soldati inglesi risposero con un applauso, dapprima timido, poi sempre più scrosciante. Poi, a loro volta, cominciarono a intonare le proprie canzoni e i soldati tedeschi li applaudirono. All’alba di Natale ricominciarono i canti e gli applausi. Poi, dalla trincea tedesca, uscirono i primi soldati disarmati. I britannici emersero a loro volta dai ripari e si incamminarono verso i tedeschi.
Si incontrarono nel terreno tra le due trincee, scambiandosi piccoli doni: tabacco, bottoni, sigarette e souvenir. Furono addirittura scattate foto ricordo. I tedeschi portarono sigari e brandy, gli inglesi carne di manzo. E seduti intorno al fuoco i soldati festeggiarono insieme quel Natale, nel fango della zona deserta tra le due linee.
Fu addirittura organizzata una partita a calcio, uno sport che allora cominciava a diffondersi ovunque. Per la cronaca vinsero i tedeschi 3 a 2.
Sembra una favola, ma invece è realtà. Non ne parlarono le fonti ufficiali, perché poco in linea con lo spirito belligerante dei governi. Non ne scrisse la stampa, in una sorta di silente censura. Il primo a riferirne fu dopo qualche settimana il New York Times, forse perché giornale di un Paese allora neutrale.
Questa bella storia ci è stata tramandata dalle lettere dei soldati inviate alle famiglie.
Una vicenda che merita di essere ricordata, emblema di uno spirito natalizio che vince sul male, riaffermando la propria essenza incancellabile. Un vero “Canto di Natale” del ventesimo secolo: non più individualistico quale quello di Dickens, ma corale, così come corale è stato il Novecento.
Auguro a tutti voi un Natale simile. Una festa nella quale i dispiaceri, le preoccupazioni e i problemi del quotidiano possano essere accantonati con un abbraccio e, magari, con un piccolo dono, foss’anche un bottone.
Un Natale in cui si possa comprendere che non esiste un nemico invincibile, ma semplicemente “l’altro”.
Un’alterità che deve essere rispettata. Non è detto che si debba “amare” indistintamente ogni persona al mondo, compito – questo – lasciato ai santi. Ma certamente possiamo far nostri i doni del rispetto, della tolleranza, della giustizia.
Per rendere il Natale l’alba di un nuovo mondo. Per tutti.

Foto “Tempi”

