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Il 25 aprile e la Pace

25 aprile. Una data fondamentale per il nostro Paese.
Non solo per “qualcuno”, non per “una parte” dell’Italia. Ma una festa di tutti, nessuno escluso; qualunque siano le proprie convinzioni.
In questo giorno non si festeggia una vittoria militare: la guerra, in Italia, terminò infatti il 3 maggio. Si festeggia una riscossa civile. Come disse Piero Calamandrei “il carattere che distingue la Resistenza da tutte le altre guerre, anche da quelle fatte da volontari, anche dall’epoca garibaldina, è stato quello di essere più che un movimento militare, un movimento civile”.
Troppo spesso, infatti, rammentiamo la Resistenza armata a scapito di quella “disarmata”, disconoscendo la dignità, la forza, la caparbietà di tanti “civili” – in gran parte donne, vecchi e bambini – che dall’entrata in guerra dell’Italia fino alla Liberazione dovettero convivere con la disoccupazione e la fame mai saziata dai razionamenti. Furono eroiche soprattutto le donne che per tanti mesi lavorarono per un salario di fame, fecero lunghe ed estenuanti code per comprare qualcosa per i propri figli a casa, sempre con il pensiero costante al figlio o al marito in qualche lontano fronte di guerra.
In quel giorno del 1945 era nata l’illusione che l’idea stessa di guerra fosse sconfitta e che ci attendesse un futuro di pace e benessere.
Un’illusione, purtroppo.
I conflitti non sono mai cessati. Già nel 1946 iniziarono la guerra in Indocina e quella civile in Grecia. Ma neppure un anno, da allora, è trascorso senza battaglie e vittime. Solo che queste erano quasi sempre lontane dal cosiddetto Occidente e, di conseguenza, meno degne di attenzione da parte dei mezzi di informazione.
Ora, al contrario, anche il nostro continente è scenario di un conflitto, che si aggiunge, giova rammentare, agli altri 58 sparsi per il mondo, come ci ricorda l’organizzazione “The Armed Conflict Location & Event Data Project (ACLED)”.
Non che sia la prima volta per l’Europa nel dopoguerra. Ben rammentiamo, infatti, il conflitto nei Balcani all’inizio degli anni ’90, con decine di migliaia di vittime, per la gran parte donne e bambini. Quanto accadde in quegli anni fece impallidire l’operato del nazismo: ricordiamo solamente la strage di Srebrenica, avvenuta con la complicità dei “caschi blu” dell’ONU presenti, che consegnarono addirittura donne e bambini agli aguzzini e fornirono i buldozer per coprire le fosse comuni. Nel 2015 un’inchiesta del giornale britannico “The Observer”, sulla base di alcuni documenti declassificati dalla Gran Bretagna, dimostrò gravissime responsabilità di Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna e delle stesse Nazioni Unite che, in nome della realpolitik, preferirono accettare le migliaia di morti di Srebrenica pur di raggiungere un accordo con Milošević. Ma, lo sappiamo, non tutte le vittime sono eguali, neppure in Europa.
In questi giorni è l’Ucraina scenario di una nuova battaglia.
Una guerra che ci riporta in pieno Novecento. Senza tecnologie, droni e aerei senza pilota, ma con cannoni, bombe, carri armati e soldati.
E’ necessario usare ogni sforzo diplomatico, nessuno escluso, per giungere a una immediata cessazione delle ostilità.
Non credo che insistere nell’armare una delle parti, ancorché sia la parte aggredita, con ordigni sempre più sofisticati e potenti sia nell’interesse della pace. Semmai giova a ben altri interessi.
Nel 1972, nel corso dell’inchiesta dell’Washington Post denominata “scandalo Watergate”, Mark Felt, confidente segreto dei giornalisti Woodward e Bernstein, usò la celebre frase “follow the money” (seguite i soldi), poi ripresa da Giovanni Falcone con eccellenti risultati contro la mafia.
Seguendo il denaro capiamo come il perdurare del conflitto giova ai gruppi industriali che sostengono più fermamente, da dietro le quinte, i mastini della guerra dei salotti atlantisti. L’industria bellica, le compagnie di combustibili fossili minacciati dalla conversione energetica, la lobby dell’industria pesante hanno sempre considerato la guerra e le ricostruzioni un’immancabile occasione per enormi profitti. L’autoesclusione della Russia, se dura, dal mercato del gas, del petrolio e dell’agricoltura di base lascia spazio ai suoi competitor che, a prezzi di molto più alti, sono pronti a incassare gli extraprofitti. La sintesi di questa realtà è racchiusa in una frase di John D. Rockfeller riferita ai mercati finanziari: “Compra quando scorre il sangue nelle strade”.
