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Buon anno!

“Coll’anno nuovo, il caso incomincerà a trattar bene voi e me e tutti gli altri, e si principierà la vita felice. Non è vero?”.
In questa celebre frase di Giacomo Leopardi, tratta dal “Dialogo di un venditore d’almanacchi e di un passeggere” nelle “Operette morali”, si sostanzia l’aspettativa che avvolgeva il nuovo anno. La speranza di una svolta, di un miglioramento. Di un’alba portatrice di inevitabile felicità.
Oggi, tuttavia, questo auspicio si è affievolito.
Ce lo confermano gli studiosi del celebre Collins English Dictionary, che lavorano ogni anno alla compilazione dell’elenco delle parole che riflettono il nostro linguaggio e le preoccupazioni di coloro che lo usano.
Secondo i linguisti del Collins la parola che ha contraddistinto il 2022 è “Permacrisis”, ossia crisi permanente, vocabolo che descrive la sensazione di vivere un periodo di problematiche senza tregua.
Non si tratta di un vero e proprio neologismo, in quanto la parola è stata notata per la prima volta, in contesti accademici, negli anni ’70.
Tuttavia, nel corso del 2022, questo vocabolo ha assunto una rilevanza generale e diffusa in tutta la popolazione, a indicare una fase estesa di instabilità e insicurezza in un mondo sul quale sembra costantemente pendere una spada di Damocle.
Di motivi ce ne sono molti.
Una lunga pandemia, la più terribile dal 1919.
Guerre ovunque. Quella in Ucraina, al centro dell’attenzione per la sua localizzazione in Europa (molti scordano la guerra balcanica tra il 1990 e il 1999) ma, soprattutto, per una narrazione piuttosto “a senso unico”. Così come i conflitti che investono ampie aree del globo, altrettanto sanguinosi e non meno preoccupanti.
La crescente oppressione dell’universo femminile, come in Iran – dove le donne vengono uccise per un velo non indossato – oppure in Afghanistan, da dove le truppe occidentali sono scappate con ignominia lasciando la popolazione, disperata, a tentare di fuggire aggrappata ai carrelli degli aeroplani. “Finora i Talebani hanno mantenuto quanto promesso”, disse senza vergogna al momento della fuga Joe Biden. Chissà cosa direbbe oggi, quando le donne in quel paese sono meno importanti degli yak da soma.
Altra fonte di preoccupazione sono le crescenti difficoltà economiche, la recessione, l’aumento del costo della vita. In questi giorni natalizi in molti si sono messi in coda per entrare alle mense dei poveri, per ritirare un pacco di cibo per Natale o un gioco da mettere sotto l’albero per i bimbi in questi giorni di feste “magre”, con le famiglie che faticano ad arrivare a fine mese per l’inflazione che fa aumentare il costo della spesa e la crisi energetica con il “caro bollette”. Il venti per cento in più rispetto allo scorso anno.
E’ comprensibile che tutti questi fattori, ed altri ancora sui quali non mi dilungo, abbiano insinuato in molti quella indistinta sensazione che il mondo sia in profonda e irreversibile crisi, con un futuro che – lungi dall’essere latore di vita felice – pare essere avvolto da nubi ancor più fosche.
Eppure…
Ebbene sì, c’è un “eppure”, perché la percezione di vivere nella fase più sfortunata della storia è piuttosto sopravvalutata.
È vero che abbiamo attraversato una terribile pandemia, ma abbiamo anche potuto contare su un vaccino preparato in tempo record e in misure di prevenzione e informazione che cent’anni fa, ai tempi dell’influenza spagnola, non erano nemmeno pensabili.
È vero che la guerra in Ucraina e gli altri conflitti nel mondo mettono a repentaglio il tepore delle nostre case, ma ottant’anni fa i nostri ventenni dovevano lasciarle, le case, alla volta delle lande russe, e Dio sa quanti non hanno fatto più ritorno.
E’ vero che le donne vengono umiliate e perseguitate, ma è altrettanto vero che assistiamo a segnali di reazione. In Iran, dove le proteste stanno facendo scricchiolare un sistema di potere che pareva inscalfibile. Speriamo presto in Afghanistan, dove già si colgono segnali di reazione.
E’ anche vero quanto abbiamo detto sulla situazione economica, ma è altrettanto certo che esistono le risorse, le tecnologie e le conoscenze per una ripresa generale. Purché la stessa sappia coniugare l’efficienza produttiva e la conseguente crescita con una più diffusa distribuzione di ricchezza e con l’eliminazione delle più odiose diseguaglianze.
Rimbocchiamoci le maniche, quindi, certi che il futuro sarà anche quello che sapremo costruire.
Ritrovando in noi stessi valori che si impongano sulla sbandierata povertà morale che ha reso irrespirabile l’aria del nostro quotidiano.
Costruendo una nuova educazione, etica e civica, che sappia vincere la volgarità e un ormai tracotante egocentrismo.
Abbracciando la ragione che – come amava dire Norberto Bobbio – non è un lume ma soltanto un lumicino, ma tuttavia l’unico strumento per procedere in mezzo alle tenebre.
Abbiate quindi un barlume di fiducia. Non nella natura, che è dolce e affettuosa solo nei film di Disney. Non nell’indole umana, capace dell’egoismo più atroce.
Ma nella capacità del genere umano di migliorare se stesso e le sue condizioni di vita.
Con un percorso non lineare, con ricadute odiose e tribali rigurgiti.
Ma con uno sguardo che comunque sa cogliere nel futuro gli scenari del fattibile.
Impegniamoci in questo cammino, nel faticoso disegno tracciato per ciascuno di noi, che sapremo cogliere nel silenzio, assecondandone il respiro.
Come diceva Clive Staples Lewis non si è mai troppo vecchi per proporsi un buon obiettivo o per avere un nuovo sogno.
E allora ci scopriremo a sorridere. Perché la fine, a volte, sa farsi ottimo inizio.
Buon anno.

Pierre-Auguste Renoir – “Bal au moulin de la Galette”