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Una data da ricordare

12 dicembre 1969. Un venerdì pomeriggio. A Milano faceva freddo. Una tipica giornata dell’inverno meneghino di allora, con un’umidità che strigliava le ossa e una luce flebile nel plumbeo di un cielo disadorno.
Sant’Ambrogio era da poco trascorso e Natale si avvicinava in punta di piedi. In Piazza del Duomo i bambini passeggiavano avvolti in colorate sciarpe di lana, amorevolmente sferruzzate dalle nonne. Il profumo dei dolcetti stuzzicava l’attesa.
Un Natale semplice, in cui la recente povertà si avventurava incredula in un benessere sobrio e non urlato. Con meno luminarie ma più aspettative. Con la semplicità dei piccoli presepi accovacciati nel muschio.
Nella adiacente Piazza Fontana la sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura era ancora aperta e gremita di clienti, molti dei quali – a ragione del mercato del venerdì – provenivano da fuori Milano.
Verso le 16 e 30 i dipendenti osservavano l’orologio con il desiderio di chiudere la banca.
Alle 16 e 37 un potente ordigno esplose nel salone centrale della banca. Si trattava di sette chili di tritolo, chiusi in una valigetta sistemata sotto un ampio tavolo al centro del locale. Gli effetti furono devastanti: il pavimento fu squarciato, formando un’autentica voragine: diciassette persone restarono uccise e altre ottantotto furono ferite. La fossa creatasi, secondo i testimoni, era piena di corpi mutilati che bruciavano.
Non fu l’unico attentato di quella giornata. Qualche minuto prima, infatti, un altro ordigno era stato rinvenuto nella vicina sede della Banca Commerciale Italiana, in piazza della Scala. Tra le 16 e 55 e le 17 e 30, inoltre, altre tre esplosioni si verificarono a Roma: una, all’interno della Banca Nazionale del Lavoro di via San Basilio; altre due sull’Altare della Patria di piazza Venezia.
Una giornata terribile, che colpì al cuore il Paese, smarrito ed incredulo dinnanzi ad eventi che mai aveva sperimentato dalla fine della guerra.
Quel giorno prese il via il periodo più oscuro della storia italiana, caratterizzato da quella che venne definita “strategia della tensione”. Anni nei quali fu attaccata alle sue radici la democrazia, investita da una violenza mai sperimentata.
Quella di Piazza Fontana fu solo la prima di una infinita serie di stragi e attentati volti a scardinare l’ordinamento democratico: Piazza della Loggia, l’Italicus, la Questura di Milano, Peteano…. Sino all’orrore della Stazione ferroviaria di Bologna nel 1980.
Eventi terribili, ai quali si affiancò la defatigante serie di agguati e omicidi, con cadenza quasi quotidiana, commessi dalle Brigate Rosse e dai gruppi che le fiancheggiavano.
Un altro avvenimento, oggi pressoché scordato, ebbe luogo il 7 dicembre 1970.
Quella notte ebbe luogo il tentato colpo di stato organizzato da Junio Valerio Borghese. Un evento ormai scordato da tutti.
I pochi che ancora ricordano tendono a ritenerla una farsa da operetta messa in atto da quattro vecchi rimbambiti. Una versione simile a quella descritta da Mario Monicelli nel film satirico del 1973 “Vogliamo i colonnelli”, con Ugo Tognazzi maschera grottesca e ridicola.
In effetti un golpe organizzato con l’ausilio di 187 forestali ed alcune decine di estremisti poco credibile lo sembra davvero. Ma così non è.
La possibilità di un colpo di stato in Italia era stata telegrafata a Washington il 7 agosto 1970 dall’ambasciatore statunitense a Roma, Graham Martin. Quest’ultimo non considerò l’operazione “Tora-Tora” (come venne definita in codice) un’iniziativa di vecchi idealisti.
Il Fronte Nazionale, organizzazione di estrema destra diretta dal Valerio Borghese, ricevette cospicui finanziamenti, nell’ordine di miliardi di lire (che allora erano cifre impressionanti). Da chi? Non è mai stato accertato.