Giova, soprattutto, alla potentissima industria delle armi. Negli ultimi dieci giorni l’amministrazione americana ha stanziato circa un miliardo di dollari in forniture all’Ucraina per fronteggiare l’avanzata russa nel Paese. Una cifra che raddoppia se si tiene conto del totale delle forniture inviate da Washington a Kiev in poco più di un anno, ovvero da quando Joe Biden è diventato capo della Casa Bianca. Numeri impressionanti che dimostrano un cambio di marcia netto rispetto ai predecessori, Trump e Obama, che non solo avevano stanziato fondi ben inferiori, ma avevano anche effettuate spedizioni di materiale non letale. L’industria italiana delle armi, in primis Leonardo, è anch’essa tra i beneficiati dalla guerra. Azienda tra le prime nel mondo e con notevoli addentellati con i partiti politici. Tanto potente che la Fondazione Med-Or, dalla stessa fondata e presieduta dall’ex ministro in quota PD Marco Minniti, ha sottoscritto un accordo di collaborazione per la predisposizione di analisi e studi sperimentali di previsione strategica con il Ministero degli Esteri: in altre parole il governo ha come consigliere per gli scenari esteri una fondazione dell’azienda di armi.
Ritengo che oggi lo sforzo di tutti i Paesi debba essere quello di porre fine alle ostilità, dando vita a ogni iniziativa diplomatica. Di perseguire un accordo che tenga ovviamente conto delle necessità inderogabili dell’Ucraina, che è e rimane il Paese aggredito, ma che, al tempo stesso, abbia la lungimiranza di rispettare le esigenze di sicurezza della Russia, in particolar modo quella di non avere intorno a sé Paesi armati da potenze avversarie.
Si tratta della cosiddetta “Dottrina Monroe”, elaborata proprio dagli Stati Uniti negli anni venti dell’800, che vietava l’intromissione di forze esterne in America Latina. Ricordate la crisi di Cuba del 1962, allorquando l’allora Unione Sovietica stava per installare missili con testate nucleari nell’isola e J. F. Kennedy, in un discorso alla nazione, prospettò l’ipotesi di un conflitto nucleare? I missili puntati sulle proprie città dalla propria soglia non piacciono a nessuno!
In questa ricorrenza è davvero importante invocare la pace!
Perché il 25 aprile non è una Festa di guerra, ma di Pace e di Liberazione dalla violenza in ogni sua forma.
In questo senso penso che la più bella celebrazione di questa ricorrenza abbia avuto luogo stamane, con un giorno di anticipo. Alludo alla Marcia per la Pace di Assisi, dove un fiume di persone di diversa estrazione, provenienza e ideologia, alle quali ha rivolto il suo saluto e ringraziamento Papa Francesco, hanno sfilato chiedendo la cessazione della guerra. Il portavoce dei francescani ha detto che, pur nella consapevolezza dei diversi ruoli tra aggressore e aggredito, l’invito a fermarsi deve essere unanime.
Un 25 aprile come festa di Liberazione e di riunificazione, ma anche di pace.
Perché la pace non è sufficiente a garantire la libertà. Ma senza la pace non può esistere libertà.
Buon 25 aprile.

Disegno di Money
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Pesach

Pasqua significa “passaggio”, “passare oltre”, dall’aramaico pasah. Gli Ebrei in questa festa, che chiamavano
Pesach, ricordavano il passaggio attraverso il mar Rosso dalla schiavitù d’Egitto alla liberazione. Per i
cristiani è la festa del passaggio dalla morte alla vita di Gesù Cristo.
Quest’anno abbiamo realmente bisogno che la Pasqua rappresenti un passaggio: verso un futuro diverso e
migliore.
Mentre ancora viviamo la pandemia di Covid, che nonostante una minor attenzione da parte dei mezzi di
comunicazione continua a mietere oltre cento vittime al giorno, sperimentiamo anche una guerra nel
nostro continente. Una Pasqua di sangue, potremmo dire. Ancora una volta. La prima occasione in cui
venne utilizzata questa espressione fu nel 1916, allorquando a Dublino gli irlandesi insorsero contro il
dominio britannico. Le truppe della “democratica” Gran Bretagna risposero utilizzando, per la prima volta, i
carri armati contro i civili. Gli organizzatori delle manifestazioni che non morirono sotto il fuoco dei blindati
finirono giustiziati.
Oggi, ancora una volta, la guerra insanguina la Pasqua in Europa. Nel nostro continente, certo, perché in
altre parti del mondo i conflitti perdurano da anni, senza che siano accompagnati da eguale clamore.
Non ho scritto, in queste ultime settimane, di questa vicenda. Sia per la sua cogente e dolorosa tragicità, sia
per il fatto che meriterebbe riflessioni profonde, condotte con una ragionevolezza che vedo carente nel
dibattito in essere.
Esiste un Paese aggressore e uno aggredito. Non ci piove ed è una realtà indiscutibile.
Punto e a capo, però. Non punto e basta! Condannare fermamente ma cercare di comprendere la realtà, le
cause e i possibili scenari futuri è ciò che distingue un essere senziente e ragionevole da un fanatico
pappagallo.