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Attualità di Enrico Mattei

Sessant’anni anni fa, il 27 ottobre 1962 moriva Enrico Mattei, in un incidente aereo che solo recentemente è stato riconosciuto come “non accidentale”.
Mattei rappresenta nella nostra storia il simbolo di un Paese che ha raggiunto la modernità della democrazia economica attraverso tutte le luci e tutte le ombre del ventesimo secolo. Ed è questa un’ottima ragione per parlarne ancora.
Marchigiano di Acqualagna, Mattei era il secondo dei cinque figli di un brigadiere dei carabinieri convinto che “restare poveri è una disgrazia perché non si può studiare”. La povertà della famiglia e la rigida disciplina imposta dal padre lo spinsero a cercarsi presto un lavoro. Iniziò in una fabbrica come verniciatore, quindi venne assunto come garzone in una Conceria. La sua carriera fu rapida: prima operaio, poi aiutante chimico, infine direttore di laboratorio. Nel 1929 Mattei fondò con la sorella e un fratello la sua prima fabbrica: un piccolo laboratorio di oli emulsionanti per l’industria conciaria e tessile. Nel 1934 provò a diventare un vero industriale e fondò a Milano la Chimica Lombarda.
Ma la sua storia è intimamente legata a quella – estremamente attuale – dell’indipendenza energetica italiana.
A seguito della tardiva unità raggiunta, il nostro Paese, all’inizio del Novecento, si trovava svantaggiato rispetto alle altre nazioni europee, dotate di colonie che fornivano regolarmente materie prime energetiche.
Il governo fascista, negli anni Venti, mostrò grande pragmatismo, stringendo un accordo con l’Unione Sovietica per l’approvvigionamento di petrolio a un prezzo decisamente inferiore a quello imposto dagli americani. Con il paradosso che il governo fascista fu il primo nel mondo occidentale a riconoscere di fatto l’Unione Sovietica, con grande disappunto degli altri Paesi occidentali (oggi diremmo degli altri Paesi della NATO).
Sempre in quegli anni un’altra società americana, la SINCLAIR, tentò di ottenere alcuni contratti per lo sfruttamento dei giacimenti italiani in Sicilia ed Emilia, facendo un larghissimo ricorso a strumenti di corruzione. Alcuni storici sostengono che il reale movente del delitto Matteotti fu legato alla conoscenza da parte di quest’ultimo di numerosi fatti di corruzione e alla sua volontà di denunciare corrotti e corruttori davanti al Parlamento.
In questo contesto, nel 1926, venne creata l’Agip, Azienda Generale Italiana Petroli, la quale funzionò in modo alterno, sino alla sua quasi dissoluzione negli anni del conflitto mondiale.
Nell’immediato dopoguerra, su pressioni degli Stati Uniti e delle compagnie petrolifere americane, si pensò di smantellare l’Agip.
A questo compito fu chiamato proprio Enrico Mattei.
Il quale, tuttavia, ebbe un’idea geniale. Anziché concentrarsi sul petrolio, comunque scarso e fuori mercato, individuò la possibilità fornita dai giacimenti di gas. Non facevano viaggiare le auto ma permettevano il funzionamento delle industrie.
Da quel momento l’Agip, anziché essere liquidata, si rese protagonista di uno sviluppo senza precedenti, dotando il Paese di una rete di gasdotti tra le più ramificate del mondo.
Per il petrolio, invece, imitò il pragmatismo del fascismo e, grazie all’aiuto dell’amico partigiano Luigi Longo, strinse un accordo con l’Unione Sovietica per ottenere il prodotto a un costo irrisorio rispetto a quello delle compagnie petrolifere statunitensi e offrendo in cambio tecnologia per la costruzione di oleodotti e le petroliere costruite da Fincantieri.
Mattei voleva conseguire un obiettivo che riteneva fondamentale: garantire al Paese un’impresa energetica nazionale, che dal 1953 si chiamerà Eni, in grado di assicurare quanto serviva ai bisogni delle famiglie e allo sviluppo della piccola e media impresa, a prezzi più bassi rispetto a quelli degli oligopoli internazionali.
Mattei si mosse con intelligenza anche sulla scena internazionale e fu tra i primi a coltivare il rispetto delle culture diverse, avendo ben chiaro che non era possibile fare strategia internazionale senza conoscere bene i singoli territori. La diversità Eni fu per anni una sorta di eccezione, un’impresa che compiva scelte diverse da quelle della maggioranza dei suoi concorrenti. Anche per questo Mattei è stato il simbolo di un modo di pensare l’Italia talmente visionario da riuscire a trasformare una nazione sconfitta e contadina in un Paese avanzato con una forte industria energetica.
Mattei, a capo dell’ENI, avvicinò il mondo africano e mediorientale armato di una formula di concessione (“75-25”, ossia 75 al paese produttore e 25 all’ENI) molto più favorevole per i Paesi produttori rispetto a quello delle compagnie petrolifere statunitensi. Inoltre il suo linguaggio era sintonizzato sulle parole d’ordine di tutti i giovani nazionalismi anti-colonialisti. Nacquero così gli accordi con Marocco, Iran, Libia, Tunisia e l’Egitto di Nasser.
L’Eni di Mattei divenne un operatore planetario. Il suo successo, ovviamente, era visto con grande livore negli Stati Uniti. Lo stesso avvenne in Gran Bretagna: in alcuni documenti di quegli anni del Foreign Office si legge che “l’Eni sta diventando una crescente minaccia, non solo dal punto di vista commerciale. La minaccia dell’Eni si sviluppa infatti, in molte parti del mondo, nell’infondere una sfiducia latente nei confronti delle compagnie petrolifere occidentali”.
Quando la sera del 27 ottobre 1962 l’aereo di Mattei cadde in fiamme a Bascapè, nei pressi di Pavia, furono in molti a pensare a un attentato.
Ma fu soltanto 43 anni dopo, nel 2005, che una perizia tecnica ordinata dai magistrati pavesi – sulla scorta di filoni giudiziari riguardanti fatti mafiosi – accertò che l’aereo fu distrutto in volo da un’esplosione.
Per il sostituto procuratore Vincenzo Calia il fondatore dell’ENI fu “inequivocabilmente” vittima di un attentato. L’indagine ha definitivamente dimostrato che l’esplosione che abbatté il bimotore su cui viaggiava Mattei fu causata da una bomba collocata nel carrello d’atterraggio del velivolo. Venne anche provato che l’inchiesta del 1962, presieduta dal generale dell’Aeronautica Ercole Savi, fu un vero insabbiamento.
Che Mattei sia stato vittima di un attentato è stato altresì ribadito nella sentenza di un processo a latere, quello per l’omicidio del giornalista Mauro de Mauro: secondo la Corte d’assise di Palermo de Mauro è stato ucciso perché stava per divulgare quanto aveva scoperto sulla morte di Enrico Mattei.
Così come Pierpaolo Pasolini fu ucciso pochi giorni prima che scrivesse il capitolo del romanzo “Petrolio” intitolato “lampi sull’ENI”, in cui avrebbe trattato dei mandanti del delitto Mattei.
Nel nostro Paese non ci si rese conto della funzione straordinaria di Mattei nella ricostruzione e nell’ascesa del Paese a grande potenza industriale.
Mattei è stato un manager che ha reso grande l’Italia per amore del suo Paese e per senso del dovere. Quanta diversità rispetto a tanti presunti super-manager attuali! Pensate che Mattei aveva disposto che il suo stipendio venisse versato al monastero delle Clarisse di Matelica, cittadina nella quale era cresciuto. Questo perché, nel suo rigore morale, riteneva possibile un minuscolo conflitto d’interessi, visto la originaria comproprietà con il fratello di una piccola azienda chimica. Cose d’altri tempi, verrebbe da dire, ma tempi certamente migliori.
Enrico Mattei rimane un simbolo per il nostro Paese. Un’Italia eternamente imperfetta, ma capace, nella sua “provincia”, di inventare grandi visioni, grandi aziende, grandi italiani. Un Paese che non si genuflette all’arroganza, che non si arrende alla corruzione, capace di una larga visione dell’interesse comune.
Un’Italia che sembra scomparsa, in una cupa rassegnazione intrisa di cinismo, nell’elogio del “così fan tutti”.
Ricordare oggi Mattei significa riscoprire valori solo apparentemente arcaici e proporre nuovamente tale visione, perché un diverso futuro è ancora possibile.
E’ sempre possibile!

Immagine di Rai News

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Inizio anno scolastico

Prende il via oggi, in molte regioni, il nuovo anno scolastico.
L’istruzione rappresenta, nel nostro Paese, un tema essenziale, che investe prioritariamente il nostro presente ma che stende la sua ombra imponente sul futuro.
L’Italia versa tuttavia in un profondo stato di emergenza culturale.
La confusione di valori nella quale annaspa il Paese, l’incapacità di ipotizzare scenari di sviluppo credibili e che non si nutrano di mere parole d’ordine imbibite di banalità ha infatti radici culturali prima ancora che economiche.
Un saggio edito un paio di anni fa ha evidenziato il malessere che affligge la nostra scuola. Gli scolari disobbediscono alle loro maestre. Gli adolescenti aggrediscono i loro insegnanti. I genitori di quegli adolescenti si precipitano a scuola per picchiare gli insegnanti già aggrediti dai propri figli. E’ cronaca quotidiana. Una fattualità che pare indicare il tramonto, se non la liquidazione, della pedagogia. Ma non già, si badi bene, di una sua forma, magari perché ritenuta non più adeguata, ma l’abbandono stesso dell’idea che il bambino debba essere in qualche modo – e da qualcuno – accompagnato, guidato, condotto per mano a una destinazione a lui ignota. Con l’inevitabile e conseguente presupposto di una subordinazione dell’educando all’educatore, di una disciplina che mobiliti un sapere da trasmettere e apprendere, preludio indispensabile a una formazione che prosegua per tutta la vita dell’uomo. La liquidazione della scuola si pone come soluzione finale di uno scenario nel quale l’educazione stessa scompare dall’orizzonte della nostra esperienza umana.
Un quadro davvero preoccupante, che delinea orizzonti ancor peggiori, rappresentati da una società sempre più individualista e dedita all’improvvisazione.
La scuola soffre, vittima innanzitutto di un profondo disinteresse da parte della classe politica.
Una spesa per l’istruzione al terz’ultimo posto in Europa e una sottovalutazione, anche economica, del ruolo dei docenti, senz’altro aggravati dalla crisi pandemica e dalla scuola “a distanza”, hanno drammaticamente contribuito al peggioramento del quadro generale.
Uno studio di queste settimane ha affrontato il tema della dispersione scolastica. Si tratta, in sostanza, della incompleta o irregolare fruizione dei servizi dell’istruzione da parte dei giovani in età scolare. In quest’ambito, con una percentuale del 12,7%, l’Italia ha ottenuto il peggior risultato in Europa.
Vi è poi – altrettanto grave – il fenomeno della cosiddetta dispersione “implicita”, rappresentato dai giovani che terminano il ciclo di studi senza le competenze minime necessarie per entrare nel mondo del lavoro o dell’Università, Qui la percentuale è del 9,7%, ancora una volta tra le peggiori d’Europa. Con punte in Campania, Sicilia e Calabria che sfiorano il 20%. In queste regioni il 60% degli studenti non raggiunge il livello base delle competenze in italiano, mentre quelle in matematica sono disattese dal 70%.
Molto deve essere fatto, ma occorre una forte spinta da parte dell’esecutivo.
Spiace notare che, ancora una volta, tra i temi più ripetuti nella campagna elettorale in corso ben poco appaia l’istruzione, se non in termini generici e piuttosto banali.
Non occorrerebbero manovre faraoniche.
Portare la spesa per l’istruzione al 5% del PIL, che è la media investita nei paesi europei, significherebbe stanziare 93 miliardi contro i 71 stanziati per il 2020. Ventidue miliardi in più, molti di meno di quanto è costato allo stato finanziare il cosiddetto bonus 110%.
Nell’auspicare un felice anno scolastico non possiamo prescindere dalle riflessioni che vi ho esposto, perché la scuola torni ad essere, come deve, un momento essenziale di formazione e di sviluppo. Un veicolo di crescita civile e sociale. Una speranza per il domani.
Per gli alunni, perché sappiano cogliere nel loro percorso didattico non già uno scaffale di nozioni, ma un germinatoio di idee. Perché, come disse Sidney Harris, lo scopo della scuola è quello di trasformare gli specchi in finestre.
Per gli insegnanti, cuore della formazione culturale e civile delle future generazioni. Strumento vivo per un’educazione che sia fondamento non solo di progresso ma anche di umanità. Diceva Henry Brooks Adams che “un insegnante colpisce per l’eternità; non si può mai dire dove la sua influenza si ferma”. Grazie al loro impegno, al quotidiano mettersi in gioco, alla capacità di cogliere le emozioni dell’alunno per farle proprie e appassionarlo: portandolo ad amare quanto deve apprendere. Con il dovere da parte dello stato di un equo riconoscimento.
Per la scuola, perché – come ebbe a dire Piero Calamandrei in un suo celebre discorso – trasformare i sudditi in cittadini è il miracolo che solo la scuola può compiere.