Il piano del golpe prevedeva l’occupazione del Ministero degli Interni, di quello della Difesa e della sede della Rai, insieme al rapimento del presidente della Repubblica Giuseppe Saragat e all’omicidio del capo della Polizia Angelo Vicari.
Al Viminale già dal pomeriggio, si erano insediati alcuni golpisti vestiti da operai.
Alle 22 e 30 giunsero davanti al ministero una cinquantina di estremisti di destra che entrarono nell’armeria, asportando i circa duecento mitra che vi erano custoditi. L’operazione fu favorita da alcuni emissari interni al ministero. Tra questi Salvatore Drago, uomo di Avanguardia nazionale, ma al tempo stesso legato al servizio segreto civile, alla mafia e alla loggia segreta P2, altrettanto attiva nel progetto eversivo. Le plurime appartenenze di Salvatore Drago sono lo specchio dell’articolazione nella quale si mosse questo tentativo.
Il colpo di Stato non fu portato a termine, perché Borghese ricevette una telefonata da qualcuno, sempre rimasto sconosciuto, che gli diede l’ordine di sospendere l’operazione.
Lo storico Aldo Giannuli dell’università di Milano ha recentemente dichiarato al Corriere della Sera: “il golpe Borghese non è stato capito e inquadrato correttamente: o è stato visto come una buffonata di quattro rimbambiti, oppure come un vero colpo di Stato fallito. La verità sta nel mezzo: le persone coinvolte erano tante, ma non bastavano per instaurare un regime militare». In ogni caso il rischio che si sparasse sulle strade e che ci scappasse qualche centinaio di morti è stato reale.
Esiste un termine spagnolo per definire quanto accadde la notte del 7 dicembre 1970: è la parola “intentona”, ossia una specie di colpo di stato virtuale che serva da avvertimento.
Una notte, quella del 7 dicembre del 1970, rimasta avvolta dal mistero e ormai dimenticata.
Liquidata anche dalla Cassazione nel 1986, con una sentenza secondo la quale “La Corte ritiene che i clamorosi eventi della notte in argomento si siano concretati in un conciliabolo di quattro o cinque sessantenni”.
Ben diverso il parere della CIA. Nei documenti recentemente desecretati si legge che il Dipartimento di Stato statunitense era perfettamente a conoscenza del tentativo di colpo di stato, ritenendo che il fallimento fu imputabile essenzialmente al rifiuto dei Carabinieri di aderire al progetto.
La CIA attribuì al Vaticano il ruolo decisivo nel bloccare l’operazione eversiva.
Altri tempi, ci verrebbe da pensare. Parlare oggi di golpe e di carri armati per le strade parrebbe irrealistico. Ma non illudiamoci.
Allora lo spirito democratico era solido e tenacemente diffuso tra la gente.
Oggi ritengo che la democrazia, e non solo nel nostro Paese, sia molto più fragile.
Non solo perché ritenuta meno essenziale – come dimostrato da un’indagine demoscopica a livello europeo dell’Università di Cambridge – ma perché data troppo spesso per scontata. Con il paradosso creato da chi, denunciando improbabili regimi, in realtà li evoca.
Oggi non occorrerebbero più mezzi blindati. Sarebbe sufficiente “pilotare” le opinioni, condizionando i comportamenti. Cosa resa facile dall’enorme diffusione dei social. Consideriamo che un controllo sostanziale di questi mezzi, così come di altri settori nevralgici dell’economia globale, è oggi in mano a tre fondi (Vanguard, BlackRock, Wellington) che valgono, insieme, 14.500 miliardi di dollari, ossia, per rendere l’idea, il PIL italiano moltiplicato per dieci.
Nulla di illecito, si intende. Ma che rende necessario un attento monitoraggio e opportune regole certe. Senza le quali la nostra democrazia sarà sempre più fragile. Anche senza carri armati per le strade.

