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Un Primo Maggio su cui riflettere.

E’ necessario ridefinire e calibrare il senso della giornata del Primo Maggio.
Se già da tempo i mutati scenari occupazionali e sociali imponevano di uscire da una iconografia tipica della metà del secolo scorso, le conseguenze di quanto occorso in questi ultimi anni rendono necessario un ripensamento radicale, che sappia restituire a questa festa il valore fondamentale che le compete ma, soprattutto, che permetta di ridare al lavoro quella centralità che non solo gli spetta di per sé, ma che gli è anche attribuita dal primo articolo della nostra Costituzione.
I mutamenti intervenuti sono ormai sotto gli occhi di tutti.
Il tasso di occupati in Italia, a ottobre 2022, era il 60,5 per cento. Il più basso degli Stati dell’Unione europea. La media Ue, infatti, è del 70%, il tasso della Germania supera il 77%, e quelli di Grecia, Spagna e dei paesi dell’Est Europa sono comunque superiori a quello italiano.
Inoltre, è la qualità dell’occupazione a preoccupare. Nel 2008 si contava un numero di contratti precari inferiore a quelli attuali: 2,3 milioni contro i 3 milioni del 2022. A crescere sono anche i part-time involontari: tra il 2008 e il 2020 sono passati da 1,3 milioni a 2,7 milioni.
Vi è quindi la precarietà (dei nuovi contratti attivati lo scorso anno sette su dieci sono a tempo determinato), ma anche un depauperamento salariale: il nostro è l’unico Paese dell’area Ocse nel quale, dal 1990 al 2020, il salario medio annuale è diminuito (-2,9%), mentre in Germania è cresciuto del 33,7% e in Francia del 31,1%.
Anche il mercato del lavoro sta subendo trasformazioni radicali, con l’accentramento delle risorse nelle mani di un piccolo numero di multinazionali di dimensioni sempre più smisurate. La Wallmart, multinazionale statunitense, ha fatturato oltre 500 miliardi di dollari, pari al PIL di paesi come la Svezia o il Belgio. Purtroppo, alla immensa ricchezza si accompagna una diminuita attenzione verso i lavoratori. Pensate che Google ha annunciato recentemente 50 mila licenziamenti. Nonostante ciò, Sundar Pichai, amministratore delegato di Alphabet, la holding proprietaria di Google, ha percepito nel 2022 un compenso di 226 milioni di dollari (per i nostalgici della lira potremmo dire uno stipendio annuo di 438 miliardi di lire).
Difficile non restare sconcertati e, consentitemi, indignati!
Ancora più potenti sono oggi i fondi di investimento, società di gestione che investono, come un unico patrimonio, in attività finanziarie. Gli statunitensi Vanguard, BlackRock e State Street Global Advisor sono i tre maggiori fondi comuni di investimento nel mondo. Insieme gestiscono 16 trilioni di dollari (16 miliardi di miliardi di dollari!): 10 volte l’intero PIL italiano, 4 volte il PIL tedesco, più dell’intero PIL di tutta l’Europa.
Questi tre fondi sono i maggiori azionisti nel 90% delle società quotate nelle listini ristretti delle Borse. Hanno inoltre significative partecipazioni, che spesso ne garantiscono il controllo, nelle grandi aziende farmaceutiche (Pfizer e Astrazeneca, per esempio) così come nelle multinazionali che producono armi, tra cui Lockheed Martin Corporation, Bae Systems, Northrop Grumman Corporation & Orbital Atk.
Nelle guerre c’è sempre qualcuno che ci guadagna, come vedete!
Pensate al potere di questi tre fondi, anche se è difficile il solo immaginarlo. Non a caso negli Stati Uniti si dice che siano il quarto ramo del governo. Ma in realtà – spesso – possono rappresentare l’autentico e reale soggetto decisionale. Un esperto del settore, il prof. Marco Contini, ha affermato che il potere, quello vero, quello che può determinare spread, Inflazione e crisi, non è più nelle mani della politica, ma di queste tre società, alle quali, non a caso, ci si riferisce come a the Specter of Giant Three.
Parlando di lavoro non possiamo trascurare il recente sviluppo della intelligenza artificiale, quale quella di OpenaAI, ideatrice del celeberrimo ChatGPT. Secondo gli analisti del settore, 300 milioni di posti di lavoro a tempo pieno in tutto il mondo potrebbero essere automatizzati dalla nuova ondata di intelligenza artificiale che ha generato piattaforme come ChatGPT rendendo non più necessario il ruolo umano.