Foto Regione Lazio
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Non scordiamo mai

2 agosto 1980. Chi visse quella giornata non la potrà mai scordare.
Era il primo sabato d’agosto. Allora, molto più di oggi, era quello del “grande esodo”. Le ferie si concentravano in quel mese, con la chiusura delle grandi fabbriche del Nord, trasformando le città in spettrali scenografie di case vuote e negozi chiusi.
A Bologna, quel giorno, faceva un caldo insopportabile, perché nella “bassa” l’umidità accentua la sensazione di disagio.
La stazione ferroviaria felsinea era affollata, con le famiglie che partivano per le ferie con l’aria felice di chi aveva consegnato a quei giorni di vacanza tutti i sogni tenuti chiusi per mesi nel cassetto della laboriosa quotidianità. Improvvisamente, alle 10 e 25, il tempo si fermò.
Un boato spazzò la spensieratezza e tantissime vite. Oltre venti chilogrammi di tritolo, contenuti in una valigia, esplosero nella sala d’aspetto di seconda classe. Le lancette del grande orologio della stazione segnano ancora oggi quell’ora terribile. La deflagrazione causò il crollo dell’ala sinistra dell’edificio. Della sala d’aspetto, del ristorante, degli uffici del primo piano non restò più nulla. Una valanga di macerie si abbatté anche sul treno “Adria Express Ancona-Basilea”, fermo sul primo binario. Uomini, donne e bambini persero la vita, dilaniati o schiacciati.
I morti furono 85, i feriti e mutilati oltre 200. Le vittime più piccole furono Angela Fresu, di appena 3 anni, Luca Mauri di 6 e Sonia Burri di 7. Le più anziane Maria Idria Avati di 80 anni e Antonio Montanari di 86.
La città di Bologna si mobilitò immediatamente: molti cittadini, insieme ai viaggiatori presenti, prestarono i primi soccorsi alle vittime e contribuirono ad estrarre le persone sepolte dalle macerie.
Per ore sanitari, vigili del fuoco, forze dell’ordine, militari e volontari lavorarono incessantemente alla ricerca di vite da soccorrere e da salvare. Una catena spontanea che in pochissimo tempo rimise in moto la città che stava ‘chiudendo per ferie’. Saltarono le linee telefoniche e i cronisti giunti sul posto, per poter raccontare l’inferno di quei momenti, utilizzarono la cabina dei controllori degli autobus sul piazzale, dove il telefono invece funzionava. Cellulari e internet ancora non esistevano, ma dagli ospedali giunse comunque l’invito a medici e infermieri di tornare in servizio. Un appello accolto da tutti. Un autobus urbano della linea 37 divenne il simbolo di quel terribile giorno, trasformandosi in un improvvisato carro funebre che trasportava le salme all’Istituto di Medicina legale.
La solidarietà fu immensa anche nel resto del Paese.
Migliaia di messaggi furono inviati al sindaco felsineo, Renato Zangheri, da ogni parte del mondo. Vi era molta fiducia nel sindaco e altrettanta nel Presidente della Repubblica, Sandro Pertini. Fu proprio Pertini, nel corso dei funerali celebrati nella Basilica di San Petronio, ad affermare in lacrime di fronte ai giornalisti di non avere parole, sopraffatto di fronte all’impresa più criminale mai avvenuta in Italia.
Per la strage, dopo anni di depistaggi, sono stati condannati cinque esecutori: in via definitiva Valerio Fioravanti, detto Giusva, Francesca Mambro, moglie di Fioravanti, Luigi Ciavardini, e – per concorso nel reato – Gilberto Cavallini, esponenti del gruppo terroristico di estrema destra denominato NAR, Nuclei Armati Rivoluzionari. Condannato lo scorso aprile in primo grado anche Paolo Bellini.
I due principali artefici furono proprio Valerio Fioravanti e Francesca Mambro.
Fioravanti, autore anche di numerosi altri omicidi e atti terroristici, fu condannato in tutto a 8 ergastoli, 134 anni e 8 mesi di reclusione. Ottenuta la libertà vigilata nel 2004, è un libero cittadino dal 2009.
Francesca Mambro, condannata complessivamente a 9 ergastoli, 84 anni e 8 mesi di reclusione, ha ottenuto la libertà vigilata nel 2008 ed è una libera cittadina dal 2013.
Dal 1982 l’iter giudiziario non si è ancora concluso, costellato – anche in questo caso – da depistaggi, misteri e collusioni.
L’ultima sentenza è quella del 6 aprile scorso, nell’ambito della quale, oltre all’ergastolo comminato a Paolo Bellini quale esecutore, la Corte di Assise di Bologna ha condannato anche l’ex ufficiale dell’Arma, Piergiorgio Segatel a sei anni per depistaggio e a quattro anni Domenico Catracchia, l’ex amministratore di condominio di via Gradoli a Roma, dove dimorarono prima le Br e poi i Nar, per aver raccontato il falso ai pubblici ministeri.
Quest’ultimo processo (il tredicesimo!) ha individuato anche i finanziatori e mandanti: il venerabile Licio Gelli (onnipresente nelle pagine più cupe della nostra storia), che avrebbe finanziato la strage con i fondi distratti dal fallimento dell’Ambrosiano. Il suo collaboratore e braccio destro Umberto Ortolani, l’ex capo dell’ufficio Affari Riservati del Ministero dell’Interno, Federico Umberto D’Amato e il direttore del settimanale “Borghese”, Mario Tedeschi.
Tutti, ovviamente, sono deceduti.
Dopo 42 anni, nonostante i colpevoli, mandanti e esecutori, siano tutti liberi o deceduti, quella insopportabile polvere che ha ricoperto i corpi martoriati delle vittime e che troppo a lungo ha celato le tante responsabilità si sta finalmente diradando, illuminando nuovi profili dell’accaduto.
Fu un’epoca terribile per il nostro Paese, che tuttavia seppe reagire difendendo strenuamente i valori della democrazia e sconfiggendo sia lo stragismo nero che il brigatismo rosso.
Si trattava però di un’Italia diversa da quella attuale, saldamente ancorata ai valori fondanti della convivenza civile nata con la Repubblica. Rappresentata da forze politiche che, indipendentemente dalle naturali e persino opportune differenze strategiche e prospettiche, si richiamavano al nocciolo duro e inviolabile dei valori espressi nella Costituzione Repubblicana. Quel due di agosto del 1980, spontaneamente, milioni di persone in tutta Italia scesero nelle piazze, senza bandiere di partito, per affermare con forza che non si sarebbero arrese, che non avrebbero ceduto agli architetti del terrore, agli stregoni dell’angoscia. Fu la manifestazione di una tenuta democratica che fece scudo alle istituzioni repubblicane contro il bieco disegno del terrore.
Temo che oggi tale reazione sarebbe impensabile.
La caduta dei valori civici diffusi è mortificante, e fa da contraltare alla peggior classe politica che mai ha calpestato (e offeso) gli scenari delle istituzioni.
Fu un’epoca terribile certamente. Ma con un Paese migliore.

Foto Istituto Nazionale Ferruccio Parri
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Paolo Borsellino: trant’anni con noi.