Foto di Fondazione Ugo Spirito

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Ricordate questa foto!

Guardate questa foto. E ricordatela.

Rammentatela domani, quando l’onda retorica del 25 novembre vi sommergerà in un profluvio di immagini e di belle frasi erroneamente attribuite.

Ma soprattutto tenetela presente quando udirete le roboanti e indignate dichiarazioni dei partiti politici e dei loro leader, tutti affratellati dallo sdegno per la violenza sulle donne.

Perché quando si tratta di impegnarsi realmente in tale direzione la risposta è tutta in questa foto, scattata ier l’altro, il 22 novembre.

La Ministra per le Pari Opportunità Elena Bonetti, vestita di rosso, mascherina compresa, perché il rosso è il colore scelto per la Giornata contro la Violenza sulle donne, illustra alla Camera una mozione sull’argomento, enunciando alcune importanti misure a sostegno delle vittime, tra cui il microcredito di libertà e il reddito di libertà.

Peccato che su 630 deputati siano presenti in 8!

Un sintomo profondo del disinteresse della politica per un tema che è divenuto solo strumento di propaganda e palestra di retorica.

Quando Elena Bonetti ha scandito, ad alta voce, che sono 108 le donne vittime di femminicidio quest’anno, l’eco della sua voce nell’aula vuota è divenuta un “j’accuse” irrevocabile verso un’intera classe politica.

Non sto facendo del facile qualunquismo.

Non si tratta di porsi contro il sistema basato sulla democrazia parlamentare che, al contrario, è il miglior metodo di governo ad oggi conosciuto.

Non si tratta di criticare il metodo democratico, ma di bollare di incapacità, egoismo e inefficacia la classe politica che incarna questo sistema.

Non è il metodo da cambiare, ma le persone che lo incarnano oggi.

Per questo non dobbiamo scordare questa foto!

Foto “Il Messaggero”
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Non solo il 25 novembre!