Non si tratta, forse per la prima volta nella storia, di ruoli legati a un lavoro intenso e usurante e alla fatica fisica. Si tratta di attività intellettuale, di concetto. I settori più interessati sono l’ambito legale, amministrativo e sanitario, dove si prevede una riduzione del 28% dei compiti svolti da esseri umani.
Come vedete ci troviamo dinnanzi a uno scenario radicalmente mutato rispetto a quello del Novecento.
Giulio Tremonti, con il quale mi sono trovato molto spesso in disaccordo, ha tuttavia fornito un quadro preciso di questa situazione, parlando del disastro che è sotto gli occhi di tutti, prodotto della scelta di delocalizzare la produzione in paesi privi di qualunque tutela e di qualsivoglia morale, della caduta del potere politico, ormai dominato dalla finanza, della caduta dell’idea dello stato sociale e dello strapotere dei cosiddetti giganti della finanza e delle multinazionali, che sono ormai i nuovi Stati.
In questo contesto reiterare strumenti di pensiero tipici del Novecento è tanto anacronistico quanto funzionale allo status quo.
Il massimalismo imbibito di un retropensiero già sconfitto è la via per non cambiare nulla.
Dobbiamo sin da subito individuare alcune strade da percorrere nel nostro Paese, con alcuni essenziali obiettivi.
Tutelare i redditi dall’inflazione e innalzare il livello salariale medio, considerando che i lavoratori a rischio povertà raggiungono il 13%.
Combattere il fenomeno del precariato. Se realmente si vuole – come giusto che sia – un incremento della natalità non è certo un piccolo risparmio fiscale a essere determinante, bensì la certezza di un futuro lavorativo.
Altri obiettivi urgenti sono più accentuati controlli contro il “lavoro nero”, norme a contrasto del fenomeno della delocalizzazione industriale (il trasferimento delle aziende in Paesi con costo-lavoro più basso, quali Pakistan, Bangladesh, Vietnam, ecc.) e una nuova normativa sulle cooperative. Strumento nobile nato agli albori del secolo scorso, quello delle cooperative è ormai un mondo inquinato dal crescente e preponderante numero di finte realtà che nascono (e di solito muoiono velocemente per evitare i controlli) solo per prestare manodopera sottopagata e peggio tutelata ad altre aziende. In molti casi una forma di caporalato mascherato con un sottile velo di finta legalità.
Chi può occuparsi di questi interventi?
Lo scenario offerto dei soggetti politici italiani è scoraggiante. Alcune forze sono funzionali al dominio della finanza, altre sono divenute sempre più dedite alla tutela dei diritti civili (e spesso anche dei capricci) che non ai bisogni sociali. Altre ancora sono ininfluenti per la lettura superficialmente massimalista della situazione.
Se potessi dare un suggerimento, valido per le problematiche del lavoro ma che si potrebbe sviluppare sui principali temi politici, penserei alla creazione di un laboratorio di idee, una sorta di think tank, formato da esperti provenienti dalle formazioni che si richiamano al riformismo socialista e liberale e al cattolicesimo democratico, in grado di definire un progetto di ampio respiro per la crescita e il rinnovamento etico.
Se così sarà, se saremo in grado di modificare il percorso intrapreso, allora il Primo Maggio tornerà al valore che gli compete.
Non più solo marcette e concerti, ma autentica Festa del Lavoro e del Lavoratore. Scindere infatti il lavoro dal lavoratore è stato l’errore esiziale degli scorsi anni, che ha portato a una progressiva visione quale processo produttivo meccanicistico.
Come sottolinea in un recente studio l’economista gesuita Étienne Perrot S.I., il passaggio dal termine “personale” (es. ufficio del personale) a “risorsa umana” (ufficio risorse umane) è indicativo del trionfo del materialismo utilitaristico in azienda, con la trasformazione del lavoratore da persona a mero centro di costo e strumento produttivo.
Dobbiamo riportare nuovamente l’uomo al centro del mondo del lavoro.
E di ogni realtà.
Aspettando questo, comunque, buon Primo Maggio.