Vi sono date scolpite in modo indelebile nella storia del nostro Paese.
Una di questa è il 19 luglio 1992, esattamente trent’anni fa.
Quel giorno, a Palermo, in via d’Amelio, l’esplosione di una Fiat 126 imbottita con oltre cento chilogrammi di tritolo uccise il giudice Paolo Borsellino e gli agenti di scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cusina, e Claudio Traina.
Era domenica e Borsellino aveva trascorso alcune ore al mare con la moglie Agnese, nella villetta di Villagrazia. Alle 16,30, con la sua immancabile borsa di pelle contenente anche la celeberrima agenda rossa mai più ritrovata, il magistrato salutò la Agnese e il figlio Manfredi per andare a trovare la madre.
Alle 16 e 58 minuti, mentre Borsellino aveva appena suonato al citofono della mamma in via d’Amelio, l’autobomba esplose.
Da oltre venti giorni il magistrato, quasi avesse un presentimento, aveva sollecitato la questura affinché provvedesse alla rimozione delle auto in sosta dalla zona antistante l’abitazione della madre. La sua richiesta non fu presa in considerazione e fu proprio una vettura posteggiata a provocare la strage.
Nei giorni che precedettero la strage Borsellino aveva osservato come tanta gente andasse da lui a porgere le condoglianze per la morte di Giovanni Falcone, ucciso cinquantasette giorni prima, ricavandone tuttavia la sensazione che vedessero in lui la prossima vittima.
Quel 19 luglio rappresentò un vulnus terribile alla credibilità dello Stato. Le generazioni che si affacciavano allora alla vita, ma non solo loro, videro annichilita quella fiducia nelle istituzioni che la scuola, la televisione e, per i più fortunati, la famiglia avevano provato a inculcare.
Noi oggi consideriamo “eroi” i giudici Falcone e Borsellino, ma non possiamo scordare che tali divennero soltanto dopo la loro morte. In vita erano stati vittime di veleni, sospetti e maldicenze tali da alimentare l’intreccio che portò alla loro fine. Vennero accusati di protagonismo, vanità, scarso senso dello stato. Anche da persone insospettabili, quali Leonardo Sciascia e Leoluca Orlando. Borsellino, non a caso, affermò che Falcone iniziò a morire dopo l’articolo di Sciascia sui “professionisti dell’antimafia”.
Nel dicembre 1987, alla chiusura del maxi-processo contro Cosa Nostra che portò a 360 condanne, il clima intorno ai magistrati divenne pesante. Il nuovo ministro della Giustizia Giuliano Vassalli, il 19 gennaio 1988, nominò Antonino Meli capo dell’Ufficio istruzione di Palermo, ignorando la candidatura di Falcone.
Meli cominciò subito ad assegnare a magistrati esterni al pool le inchieste di mafia, e sul tavolo di Falcone e dei suoi colleghi piovvero invece indagini per borseggi, scippi, assegni a vuoto. Borsellino parlò allora di grandi manovre per smantellare il pool antimafia.
Fu così che si giunse alle stragi di Capaci e di via Amelio del 1992.
In quel mese di luglio tutti a Palermo sapevano che Paolo Borsellino sarebbe stato ucciso. Lo sapevamo i giornalisti che frequentavano il ‘Palazzaccio’, lo sapevano i palermitani che ne chiacchieravano liberamente nei bar. Lo sapeva anche Paolo Borsellino che ne parlò apertamente. Il magistrato aveva fatto intendere di “aver compreso”. Certo non aveva in tasca nomi e cognomi delle menti criminali coinvolte, ma aveva intuito il senso di tutta l’operazione stragista, ordita da qualcuno un po’ più raffinato e intelligente di Totò Riina e solamente appaltata ai macellai di Cosa nostra.
La sua, come hanno raccontato alcuni pentiti, era una morte programmata da tempo, ma anticipata con una incredibile premura. I pubblici ministeri che indagarono sulla sua morte scrissero che la tempistica della strage fu certamente influenzata dall’esistenza e dall’evoluzione della cosiddetta trattativa tra uomini delle istituzioni e Cosa Nostra.
Borsellino era perfettamente consapevole di andare incontro alla morte.
Il 13 luglio, sconsolato, affermò di aver appreso dell’arrivo del tritolo a lui destinato. Il 17, due giorni prima della morte, salutò singolarmente i colleghi, abbracciandoli. Quindi chiamò l’amico don Cesare Rattoballi e chiese di confessarsi, convinto che il suo momento stesse arrivando.
La decisione di uccidere Borsellino, come detto, fu “accelerata” da personaggi esterni alla mafia. Del resto, come affermato dal Procuratore di Palermo Francesco Lo Voi, la mafia uccide raramente solo per vendetta. Borsellino, che lo aveva capito, disse a sua moglie che sarebbe stata la mafia a ucciderlo, ma quando altri lo avessero deciso. Lo stesso Riina, intercettato durante un’ora d’aria mentre era detenuto, raccontò a un altro detenuto mafioso che l’omicidio del magistrato fu una cosa decisa alla giornata, perché arrivò “quello” e disse di farlo subito. Chi era “quello”? Uno dei tanti misteri della storia italiana, uno dei più inquietanti.
Roberto Tartaglia, già pubblico ministero nel pool di Palermo, si disse convinto che Paolo Borsellino potesse rappresentare un ostacolo alla prosecuzione della trattativa Stato-mafia.
Oggi alcune cose sono cambiate e le mafie hanno scelto una nuova strategia che ha permesso l’ascesa economica e territoriale. Agli omicidi eccellenti e alle bombe si sono sostituiti incentivi di natura finanziaria, quali la corruzione di pubblici ufficiali e professionisti. La pandemia ha offerto ai capitali delle mafie ulteriori possibilità di riciclo ed emersione, a causa dei problemi finanziari abbattutisi su negozi, imprese e semplici cittadini. Oggi un’altra sponda offerta alle organizzazioni mafiose è rappresentata dai bonus edilizi. Il clan camorristico dei Casalesi parrebbe essere stato il primo ad aver fiutato l’affare, avendo storicamente disponibilità di centinaia di ditte edilizie compiacenti o addirittura allo stesso riconducibili. Solamente l’istituto di Poste Italiane, una delle principali piattaforme per trasformare i crediti in soldi, avrebbe inconsapevolmente monetizzato per il clan diverse centinaia di milioni di euro. Le cifre precise sono in corso di verifica da parte dell’Agenzia delle Entrate. Ma questa è solo la punta dell’iceberg. Secondo i dati della Unità di informazione finanziaria (Uif) della Banca d’Italia, infatti, il 21,4% delle 459 segnalazioni per operazioni sospette legate alla cessione crediti d’imposta nel 2021, ha connessioni a contesti “potenzialmente riconducibili alla criminalità organizzata”. Parliamo di una cifra che si attesta sui 5,6 miliardi di Euro.
L’omicidio di Paolo Borsellino, dopo trent’anni, resta senza colpevoli.
Si sono susseguiti in numero di processi di cui è difficile persino tenere il conto.
Borsellino 1, bis, ter, quater, un giudizio di revisione per rimediare a sette ergastoli inflitti ingiustamente, poi l’atto d’accusa contro quello che è stato definito “il depistaggio più grave della storia repubblicana” e infine il giudizio, ancora in corso in secondo grado, a carico dell’ultimo superlatitante di Cosa nostra: il boss Matteo Messina Denaro.
Senza contare gli appelli e le pronunce della Cassazione. Decine di sentenze che hanno chiarito certamente il ruolo della mafia nell’attentato al giudice Paolo Borsellino e agli agenti della scorta, ma che lasciano ancora senza risposta tanti interrogativi: dalle responsabilità esterne a Cosa nostra, alla sorte dell’agenda rossa, il diario sul quale il giudice scriveva i suoi segreti, sparita nel nulla. Fino ai nomi degli autori del depistaggio delle indagini sull’eccidio. Anni di giudizi senza una verità: un paradosso tutto italiano.
Ma non dobbiamo arrenderci.
La battaglia quotidiana contro la sottocultura mafiosa, anche quella attuale, basata sull’infiltrazione, deve rimanere un impegno quotidiano nella scuola, nelle famiglie, nelle istituzioni. Dobbiamo credere, così come credeva lo stesso Borsellino, che la lotta alla mafia deve essere un movimento culturale e morale, in grado di coinvolgere tutti, specialmente le giovani generazioni, le più pronte a rifiutare il puzzo del compromesso morale e dell’indifferenza.
Le battaglie in cui si crede non sono mai battaglie perse.
Così è, e per questo ancora oggi Paolo Borsellino è vivo tra noi.

Foto di Radio Monte Carlo
politica · società

Un eroe del nostro tempo

L’11 luglio 1979 veniva assassinato a Milano l’avvocato Giorgio Ambrosoli.

Ormai quasi tutti hanno scordato quell’evento e, soprattutto, la figura di Giorgio Ambrosoli. Un uomo che, al contrario, oggi più che mai rappresenta un esempio per il suo spirito civico e senso del dovere

In quella sera d’estate di quarantatre anni fa, calda ma soprattutto afosa, Ambrosoli, dopo aver trascorso qualche ora in compagnia di alcuni amici, li aveva accompagnati a casa. Al suo ritorno, appena sceso dall’auto, fu affiancato da una Fiat 127 rossa. Una voce domandò: “Avvocato Ambrosoli?“. Avutone conferma un uomo gli disse: “Mi scusi avvocato“. E sparò quattro colpi di pistola. Giorgio morì poco dopo, sull’ambulanza. L’assassino era William Joseph Aricò, un killer conosciuto a New York come “Bill lo sterminatore”, ingaggiato dal finanziere Michele Sindona. Il quale, per questo, fu condannato all’ergastolo e, due giorni dopo la sentenza, venne trovato morto in cella per avvelenamento da cianuro di potassio.

Ambrosoli era nato nel 1933 a Milano da una famiglia di estrazione borghese e profondamente cattolica; il padre, pur essendo avvocato, lavorava in banca e l’educazione che offrì ai figli era fondata su profondi principi e su saldi valori. Durante il periodo degli studi Ambrosoli aderì a un pensiero profondamente liberale.