A Reggio Emilia Juana Cecilia Hazana Loayza, una donna di origini peruviane, è stata trovata morta in un parco pubblico. Sul collo aveva un’ampia ferita da arma da taglio. A infliggerla sarebbe stato Mirko Genco, ventiquattrenne di Parma, che da tempo perseguitava la donna.
A Sassuolo, poche ore prima, Nabil Dahir aveva barbaramente ucciso la sua ex compagna Elisa Mulas, la mamma della donna, Simonetta Fontana, e i due figli di 2 e 5 anni.
Lo stesso giorno Anna Bernardi è stata uccisa dal marito nella loro casa: dopo averle tagliato la gola l’uomo ha provato a togliersi la vita, Senza riuscirci.
Potrei proseguire per molte pagine. Quelle necessarie a contenere i nomi e le storie delle 108 vittime di femminicidio nei primi dieci mesi del 2021.
Sono consapevole che se parlerà a lungo tra pochissimi giorni, il 25 novembre, giornata contro la violenza delle donne.
Ma sono altresì convinto che proprio la pletora di commemorazioni e l’onda lunga di addolorato sdegno dettato dalla ricorrenza rendano il tema tanto solenne e liturgico quanto destinato a svanire il giorno dopo nell’oblio del quotidiano.
Per questo scrivo queste considerazioni oggi, in una data diversa da quella destinata alla commemorazione, nella speranza che la riflessione sia più attenta e meno scontata.
108 vittime in 11 mesi: una donna morta ogni tre giorni. Stando ai dati del Viminale 96 omicidi sono stati commessi in ambito familiare e 68 donne sono state uccisa da partner o ex partner.
Mentre il totale degli omicidi in Italia, nel corso degli ultimi 5 anni, è diminuito del 28%, il numero dei femminicidi è invece notevolmente aumentato. Questi ultimi, rispetto al totale delle uccisioni, sono infatti aumentati dal 35 al 44 per cento. Ormai quasi un omicidio su due, in Italia, è un femminicidio.
Nonostante le tante “panchine rosse” si rischia ormai, proprio per la frequenza del crimine e l’assuefazione allo stesso, di rendere invisibili le vittime, con un faro che ormai si accende solamente il 25 novembre, con una ritualità che si insinua stancamente nella rassegnazione.
Che fare per arginare questa tragedia?
Innanzitutto dobbiamo ragionare in termini di adeguamento giuridico.
E’ vero che, nel corso degli ultimi anni, alcune novazioni sono state introdotte, dalla legge del 2013 al cosiddetto codice rosso del 2019, ma i risultati ancora non si vedono.
Se è vero che – come risulta dai dati pubblicati dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla violenza sulle donne – il 63% delle vittime non aveva mai denunciato le violenze subite, è tuttavia triste che coloro che lo hanno fatto ne abbiano tratto ben poco beneficio.
Si tratta, in prima istanza, di una mancata “formazione” del personale deputato a raccogliere le denunce e ad assumere i provvedimenti conseguenti.
Leggendo la relazione della Commissione cogliamo perfettamente, in molti casi, un modo di ragionare che ci proietta indietro nel tempo. In molti piccoli centri, in cui dovrebbe essere proprio il fattore della conoscenza personale ad aiutare nella lettura della violenza e del rischio, alcune delle donne uccise hanno chiesto aiuto alle forze dell’ordine rappresentando la paura e la difficoltà di denunciare o la presenza di armi e sono state dissuase dal farlo, sono state rassicurate e rimandate a casa. In alcuni casi le forze di polizia, non distinguendo tra violenza domestica e lite familiare, nonostante il tangibile terrore della donna, si sono limitate a “calmare gli animi” (come si legge testualmente nei verbali).
Ai pubblici ministeri la Commissione rimprovera invece una difficoltà a riconoscere la violenza nelle relazioni intime e una non adeguata conoscenza dei fattori di rischio.
Anche qui si tratta di un problema di formazione. Un giudice deve cogliere segnali, decodificare comportamenti, inoltrarsi nei risvolti psicologici di chi agisce con violenza. Allora saprà valutare meglio il rischio che corre la donna e di conseguenza prendere provvedimenti adeguati. Il che non sempre significa affidarsi alla mera applicazione del diritto, perché agire secondo legge non sempre basta a scongiurare il peggio,
Dobbiamo a mio parere giungere, in caso di comportamenti persecutori verso la donna, al “braccialetto elettronico”, oggi impossibile in quanto serve il permesso dell’interessato e non esiste alcuna norma che indichi il carcere quale alternativa a tale strumento.
Ma aldilà dell’aspetto normativo è essenziale anche una svolta culturale. La relazione della Commissione Parlamentare ha rilevato alcune problematiche persino nel linguaggio usato nelle sentenze e nelle molte archiviazioni. Spesso la pregressa condotta violenta dell’uomo viene definita “relazione burrascosa, tumultuosa, turbolenta, instabile…”, anche a fronte di precedenti denunce della vittima per gravi maltrattamenti. Le vittime di femminicidio vengono spesso chiamate per nome, gli imputati per cognome, così generando una discriminazione anche linguistica, non giuridicamente giustificabile. Le vittime non sono descritte rispetto al loro contesto sociale e professionale, ma indicate come madri, mogli e figlie, cioè rispetto al loro ruolo familiare. Infine quando svolgono attività di prostituzione vengono chiamate prostitute e non con nome e cognome, così stigmatizzandole in partenza.
Ma il vero nucleo di cambiamento culturale è rappresentato dal binomio scuola e famiglia, laddove devono essere eradicati stereotipi arcaici ma pericolosi ancora presenti per creare una nuova visione di genere basata su rispetto e uguaglianza.
Molte scuole si stanno attivando per realizzare progetti promossi dal Dipartimento delle Pari Opportunità e finanziati dalla Commissione Europea per prevenire la violenza sulle donne. L’educazione alla parità tra i sessi e alla prevenzione della violenza di genere deve entrare a far parte del Piano dell’Offerta Formativa di ogni istituto e investire in maniera trasversale tutte le discipline, anche mediante la scelta oculata dei libri di testo.
Sono queste le iniziative necessarie a combattere la piaga del femminicidio.
Senz’altro più efficaci delle panchine rosse inaugurate ogni 25 novembre, in una giornata per molti sconfinata nella retorica.