Foto de “Il Domani d’Italia”

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Una data fondamentale.

25 aprile. Una data fondamentale per il nostro Paese.
Non solo per “qualcuno”, non per “una parte” dell’Italia. Ma una festa di tutti, nessuno escluso; qualunque siano le proprie convinzioni.
In questo giorno non si festeggia una vittoria militare: la guerra, in Italia, terminò infatti il 3 maggio. Si festeggia una riscossa civile. Come disse Piero Calamandrei “il carattere che distingue la Resistenza da tutte le altre guerre, anche da quelle fatte da volontari, anche dall’epoca garibaldina, è stato quello di essere più che un movimento militare, un movimento civile”.
Troppo spesso, infatti, celebriamo la Resistenza nei suoi episodi militari, scordandoci di quella per così dire “disarmata”. Così facendo, tuttavia, trascuriamo la dignità, la forza, la caparbietà di tanti “civili” – in gran parte donne, vecchi e bambini – che dall’entrata in guerra dell’Italia fino alla Liberazione dovettero convivere con la disoccupazione e la fame mai saziata dai razionamenti. Furono eroiche soprattutto le donne che, per tanti mesi, lavorarono per un salario da fame e fecero lunghe ed estenuanti code per comprare qualcosa da portare a casa, sempre con il pensiero costante al figlio o al marito in qualche lontano fronte di guerra.
Da quella esperienza, e solo grazie ad essa, nacque la nostra Costituzione.
Forse non perfetta, certamente frutto di compromesso tra le grandi ideologie che si confrontarono in quegli anni. Eppure – non scordiamolo – dopo tre quarti di secolo, dopo molti tentativi di sfigurarne i connotati, è ancora in quei preziosi articoli la fonte della nostra convivenza, la prima regola del nostro stare insieme.
Da quel testo sortirono principi generali basilari.
Il principio della democrazia e della libertà di pensiero, innanzitutto, certamente rispettato in questi decenni.
Così come quello della eguaglianza sostanziale, che si può declinare in una crescente equità sociale. Principio, questo, piuttosto in crisi nel corso degli ultimi anni.
La Resistenza ha dato vita alla nostra Costituzione, ma non dobbiamo scordare che il suo respiro è certamente europeo.
I movimenti di resistenza nacquero infatti ovunque in un’Europa divisa e soggiogata dal nazionalsocialismo: in Polonia, Francia, Olanda, Danimarca, Cecoslovacchia. Financo in Germania, pur nella straordinaria difficoltà della situazione.
Vi era consapevolezza di questo, nei costituenti. Così come di un nuovo mondo che sorgeva e guardava oltre gli ormai angusti confini statuali. Vittorio Emanuele Orlando, Presidente della Assemblea Costituente, disse che lo stesso ricordo della Rivoluzione francese del 1789 si impiccioliva al confronto della nuova rivoluzione, riguardando essa i rapporti a livello globale e il mutamento dello Stato di nazione, che dovrà cedere l’assolutezza della sovranità e prepararsi alla maniera di futura sovranità di Stato limitata da una organizzazione superiore.
Questa la grande speranza nata dalle ceneri del secondo conflitto mondiale: quella che, insieme ad alcuni totalitarismi, fosse stata sconfitta l’idea stessa di guerra e che il futuro sarebbe stato di pace e benessere sovranazionale.
Un’illusione, purtroppo. Oggi lo sappiamo.
I conflitti non sono mai cessati. Già nel 1946 iniziarono la guerra in Indocina e quella civile in Grecia. Ma neppure un anno, da allora, è trascorso senza battaglie e vittime. Solo che queste erano quasi sempre lontane dal cosiddetto Occidente e, di conseguenza, meno degne di attenzione da parte dei mezzi di informazione.
Si auspicava che, almeno in Europa, la fine (apparente) della cosiddetta guerra fredda potesse allontanare per sempre l’ipotesi di un conflitto.
Sappiamo che così non è stato e così non è.
Al contrario, il ritorno in auge di ideologie fondate su un nazionalismo sovranista, proprio a seguito del venir meno della divisione del continente in zone di influenza, ha portato alla deflagrazione di nuove e drammatiche guerre sul suolo europeo.
Oggi assistiamo al conflitto in Ucraina, sulla cui narrazione esclusivamente “atlantista” da parte dei media mi permetto di nutrire qualche riserva. Sudditanza alla quale si sono prontamente adeguate le forze politiche dell’attuale governo.
Ma il primo vero conflitto europeo successivo alla Seconda Guerra Mondiale scoppiò nei Balcani all’inizio degli anni ’90, con decine di migliaia di vittime, per la gran parte donne e bambini. Quanto accadde in quegli anni fece impallidire l’operato del nazismo: ricordiamo solamente la strage di Srebrenica, avvenuta con la complicità dei “caschi blu” dell’ONU presenti, che consegnarono addirittura donne e bambini agli aguzzini e fornirono i buldozer per coprire le fosse comuni.
La guerra balcanica non ci ha insegnato nulla. Soprattutto non abbiamo compreso che armare le fazioni non conduce alla pace. Semmai giova a ben altri interessi.
Soprattutto alla potentissima industria delle armi.
Secondo il Kiel Institute for the World Economy, un centro di ricerca indipendente con sede in Germania, nello scorso annoi l’amministrazione Biden ha mobilitato risorse pari a oltre 73 miliardi di euro per aiuti militari alla Ucraina, seguita dall’Unione Europea con 35 miliardi. L’Italia ben si colloca in tale classifica con oltre un miliardo di aiuti militari.
Come illustrato dall’area studi di Mediobanca, il fatturato dei trenta principali gruppi mondiali che operano nella produzione di armi ha superato, nel 2022, i duemila miliardi di dollari.
Come dar torto a Papa Francesco quando – con voce inascoltata – denuncia una terza guerra mondiale “a pezzetti”? E, aggiungo io, con immensi profitti per ristretti gruppi di persone.
Festeggiamo quindi il 25 aprile, insieme.
Celebrando la liberazione del nostro Paese, innanzitutto.
Ma non limitando lo sguardo a una mera celebrazione del passato.
Forti del ricordo spingiamo lo sguardo nel futuro.
In un recupero di valori portanti: a livello individuale, perché l’assenza di valori etici e civili condivisi genera quel vuoto morale che affonda nella violenza la nostra società.
A livello istituzionale, perché uno Stato non più sorretto da uno scheletro di valori fondanti, si avventura in una democrazia anonima e senza padri, tendenzialmente estranea alla storia.
A livello globale, anche. Perché il 25 aprile non è una Festa di guerra, ma di pace e di liberazione dalla violenza in ogni sua forma.
Perché la pace non è sufficiente a garantire la libertà. Ma senza la pace non può esistere libertà.
Buon 25 aprile.

Foto Comune d’Este