Laureatosi in legge non accolse il desiderio del padre, che sognava per lui un futuro in banca, e decise di dedicarsi anima e corpo all’avvocatura, specializzandosi in diritto fallimentare. Sposò Anna Lorenza Gorla, per tutti Annalori, conosciuta ai tempi dell’università, dalla quale ebbe tre figli di cui andò sempre fiero.

il 24 settembre 1974 venne chiamato dall’allora governatore della Banca d’Italia, Guido Carli, per fare luce sui castelli di carte e di inganni messi in piedi da Michele Sindona nell’ambito della Banca Privata Italiana, in stato di grave dissesto. Apparve fin da subito chiaro ad Ambrosoli quanto il finanziere siciliano si fosse mosso certo dell’impunità e, proseguendo nelle sue analisi, si convinse sempre di più dell’ampia libertà di manovra concessa a Sindona proprio dal sistema. Grazie alle carte che riuscì a collazionare e alle irregolarità e falsità che scoprì di giorno in giorno, Ambrosoli comprese i legami che Sindona aveva con la politica e con la massoneria deviata di Licio Gelli e della sua loggia P2. Complicità che coinvolgevano anche la mafia siciliana e alcuni settori della magistratura.

Fu in quei giorni che pronunciò una frase dal sapore profetico: «Sono solo». Un solo commissario liquidatore per un fallimento da centinaia di miliardi. Per i cinque anni successivi Ambrosoli si oppose a Michele Sindona, personaggio potente e spericolato, con alle spalle una parte preponderante del potere.

Nelle indagini Ambrosoli non si lasciò mai intimidire e completò il suo lavoro nonostante gli avvertimenti e le minacce. Scoprì tutte le carte e i più sordidi intrecci.

Fin dai primi tempi tentarono di blandirlo, di convincerlo ad assumere un atteggiamento più morbido.

La strategia adottata per fermare Ambrosoli fu un autentico “crescendo rossiniano”. Dagli ammiccamenti si passò in breve ai messaggi intimidatori, alle visite in studio di strani personaggi, poi alle minacce a lui e ai suoi collaboratori.

Lo stesso capitò al maresciallo della Guardia di Finanza Silvio Novembre, suo unico collaboratore che gli fece volontariamente anche da guardia del corpo. Una sera, uscendo dal Tribunale, il maresciallo fu avvicinato da un ex collega che gli propone di lasciare l’indagine, congedarsi dalla Guardia di finanza e accettare un lavoro meglio pagato, perché “hai due bambine da crescere”. Ma Silvio Novembre, così come Ambrosoli, era un uomo di saldi principi.

La politica lasciò solo Ambrosoli, con l’unica eccezione del ministro repubblicano Ugo La Malfa. Non fu certo un caso che un uomo solitamente così prudente e misurato come Giulio Andreotti, dopo l’omicidio di Ambrosoli, ebbe la perfidia di dire: “Era uno che se l’andava a cercare”. Lo stesso Andreotti che, durante un ricevimento al Saint Regis di New York, aveva definito Sindona il “Salvatore della lira” ed al quale Sindona, già colpito da un mandato di cattura con richiesta di estradizione dagli Stati Uniti, scrisse da una suite del Waldorf Astoria: “Illustre presidente, nel momento più difficile della mia vita sento il bisogno di rivolgermi direttamente a lei per ringraziarla dei rinnovati sentimenti di stima che ella ha recentemente manifestato”.

Non era un rivoluzionario, Giorgio Ambrosoli, e nemmeno un oppositore dei governi di allora. Era un conservatore, profondamente cattolico, che aveva militato nella Gioventù liberale. Ma era prima di tutto un uomo delle Istituzioni, e per lui le Istituzioni erano da servire con il senso dello Stato, con il prevalere del bene generale sui conflitti di interesse, con il rispetto delle leggi, dell’etica pubblica e privata. Quando consegnò alla Banca d’Italia il primo frutto del suo lavoro accluse un biglietto per il governatore: “Con i migliori sentimenti di devozione per avermi dato modo di servire in qualche modo il Paese”.

Corrado Stajano definì Giorgio Ambrosoli, in un bellissimo libro-inchiesta, un uomo libero e solo, eroe borghese che avrebbe potuto vivere tranquillo con le sue serene abitudini e invece, per la passione dell’onestà, si batté contro un genio del male, sorretto da forze potenti palesi e occulte, e fu sconfitto.

Il 25 febbraio del 1975, dopo aver completato la ricostruzione dello stato passivo della Banca privata, Giorgio Ambrosoli scrisse alla moglie: “A quarant’anni, di colpo, ho fatto politica e in nome dello Stato e non per un partito… e ho sempre operato – ne ho la piena coscienza – solo nell’interesse del Paese […] Qualunque cosa succeda, comunque, tu sai che cosa devi fare e sono certo saprai fare benissimo. Dovrai tu allevare i ragazzi e crescerli nel rispetto di quei valori nei quali noi abbiamo creduto […] Abbiano coscienza dei loro doveri verso se stessi, verso la famiglia nel senso trascendente che io ho, verso il Paese, si chiami Italia o si chiami Europa. Riuscirai benissimo, ne sono certo, perché sei molto brava e perché i ragazzi sono uno meglio dell’altro. Sarà per te una vita dura, ma sei una ragazza talmente brava che te la caverai sempre e farai come sempre il tuo dovere costi quello che costi […] Giorgio”.

Giorgio Ambrosoli venne lasciato solo anche il giorno del suo funerale. Nessuna autorità, nessun rappresentante di quello Stato per il quale l’avvocato milanese si era speso con coraggio, fino all’estremo sacrificio. La signora Annalori teneva per mano i suoi figli: una lezione di dignità e compostezza nel dolore. Unico presente il governatore della Banca d’Italia, Paolo Baffi, seduto nelle ultime file, come se si vergognasse dell’assenza di tutti gli altri rappresentanti delle istituzioni. Fu l’ennesima dimostrazione dell’isolamento di una persona per bene, alla quale lo Stato aveva richiesto un compito immane e pericoloso. Una solitudine che proseguiva anche dopo la morte.

Questo è stato Giorgio Ambrosoli: un esempio per il suo senso delle istituzioni, dello Stato, del bene comune. Oggi più che mai, in un’epoca in cui ogni forza politica inneggia a diritti di ogni sorta – quand’anche discutibili – ma si vergogna a menzionare qualunque dovere, soprattutto verso lo Stato e il bene comune.

Il nostro Paese comincerà a cambiare quando saremo in tanti a ricordare Ambrosoli, imitandone il rispetto per l’onestà e le istituzioni repubblicane. Quando troveremo normale il sacrificio personale, anche estremo, per la difesa di tali valori civici.

Per questo – anche quest’anno – ho voluto parlare di Giorgio.

14-7-1979 – MILANO : FUNERALI AMBROSOLI. Anna Lorenza, vedova Ambrosoli, con i figli Francesca, Filippo ed Umberto. ANSA ARCHIVIO
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Buon compleanno Anna!