Vi è una frase di Edmund Burke, della seconda metà del ‘700, che campeggia, incisa in trenta lingue diverse,
su un monumento collocato nel campo di concentramento di Dachau: “Chi non conosce la storia è
condannato a ripeterla”.
Pare invece essere in atto una campagna mediatica ispirata dai grossi gruppi editoriali per cui chiunque
voglia approfondire o capire meglio quanto sta accadendo diviene ipso facto un seguace di Putin, il che è
assurdo.
Persino un giornalista solitamente misurato come Gramellini si è esibito in un articolo contro l’Associazione
dei Partigiani davvero vergognoso, in cui è giunto ad accusare i vecchi partigiani di aver tradito i valori della
Resistenza e di omaggiare l’estrema destra ungherese per la disposizione dei colori della bandiera
(ignorando, Gramellini, che tale disposizione era quella utilizzata dalla Resistenza nel ’44) e per la
contrarietà all’invio di armi al governo ucraino e all’aumento di spese militari. Se questo significa tradire i
valori della Resistenza e financo essere contigui al fascismo allora potremmo individuare in Papa Francesco
il leader assoluto di questo fantomatico neo-fascismo!
E’ invece doveroso porsi domande su quali siano le strade migliori per giungere in fretta al termine del
conflitto e su quale ruolo possa svolgere in questa situazione la diplomazia e, in primis, l’Europa, teatro di
questa tragedia.
Temo tuttavia che proprio l’Europa, sino ad oggi, sia una delle vittime della guerra.
Assolutamente privi di ogni iniziativa, che non sia occasionale e singola, i paesi europei si sono totalmente
appiattiti, ancora una volta, sulle posizioni degli Stati Uniti. Ma siamo certi che gli interessi americani
coincidano con quelli europei e, ancor di più, con i nostri?
Personalmente ne dubito fortemente.
Di certo agli Stati Uniti non è utile una rapida cessazione della guerra. Innanzitutto perché un conflitto
prolungato tenderebbe a indebolire Putin. Poi perché il tempo potrebbe, nei loro disegni, imporre
definitivamente l’influenza e il controllo sull’Europa, grazie anche al monopolio digitale delle cosiddette Big
Tech: non dimentichiamoci la lettera acida e minacciosa inviata dall’amministrazione Biden a Bruxelles lo
scorso febbraio in occasione dell’emanazione di un pacchetto di leggi tese a limitare lo strapotere dei
colossi Tech statunitensi. Un altro motivo consiste nel tentativo di sostituirsi nel ruolo di fornitore di beni e
prodotti ai partner europei, come già iniziato con granaglie, petrolio e gas liquefatto. A costi, ovviamente, ​
ben più onerosi. Infine, come spesso accade negli USA, una guerra aiuta la popolarità della leadership. Il che
è particolarmente utile in un momento in cui Biden, dipinto dai media americani come “un anziano che dice
cose sconclusionate” (un “rincoglionito” ha chiosato con minor eleganza Travaglio) è precipitato ai minimi
storici del gradimento.
L’Europa, da parte sua, ha invece il contrario interesse ad una rapida chiusura del conflitto che, in ultima
analisi, è una guerra “per procura” tra Putin e Biden tramite il suo emissario Zelensky. Non solo per motivi
economici, essendo i paesi europei a pagare il costo maggiore della situazione, ma – e soprattutto – per
motivi umanitari.
L’Unione Europea dovrebbe adoperarsi, in autonomia, non già nell’invio sempre maggiore di armi (fatto,
peraltro di dubbia costituzionalità, come ha recentemente argomentato Lorenza Carlassare, docente di
Diritto Costituzionale all’Università di Pavia) ma perché si giunga ad un immediato cessate il fuoco che
consenta l’avvio di una vera trattativa. Sforzo che può compiere solo agendo in prima persona, e non in
qualità di subordinato altrui. Quindi è necessario che stabilisca e disciplini il rapporto con Kiev, desiderosa
di entrare in Europa. E, da ultimo, che affronti di petto il problema della convivenza con Mosca, aldilà di
Putin e anche in funzione di un suo ridimensionamento. Non è pensabile, storicamente e culturalmente,
un’Europa senza Russia.
Occorre – in altre e più semplici parole – uno sforzo immenso verso la pace.
Che è il percorso indicato ieri sera da Papa Francesco, che ha posto accanto una donna russa e una ucraina
nella via crucis, a testimonianza di un immenso dolore che è un’atrocità umana.
Come ha detto il gesuita Padre Antonio Spadaro, è necessario partire dal disarmo delle coscienze, dalla
velleità della pace.
Partiamo da queste basi, cercando la pace e la concordia. Facciamo cessare il rombo delle armi, come
ancora ha ripetuto il pontefice.
Solo così sarà davvero “pasah”, un passare oltre, verso un futuro diverso.
Per l’Ucraina, per la Siria, per lo Yemen, per gli altri 25 Paesi del mondo coinvolti in guerre.
E allora sarà realmente una Buona Pasqua.

Foto di “Avvenire”