Foto di Canal de Denúncias

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Kristallnacht e il muro

La notte tra il 9 e il 10 novembre del 1938 si verificò un’ondata di violenza antisemita che si propagò in tutta la Germania, nell’annessa Austria e nella regione dei Sudeti della Cecoslovacchia, da poco occupata dalle truppe tedesche.
In tutto il Reich tedesco centinaia di sinagoghe furono attaccate, soggette ad atti di vandalismo, saccheggiate e distrutte. Molte furono date alle fiamme. Ai vigili del fuoco fu ordinato di lasciar bruciare le sinagoghe, ma di evitare che le fiamme si propagassero agli edifici vicini. Le vetrine di migliaia di negozi ebrei furono distrutte e la merce rubata. I cimiteri ebraici furono profanati. Molti ebrei furono attaccati da squadre di truppe d’assalto (SA).
Venne in seguito chiamata “la notte dei cristalli”, dalla parola tedesca Kristallnacht, espressione che deve il suo nome alle schegge dei vetri frantumati che tappezzavano le strade tedesche all’indomani del pogrom e che provenivano delle finestre delle sinagoghe, delle case e delle vetrine dei negozi di proprietà di ebrei e che erano stati saccheggiati e distrutti durante i disordini.
Il governo nazionalsocialista dichiarò nei giorni successivi che la Kristallnacht era stata la reazione emotiva dell’opinione pubblica all’assassinio di Ernst vom Rath. Vom Rath, un funzionario presso l’Ambasciata tedesca di Parigi, assassinato in un attentato il 7 novembre da Herschel Grynszpan, un diciassettenne ebreo polacco. Ma non era andata così. Gli atti di violenza furono istigati soprattutto dagli ufficiali del Partito Nazista, dai membri delle SA e dalla Gioventù hitleriana. Nonostante l’apparenza di “disordini spontanei” che il pogrom assunse, le direttive generali impartite dai vertici nazisti contenevano indicazioni ben precise: i rivoltosi “spontanei” non dovevano commettere azioni dannose verso persone o proprietà di cittadini non ebrei; non dovevano attaccare gli stranieri (anche nel caso di ebrei stranieri) e dovevano sequestrare gli archivi delle sinagoghe prima di distruggerle insieme alle altre proprietà delle comunità ebraiche e inviare tutto il materiale d’archivio ai Servizi di sicurezza (Sicherheitsdienst o SD). Gli ordini includevano che i poliziotti dovessero arrestare gli ebrei, soprattutto giovani e di buona costituzione fisica, fino a riempire le carceri.
Le unità delle SS e della Gestapo, seguendo queste direttive, ne arrestarono oltre 30.000 e trasferirono la maggior parte di loro dalle prigioni locali a Dachau, Buchenwald, Sachsenhausen e ad altri campi di concentramento. La Kristallnacht rappresenta il primo caso in cui il regime nazista imprigionò in massa gli ebrei basandosi solo sulla loro etnia. A centinaia morirono nei campi in seguito ai brutali trattamenti ricevuti. Altri furono rilasciati nei tre mesi successivi, a patto che avviassero le pratiche per espatriare dalla Germania.
Quasi nessuno rammenta oggi questo avvenimento, che fu il principio di un cammino che condusse alla “Shoah”. Ricordarlo è invece necessario, perché ci mostra come da episodici disordini, ancorché manovrati, nasce spesso il cammino lastricato d’odio che conduce alle più terribili aberrazioni umane.
Lo è ancor più in questi giorni, in cui folle di dimostranti, sparute ma ignoranti, percorrono le vie delle nostre città accusando di comportamento nazista il governo italiano ed evocano scenari da campi di sterminio. Offendendo, con tali mascalzonate, la memoria e la vita di coloro che veramente furono vittime dei perfidi regimi del Novecento.
Se realmente fossimo governati da un sistema di tipo dittatoriale e nazista dubito fortemente che domattina questi figuri si sveglierebbero sereni nei loro letti.
Quasi a fare da contraltare alla Kristallnacht, in questi giorni si celebra anche il ricordo di un evento ben più lieto: la caduta del muro di Berlino.
La sera del 9 novembre 1989, nel corso di una conferenza stampa, il portavoce del governo della Germania Est, Guenter Schabowski, incalzato dall’allora corrispondente dell’ANSA a Berlino Est, Riccardo Ehrman, annunciò, forse per un malinteso, la modifica con effetto “immediato” delle “norme per i viaggi all’estero”: in particolare sarebbero state permessi gli spostamenti a Berlino Ovest per qualsiasi motivo.
Tale dichiarazione spinse decine di migliaia di berlinesi dell’est verso i posti di frontiera fra le due parti della città. Le guardie, colte di sorpresa da un afflusso così massiccio, chiesero ordini su come comportarsi, ma comunque alzarono le sbarre bianche e rosse permettendo a tutti di passare senza controlli.
Per tutta la notte, una marea festante attraversò il varco proibito, unendosi ad altrettante migliaia di cittadini dell’Ovest che applaudivano. Abbracci tra parenti e amici, costretti a vivere divisi per decenni. Fiaccole, birra e spumante, accompagnarono la folla. In quelle stesse ore fu distribuito un tabloid stampato a tempo di record, con il titolo “Berlino è di nuovo Berlino”. Le immagini di quella notte sono rimaste scolpite nella memoria di tutti noi: sono quelle dei tanti giovani che scavalcarono il muro aiutandosi a vicenda, poi i picconi e i martelli usati dalla sommità della barriera, ormai demolita nelle mente e che presto lo sarebbe stata nei fatti.
Un muro, quello di Berlino, che era rimasto in piedi per 28 anni, causando la morte di 943 persone: i tedeschi della Germania dell’Est che negli anni della Guerra Fredda vennero uccisi nel tentativo di fuggire in Occidente.
Questi due episodi devono essere un monito: è lenta e spesso impercettibile la deriva verso i regimi, ma ancor più lungo e doloroso è il cammino verso la libertà.

Foto Vatican News