12 giugno. Anche quest’anno vorrei ricordare il tuo compleanno.
Quello di una bambina che non è mai potuta crescere, che non ha conosciuto la pienezza della maturità, che non ha avuto la ventura di sperimentare lo scorrere del tempo che graffia il corpo con i sospiri della vecchiaia.
Dei tuoi pochi compleanni Anna, perché così ti chiamavi, ve n’è uno speciale: quello del 1942, ottant’anni fa.
Era un venerdì, e ti trovavi ad Amsterdam. Mi piace pensare che vi fosse un tiepido sole ad accarezzare il respiro dell’estate che si affacciava timida alle porte del cielo. Anche in Olanda, dove i papaveri si inchinano lieti al vento che sfiora i campi con leggera tenerezza.
Quel giorno compivi tredici anni.
Tra i tanti doni hai ricevuto un diario, con la copertina a quadretti rossi. Per te era il regalo più bello, perché amavi scrivere parole che disegnavano emozioni in un ordito sapiente. Dicevi che “la carta è più paziente degli uomini”. Non immaginavi allora – e come avresti potuto? – che le tue pagine, un giorno, sarebbero divenute famose, lette da donne e uomini di ogni tempo e di ogni Paese.
Due giorni dopo il tuo compleanno hai inaugurato il nuovo diario con queste parole:
“Venerdì 12 giugno ero già sveglia alle sei: si capisce, era il mio compleanno! Ma alle sei non mi era consentito d’alzarmi, e così dovetti frenare la mia curiosità fino alle sei e tre quarti. Allora non potei più tenermi e andai in camera da pranzo, dove Moortje, il gatto, mi diede il benvenuto strusciandomi addosso la testolina. Subito dopo le sette andai da papà e mamma e poi nel salotto per spacchettare i miei regalucci. Il primo che mi apparve fosti tu, forse uno dei più belli fra i miei doni. Poi un mazzo di rose, una piantina, due rami di peonie; altri ancora ne giunsero durante il giorno. Da papà e mamma ebbi una quantità di cose, e anche i nostri numerosi conoscenti mi hanno veramente viziata. Fra l’altro ricevetti un gioco di società, molte ghiottonerie, cioccolata, un puzzle, una spilla, la Camera oscura, le Saghe e leggende olandesi di Joseph Cohen e un po’ di denaro, così che mi potrò comprare i Miti di Grecia e di Roma. Che bellezza!”
Come tutte le ragazze, desideravi un’amica del cuore, a cui confidare i tuoi innocenti segreti. Hai scritto sul diario qualche giorno dopo:
“Ho dei cari genitori e una sorella di sedici anni; conosco, tutto sommato, una trentina di ragazze di alcune delle quali potreste dire che sono mie amiche. Ho dei parenti, care zie e cari zii, un buon ambiente familiare; no, apparentemente non mi manca nulla, salvo l’amica. Con nessuno dei miei conoscenti posso far altro che chiacchiere, né parlar d’altro che dei piccoli fatti quotidiani. Non c’è modo di diventare più intimi, ecco il punto. Forse questa mancanza di confidenza è colpa mia; comunque è una realtà, ed è un peccato non poterci far nulla. Perciò questo diario. Allo scopo di dar maggior rilievo nella mia fantasia all’idea di un’amica lungamente attesa, non mi limiterò a scrivere i fatti del diario, come farebbe qualunque altro, ma farò del diario l’amica, e l’amica si chiamerà Kitty”.
Il mondo era difficile in quegli anni. C’era la guerra. E il nazismo. Le truppe tedesche avevano invaso l’Olanda. Eri ebrea. Purtroppo, per i nazisti, era maledettamente importante. Sai, Anna, sembra incredibile ma per troppi lo è ancora oggi!
Per sfuggire ai soldati sei stata costretta a nasconderti, con i tuoi genitori e un’altra famiglia, in due locali sopra gli uffici di una azienda. L’alloggio segreto, come lo chiamavi.
Hai trascorso due anni in quegli angusti locali, senza mai uscire neppure una volta.
Detestavi la matematica, la geometria e l’algebra, mentre adoravi la storia e le materie letterarie. Ti piaceva tanto la mitologia greca e romana e la storia dell’arte.
A Natale del 1943 hai scritto sul diario:
“Cara Kitty, credimi, quando sei stata rinchiusa per un anno e mezzo, ti capitano dei giorni in cui non ne puoi più. Sarò forse ingiusta e ingrata, ma i sentimenti non si possono reprimere. Vorrei andare in bicicletta, ballare, fischiettare, guardare il mondo, sentirmi giovane, sapere che sono libera, eppure non devo farlo notare perché, pensa un po’, se tutti e otto ci mettessimo a lagnarci e a far la faccia scontenta, dove andremo a finire? A volte mi domando: «Che non ci sia nessuno capace di comprendere che, ebrea o non ebrea, io sono soltanto una ragazzina con un gran bisogno di divertirmi e di stare allegra?»”.
Un giorno un infame, mai identificato, ha segnalato l’alloggio segreto alla Gestapo. Il 4 agosto 1944 le Schutzstaffel – le SS – hanno fatto irruzione nei locali e vi hanno condotto tutti al campo di smistamento di Westerbork. Il 2 settembre foste deportati ad Auschwitz.
Dopo un mese sei stata trasferita con tua sorella Margot a Bergen-Belsen, un campo di concentramento nella bassa Sassonia.
Nel marzo del 1945, neppure conosciamo il giorno preciso, ti sei ammalata di tifo, per le terribili condizioni di vita nel lager
Sei morta a 15 anni e gettata in una fossa comune.
Alla fine della guerra fu ritrovato, nell’alloggio segreto, il tuo diario con le tue ultime parole:
“È un gran miracolo che io non abbia rinunciato a tutte le mie speranze perché esse sembrano assurde e inattuabili. Le conservo ancora, nonostante tutto, perché continuo a credere nell’intima bontà dell’uomo. Mi è impossibile costruire tutto sulla base della morte, della miseria, della confusione. Vedo il mondo mutarsi lentamente in un deserto, odo sempre più forte l’avvicinarsi del rombo che ucciderà noi pure, partecipo al dolore di milioni di uomini, eppure, quando guardo il cielo, penso che tutto volgerà nuovamente al bene, che anche questa spietata durezza cesserà, che ritorneranno l’ordine, la pace e la serenità. Intanto debbo conservare intatti i miei ideali; verrà un tempo in cui forse saranno ancora attuabili”.
Che sia così, lo speriamo anche noi.
Buon compleanno Anna Frank.

Foto Città Nuova Editrice
cultura · politica · società

Buona Festa della Repbubblica!

2 giugno. Festa della Repubblica.
In ogni Paese la Festa nazionale è un evento di importanza assoluta: pensate al 14 luglio nella vicina Francia, oppure al 4 luglio per gli statunitensi.
In Italia, al contrario, il 2 giugno non è mai diventato un momento di celebrazione e coinvolgimento popolare. Al punto che dal 1977 al 2001, per ben ventiquattro anni, la festività fu soppressa, riservando qualche modesta celebrazione, perlopiù di impronta militare, alla prima domenica di giugno. Una specie di festa della mamma o dei nonni, insomma. Facendo del nostro Paese l’unico privo di una celebrazione nazionale, dato che con la stessa legge del 1977 fu abolita anche la Festa dell’Unità Nazionale, che si celebrava il 4 novembre a memoria della vittoria nella Prima Guerra mondiale.
Nulla avviene a caso.
In molti avevano pensato, in quel lontano 1946, che l’Italia potesse iniziare un inarrestabile cammino di crescita morale e culturale. Approfittando di quello che Piero Calamandrei definì un autentico “miracolo della ragione”: una Repubblica proclamata per libera scelta di popolo mentre era ancora sul trono il re.
Al contrario tale momento di gioia e di festa fu ben presto offuscato, o forse deliberatamente emarginato.
Il nostro è un Paese che non ama la storia, men che meno la sua.
Ancora oggi i testi scolastici poco si occupano della nascita della Repubblica e, comunque, in modo superficiale e anacronistico. Generalmente liquidano il 2 giugno in cinque righe e restituiscono una visione molto semplificata dell’origine della Repubblica, nata malamente in un’Italia spaccata in due e con una debole legittimazione popolare. Visione che una banale analisi da “rotocalco” dei dati sarebbe sufficiente a smontare. Lo storico Maurizio Ridolfi ha osservato che bastano solo due cifre per scardinare l’immagine di un’Italia settentrionale interamente proiettata verso la Repubblica e un’Italia meridionale interamente monarchica: il 40 per cento degli italiani che votarono per il re viveva tra Torino, Milano e Padova. E il 20 per cento dei voti repubblicani era concentrato nel Meridione, e fu decisivo!
Neppure i partiti usciti dal secondo dopoguerra amavano fino in fondo il 2 giugno. Le forze moderate e centriste per il timore di un nazionalismo che potesse ricordare alcuni aspetti del “ventennio”. Il mondo cattolico per una diffusa e per certi versi inconscia ostilità verso lo Stato seguita a Porta Pia, al Sillabo e al celebre non expedit. La sinistra per la sua diffidenza verso le manifestazioni di patriottismo e le esibizioni militari. Allora, perlomeno, quando era impensabile che il leader del principale partito di sinistra fosse candidato alla segreteria generale della NATO.
Venne così meno la risorsa identitaria del patriottismo costituzionale, ossia quella che meglio qualifica e protegge il carattere democratico-pluralistico della res publica attraverso il principio del riconoscimento reciproco dell’identità culturale e della legittimità politica delle parti in competizione democratica, principio in base al quale ciascuna parte interpreta sulla scena la propria legittima versione della patria repubblicana, dalla posizione di maggioranza vincitrice o da quella di minoranza all’opposizione.
Abbiamo scordato che la Repubblica, e con lei la Costituzione, sono una grande vittoria, in un Paese che non è più capace di raccontare vittorie ma preferisce celebrare vittime. I nostri costituenti non sono morti per la Repubblica, ma sono rimasti vivi per costruirla e difenderla. Calamandrei diceva ai ragazzi che la Carta non è una macchina che una volta messa in moto va avanti da sé: perché si muova bisogna ogni giorno rimetterci dentro il combustibile, ossia l’impegno e la responsabilità. Della nostra legge fondamentale rimane oggi il mito (la costituzione più bella del mondo) ma non la consapevolezza di un sentimento collettivo.
Occorre ristabilire il primato del 2 giugno quale Festa fondante del nostro Paese.
E’ necessaria una festa nazionale che ci induca a riflettere sul nostro Paese, sui suoi tanti problemi ma anche sulle sue infinite potenzialità.
Per raccoglierci intorno a un denominatore comune che ci porti a uno slancio di rinascita.
Dobbiamo liberarci di molte zavorre che rallentano l’Italia e la portano a essere una realtà di cui talora, confessiamolo, ci vergogniamo un po’.
Della corruzione, della “furbizia”, di quell’individualismo meschino che ammorba la società.
Da quel “particolarismo” che da geografico si è mutato in difesa degli interessi di singole categorie che ambiscono a essere caste.
Di una classe politica ormai palesemente inidonea a governare il Paese.
Diceva De Gasperi, citando a sua volta il predicatore unitariano James Freeman Clarke, che mentre un politico pensa alle prossime elezioni, un uomo di stato deve avere a cuore la prossima generazione.
Noi abbiamo una classe politica che guarda ai sondaggi e ha come termine ultimo la prossima consultazione elettorale!
Ci occorre una autentica Festa Nazionale, che ci ricordi anche le meraviglie del nostro Paese, la sua storia, la sua cultura, l’arte e le lettere. La cultura che ha unificato il Paese, che ha saputo esprimere Svevo e Pirandello, D’Annunzio e Pascoli, Pavese e Vittorini. Che ha dato vita a forme d’arte inimitabili.
Che ci renda fieri della nostra appartenenza. Non con un sentimento di arido nazionalismo, ma con una feconda consapevolezza che ci induca a combattere i troppi mali che affliggono l’Italia.
E’ compito della cultura agevolare questo. E’ compito della scuola.
Cessiamo di penalizzare la scuola con investimenti vergognosi. L’Italia è all’ultimo posto nell’Europa per gli investimenti nell’istruzione, con il 7.9% della spesa contro una media superiore al 10%. Germania e Francia sono sopra il 10%, addirittura la Svizzera e l’Islanda al 16%. Persino la Grecia ci supera con l’8,5%.
Dobbiamo vivere di un patriottismo che non sfoci nel nazionalismo, ma che si apra ad un respiro europeo, con l’ambizione di essere protagonista. Di un Europa diversa però, che non sia né un mero e arcigno revisore di conti altrui né un asettico bancomat a cui attingere nei periodi di crisi. Bensì una cassa di risonanza di valori e cultura.
Forse l’Europa si è estesa troppo negli ultimi anni, accogliendo Paesi che non ne condividono appieno i valori fondanti. Molti Paesi dell’Est Europa sono forse stati accolti con eccessivo slancio, in quanto portatori di una propria interpretazione dei principi democratici che sono alla base della idea fondante dell’Unione Europea. Si tratta di un contrasto che mette in evidenza una profonda diversità sulla visione dell’Unione e sul suo futuro. Mettere in discussione i principi legati allo Stato di Diritto significa prospettare un diverso ruolo dell’UE nel rispetto dei diritti dell’uomo basati sulla Carta dei diritti fondamentali. Neppure in una bocciofila si entra senza condividere integralmente lo statuto!
Festeggiamo dunque la nostra Festa Nazionale, con la discrezione della consapevolezza.
Rammentiamo che la nostra Repubblica, la Costituzione e le nostre istituzioni sono ciò che ci siamo dati nel momento in cui eravamo sobri, a valere per i momenti in cui siamo sbronzi.
Buona Festa della Repubblica!

Foto de “Il Messaggero”
società

Trent’anni di misteri

23 maggio 1992. Esattamente trent’anni fa.
A Capaci, sull’autostrada che collega l’aeroporto di Punta Raisi con Palermo, un’esplosione aprì un grande cratere: sotto all’asfalto era stata piazzata mezza tonnellata di esplosivo, fatta saltare dal sicario della mafia Giovanni Brusca, acquattato sulla collina sovrastante.
Nello scoppio morirono il magistrato Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro.
Fu l’”Attentatuni”, il più importante della storia di Cosa Nostra.
Nel 1987, con la sentenza del “maxiprocesso” di Palermo, ci eravamo illusi che Cosa Nostra fosse stata sconfitta. “Abbiamo vinto: la gente fa il tifo per noi!”, disse Giovanni Falcone a Paolo Borsellino. Ma si sbagliava. Certamente la gente onesta e comune stava al fianco di Falcone e Borsellino, ma non così molti apparati dello Stato collusi con la mafia. Quando l’interesse di Falcone si spostò dagli esecutori di Cosa Nostra ai livelli superiori, i cosiddetti colletti bianchi, l’atmosfera cambiò in fretta. La grande stampa, quella che quasi unanime fa quadrato nei momenti fondamentali per il potere, come oggi con la guerra in Ucraina, cominciò a definire Falcone il “giudice sceriffo”. Il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, lo accusò di nascondere le prove nei cassetti. Leonardo Sciascia diede il suo perfido contributo con il celebre articolo sul Corriere della Sera intitolato “I professionisti dell’antimafia”, nel quale insinuava come nella magistratura aver combattuto la mafia potesse essere un modo per far carriera.
Fu questa l’atmosfera che portò alla strage di Capaci.
Oggi, ancora una volta e a maggior ragione per il trentennale, innumerevoli rievocazioni celebreranno la memoria del magistrato palermitano, in un susseguirsi di commozione e di retorica.
Una celebrazione offuscata, tuttavia, dai troppi misteri che ancora avvolgono l’evento.
Poniamoci qualche domanda. Perché Falcone non è stato ucciso pochi mesi prima a Roma, dove spesso camminava senza neppure la scorta? Riina aveva inviato a Roma, non a caso, un commando omicida composto dai più qualificati killer mafiosi, salvo poi richiamare gli uomini a Palermo a seguito di un nuovo progetto. Perché? Secondo il pentito Spatuzza, Riina pronunciò queste parole: “Cambia tutto. Non c’è più solo la mafia!”. Chi altro partecipò al progetto? Perché le motivazioni della strage di Capaci erano note solo ai massimi vertici di Cosa Nostra e neppure ai più fidati luogotenenti? Perché l’esplosivo utilizzato, oltre a quello consueto da cava, conteneva tracce di “Semtex” prodotto nella Repubblica Ceca e utilizzato solo in ambito militare? Perché una tecnica di realizzazione così spettacolare ma di difficile esecuzione? Non si è trattato di un’esplosione che ha coinvolto obiettivi fermi, ma auto lanciate ad oltre 170 chilometri orari, con precisione perfetta. Un’operazione alla portata di esperti appartenenti a squadre speciali militari perfettamente addestrate, non di picciotti della mafia!
Nei pressi del cratere furono trovati guanti in lattice. Allora non era possibile, ma oggi si sono potute determinare sugli stessi le tracce genetiche, che appartengono a una donna. Una donna sul luogo della strage? Impossibile che Cosa Nostra utilizzasse una donna nelle sue operazioni. Chi era? Perché era sul posto?
Tanti misteri, quindi, rimasti tutti senza risposta.
La mafia non è stata sconfitta dalle battaglie di Falcone e Borsellino. Certamente ha cambiato strategia, si è per così dire “inabissata”, rinunciando a gesti spettacolari a favore della ben più proficua politica di infiltrazione nella società civile.
Illuminante è senz’altro l’ultima Relazione semestrale al Parlamento della Direzione investigativa antimafia.
Nella relazione si sottolinea come la mafia degli ultimi anni utilizzi meno la violenza e si concentri invece più sul business. Da un lato meno azioni cruente e comportamenti in grado di provocare allarme sociale, dall’altro la tendenza dei sodalizi mafiosi a una progressiva occupazione del mercato legale.
Si evidenzia anche la crisi di Cosa Nostra, meno “culturalmente elastica” rispetto ad altre mafie, dove è in corso uno scontro tra i vecchi uomini d’onore, portabandiera di una ortodossia difficile da ripristinare, e le nuove leve con la loro visione più fluida del potere mafioso, declinato in chiave moderna. Inoltre la presenza nel territorio siciliano di gruppi criminali di etnia nigeriana operanti con diffusione ormai capillare ha reso necessario per Cosa Nostra scendere a patti con la mafia della Nigeria, ancor più efferata di quella autoctona.
Oggi è molto più potente la ‘ndrangheta, definita dalla DIA leader mondiale nell’ambito del narcotraffico, e vera e propria holding criminale di rilevantissimo spessore internazionale.
Secondo l’organo antimafia, va tenuta in conto anche la capacità delle consorterie criminali calabresi di relazionarsi con quell’area grigia di professionisti e dipendenti pubblici infedeli che costituiscono il volano per l’aggiudicazione indebita di appalti pubblici e la diffusa corruttela che interverrebbe sulle dinamiche relazionali con gli enti locali, sino a poterne condizionare le scelte ed inquinare le competizioni elettorali.
Secondo gli ultimi dati, le mafie godrebbero di ricavi annui per quasi 200 miliardi di euro. Pensate che le aziende italiane con il fatturato più alto nel 2021 sono Enel, con 77,3 miliardi, e ENI con 69,8. Di gran lunga inferiore a quello delle mafie. Inoltre il margine di “utile” sui ricavi è per le mafie molto maggiore che per le imprese “regolari”, non foss’altro per la totale evasione fiscale! Si parla di un “utile netto” di 125 miliardi. Qui le distanze con le società italiane con il maggior profitto si fa abissale: ENEL ha chiuso il bilancio 2021 con un utile di 4,76 miliardi, ENI con 7,67 e Intesa Sanpaolo con 4,2. In sostanza gli utili delle principali aziende italiane sono circa il 4% di quelli delle mafie!
Grazie ai fondi europei del Piano nazionale ripresa resilienza si offrono ora alle mafie immensi spazi di infiltrazione. Gli investigatori dei Carabinieri hanno già verificato che per dare l’assalto agli enormi flussi di denaro pubblico nei settori finanziati dal Pnrr, ’Ndrangheta, Cosa nostra e Camorra hanno costituito una cabina di regia per realizzare progetti capaci di intercettare i contributi europei, consentire ingenti guadagni e assicurare il riciclaggio del denaro sporco. Oltre ai tradizionali mercati degli idrocarburi e della sanità, l’area nella quale si è assistito a un vero “assalto” da parte delle mafie è quella del “superbonus 110%”, ormai infiltrata in misura massiccia.
Ricordiamoci tuttavia che tutto questo non sarebbe possibile senza il contributo di uno stuolo complice di commercialisti, avvocati, imprenditori, pubblici funzionari e rappresentanti delle istituzioni.
Dobbiamo comprendere che la mafia non è più il “picciotto” con la lupara. Ma un insieme articolato di professionalità in grado di prosciugare la ricchezza pubblica.
Significa che la mentalità mafiosa si è ormai estesa come un tumore nella società civile, ben più che ai tempi di Falcone e Borsellino.
Da qui è necessario partire.
Si deve innanzitutto perseguire la mafia con mano ferma e con norme legate all’emergenza. Come diceva nel 1926 Cesare Mori, chiamato il Prefetto di ferro, “Se la mafia fa paura, lo Stato deve farne di più”.
Affiancando a tale azione una altrettanto intransigente verso quel mondo variegato di complici e fiancheggiatori in giacca e cravatta, i cosiddetti colletti bianchi, che rappresentanto il vero capitale umano della malavita organizzata.
Dipende da tutto questo la rinascita morale ed economica italiana e il conseguimento del sogno atavico di fare dell’Italia un Paese normale.
Senza queste necessarie azioni la celebrazione del sacrificio di Giovanni Falcone sarà solo un mero esercizio di vuota retorica.

Foto: Antimafia Duemila
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Il 25 aprile e la Pace

25 aprile. Una data fondamentale per il nostro Paese.
Non solo per “qualcuno”, non per “una parte” dell’Italia. Ma una festa di tutti, nessuno escluso; qualunque siano le proprie convinzioni.
In questo giorno non si festeggia una vittoria militare: la guerra, in Italia, terminò infatti il 3 maggio. Si festeggia una riscossa civile. Come disse Piero Calamandrei “il carattere che distingue la Resistenza da tutte le altre guerre, anche da quelle fatte da volontari, anche dall’epoca garibaldina, è stato quello di essere più che un movimento militare, un movimento civile”.
Troppo spesso, infatti, rammentiamo la Resistenza armata a scapito di quella “disarmata”, disconoscendo la dignità, la forza, la caparbietà di tanti “civili” – in gran parte donne, vecchi e bambini – che dall’entrata in guerra dell’Italia fino alla Liberazione dovettero convivere con la disoccupazione e la fame mai saziata dai razionamenti. Furono eroiche soprattutto le donne che per tanti mesi lavorarono per un salario di fame, fecero lunghe ed estenuanti code per comprare qualcosa per i propri figli a casa, sempre con il pensiero costante al figlio o al marito in qualche lontano fronte di guerra.
In quel giorno del 1945 era nata l’illusione che l’idea stessa di guerra fosse sconfitta e che ci attendesse un futuro di pace e benessere.
Un’illusione, purtroppo.
I conflitti non sono mai cessati. Già nel 1946 iniziarono la guerra in Indocina e quella civile in Grecia. Ma neppure un anno, da allora, è trascorso senza battaglie e vittime. Solo che queste erano quasi sempre lontane dal cosiddetto Occidente e, di conseguenza, meno degne di attenzione da parte dei mezzi di informazione.
Ora, al contrario, anche il nostro continente è scenario di un conflitto, che si aggiunge, giova rammentare, agli altri 58 sparsi per il mondo, come ci ricorda l’organizzazione “The Armed Conflict Location & Event Data Project (ACLED)”.
Non che sia la prima volta per l’Europa nel dopoguerra. Ben rammentiamo, infatti, il conflitto nei Balcani all’inizio degli anni ’90, con decine di migliaia di vittime, per la gran parte donne e bambini. Quanto accadde in quegli anni fece impallidire l’operato del nazismo: ricordiamo solamente la strage di Srebrenica, avvenuta con la complicità dei “caschi blu” dell’ONU presenti, che consegnarono addirittura donne e bambini agli aguzzini e fornirono i buldozer per coprire le fosse comuni. Nel 2015 un’inchiesta del giornale britannico “The Observer”, sulla base di alcuni documenti declassificati dalla Gran Bretagna, dimostrò gravissime responsabilità di Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna e delle stesse Nazioni Unite che, in nome della realpolitik, preferirono accettare le migliaia di morti di Srebrenica pur di raggiungere un accordo con Milošević. Ma, lo sappiamo, non tutte le vittime sono eguali, neppure in Europa.
In questi giorni è l’Ucraina scenario di una nuova battaglia.
Una guerra che ci riporta in pieno Novecento. Senza tecnologie, droni e aerei senza pilota, ma con cannoni, bombe, carri armati e soldati.
E’ necessario usare ogni sforzo diplomatico, nessuno escluso, per giungere a una immediata cessazione delle ostilità.
Non credo che insistere nell’armare una delle parti, ancorché sia la parte aggredita, con ordigni sempre più sofisticati e potenti sia nell’interesse della pace. Semmai giova a ben altri interessi.
Nel 1972, nel corso dell’inchiesta dell’Washington Post denominata “scandalo Watergate”, Mark Felt, confidente segreto dei giornalisti Woodward e Bernstein, usò la celebre frase “follow the money” (seguite i soldi), poi ripresa da Giovanni Falcone con eccellenti risultati contro la mafia.
Seguendo il denaro capiamo come il perdurare del conflitto giova ai gruppi industriali che sostengono più fermamente, da dietro le quinte, i mastini della guerra dei salotti atlantisti. L’industria bellica, le compagnie di combustibili fossili minacciati dalla conversione energetica, la lobby dell’industria pesante hanno sempre considerato la guerra e le ricostruzioni un’immancabile occasione per enormi profitti. L’autoesclusione della Russia, se dura, dal mercato del gas, del petrolio e dell’agricoltura di base lascia spazio ai suoi competitor che, a prezzi di molto più alti, sono pronti a incassare gli extraprofitti. La sintesi di questa realtà è racchiusa in una frase di John D. Rockfeller riferita ai mercati finanziari: “Compra quando scorre il sangue nelle strade”.
Giova, soprattutto, alla potentissima industria delle armi. Negli ultimi dieci giorni l’amministrazione americana ha stanziato circa un miliardo di dollari in forniture all’Ucraina per fronteggiare l’avanzata russa nel Paese. Una cifra che raddoppia se si tiene conto del totale delle forniture inviate da Washington a Kiev in poco più di un anno, ovvero da quando Joe Biden è diventato capo della Casa Bianca. Numeri impressionanti che dimostrano un cambio di marcia netto rispetto ai predecessori, Trump e Obama, che non solo avevano stanziato fondi ben inferiori, ma avevano anche effettuate spedizioni di materiale non letale. L’industria italiana delle armi, in primis Leonardo, è anch’essa tra i beneficiati dalla guerra. Azienda tra le prime nel mondo e con notevoli addentellati con i partiti politici. Tanto potente che la Fondazione Med-Or, dalla stessa fondata e presieduta dall’ex ministro in quota PD Marco Minniti, ha sottoscritto un accordo di collaborazione per la predisposizione di analisi e studi sperimentali di previsione strategica con il Ministero degli Esteri: in altre parole il governo ha come consigliere per gli scenari esteri una fondazione dell’azienda di armi.
Ritengo che oggi lo sforzo di tutti i Paesi debba essere quello di porre fine alle ostilità, dando vita a ogni iniziativa diplomatica. Di perseguire un accordo che tenga ovviamente conto delle necessità inderogabili dell’Ucraina, che è e rimane il Paese aggredito, ma che, al tempo stesso, abbia la lungimiranza di rispettare le esigenze di sicurezza della Russia, in particolar modo quella di non avere intorno a sé Paesi armati da potenze avversarie.
Si tratta della cosiddetta “Dottrina Monroe”, elaborata proprio dagli Stati Uniti negli anni venti dell’800, che vietava l’intromissione di forze esterne in America Latina. Ricordate la crisi di Cuba del 1962, allorquando l’allora Unione Sovietica stava per installare missili con testate nucleari nell’isola e J. F. Kennedy, in un discorso alla nazione, prospettò l’ipotesi di un conflitto nucleare? I missili puntati sulle proprie città dalla propria soglia non piacciono a nessuno!
In questa ricorrenza è davvero importante invocare la pace!
Perché il 25 aprile non è una Festa di guerra, ma di Pace e di Liberazione dalla violenza in ogni sua forma.
In questo senso penso che la più bella celebrazione di questa ricorrenza abbia avuto luogo stamane, con un giorno di anticipo. Alludo alla Marcia per la Pace di Assisi, dove un fiume di persone di diversa estrazione, provenienza e ideologia, alle quali ha rivolto il suo saluto e ringraziamento Papa Francesco, hanno sfilato chiedendo la cessazione della guerra. Il portavoce dei francescani ha detto che, pur nella consapevolezza dei diversi ruoli tra aggressore e aggredito, l’invito a fermarsi deve essere unanime.
Un 25 aprile come festa di Liberazione e di riunificazione, ma anche di pace.
Perché la pace non è sufficiente a garantire la libertà. Ma senza la pace non può esistere libertà.
Buon 25 aprile.

Disegno di Money