Estate. Con le sue notti indolenti e trepidanti. Con la carezza di una luce che non vuole spegnersi, frantumandosi ostinata sulle pietre degli avi. Una stagione di vita, di anniversari, di celebrazione di incontri. Il sole si attarda sornione in un arabesco di frizzanti bagliori e sbeffeggia i fantasmi fuggevoli delle ombre ormai sconfitte. La vita si fa sogno e, impavida, sfida paure che gemono come steli di grano piegati dal sole e schiaffeggiati dal vento. Ogni attimo si fa nota di una sinfonia di pensieri che avvolge il futuro: una ode al noi, insieme e per sempre. Una magica trilogia di certezze conquistate. Nel frinire dei campi la mano trema in una ricerca audace, sotto lo sguardo complice di occhi di giada. S’attarda la vita, che né uomo né dio potrà strappare quali ali di lucciole argentate nel concerto di stelle. E’ tempo di libellule che si fanno aquile. Di scintille danzanti e briciole di luna. E’ tempo che i giorni si facciano luce. E’ tempo di essere vivi. Buona estate a voi.
Christian Købke – Roof Ridge of Frederiksborg Castle, 1834
12 giugno. Anche quest’anno vorrei ricordare un compleanno. Quello di una bambina che non è mai potuta crescere, che non ha conosciuto la pienezza della maturità, che non ha avuto la ventura di sperimentare lo scorrere del tempo che graffia il corpo con i sospiri della vecchiaia. Dei pochi compleanni di Anna, perché così si chiamava la bambina, ve ne racconto uno in particolare: quello del 1942. Era un venerdì, e Anna si trovava ad Amsterdam. Mi piace pensare che vi fosse un tiepido sole ad accarezzare il respiro dell’estate che si affacciava timida alle porte del cielo. Anche in Olanda, dove i papaveri si inchinano lieti al vento che sfiora i campi con leggera tenerezza. Quel giorno Anna compiva tredici anni. Tra i doni ricevette un diario, con la copertina a quadretti rossi. Per lei era il regalo più bello, perché Anna amava scrivere, lasciando fluire le parole a tessere emozioni in un ordito sapiente. Ricordava sempre che “la carta è più paziente degli uomini”. Non immaginava che le sue righe, un giorno, sarebbero divenute famose, lette con commozione da donne e uomini di ogni tempo e di ogni Paese. Due giorni dopo il suo compleanno del 1942 Anna inaugurò il suo nuovo diario: “Venerdì 12 giugno ero già sveglia alle sei: si capisce, era il mio compleanno! Ma alle sei non mi era consentito d’alzarmi, e così dovetti frenare la mia curiosità fino alle sei e tre quarti. Allora non potei più tenermi e andai in camera da pranzo, dove Moortje, il gatto, mi diede il benvenuto strusciandomi addosso la testolina. Subito dopo le sette andai da papà e mamma e poi nel salotto per spacchettare i miei regalucci. Il primo che mi apparve fosti tu, forse uno dei più belli fra i miei doni. Poi un mazzo di rose, una piantina, due rami di peonie; altri ancora ne giunsero durante il giorno. Da papà e mamma ebbi una quantità di cose, e anche i nostri numerosi conoscenti mi hanno veramente viziata. Fra l’altro ricevetti un gioco di società, molte ghiottonerie, cioccolata, un puzzle, una spilla, la Camera oscura, le Saghe e leggende olandesi di Joseph Cohen e un po’ di denaro, così che mi potrò comprare i Miti di Grecia e di Roma. Che bellezza!” Anna, come tutte le ragazze, desiderava un’amica del cuore, a cui confidare i suoi innocenti segreti. Scrisse sul suo diario qualche giorno dopo: “Ho dei cari genitori e una sorella di sedici anni; conosco, tutto sommato, una trentina di ragazze di alcune delle quali potreste dire che sono mie amiche. Ho dei parenti, care zie e cari zii, un buon ambiente familiare; no, apparentemente non mi manca nulla, salvo l’amica. Con nessuno dei miei conoscenti posso far altro che chiacchiere, né parlar d’altro che dei piccoli fatti quotidiani. Non c’è modo di diventare più intimi, ecco il punto. Forse questa mancanza di confidenza è colpa mia; comunque è una realtà, ed è un peccato non poterci far nulla. Perciò questo diario. Allo scopo di dar maggior rilievo nella mia fantasia all’idea di un’amica lungamente attesa, non mi limiterò a scrivere i fatti del diario, come farebbe qualunque altro, ma farò del diario l’amica, e l’amica si chiamerà Kitty”. Il mondo era difficile in quegli anni. C’era la guerra. E il nazismo. Le truppe tedesche avevano invaso l’Olanda. Anna era ebrea. Non ve l’avevo detto? Perché avrei dovuto? Che importa? Purtroppo, per i nazisti, era invece maledettamente importante. Anna, per non essere deportata, fu costretta a nascondersi, con i suoi genitori e un’altra famiglia, in due locali celati sopra gli uffici di una azienda. L’alloggio segreto, come lo chiamavano. Un luogo dove ogni possibilità di osservare l’interno dell’abitazione era stata saggiamente preclusa dalle finestre oscurate. Nessuno doveva sospettare che quell’edificio fosse abitato. La ragazza e la sua famiglia trascorsero due anni in quegli angusti locali, senza mai uscire neppure una volta. Grazie al suo diario abbiamo appreso tante. Anna detestava la matematica, la geometria e l’algebra, mentre adorava la storia e le materie letterarie. Tra i suoi interessi personali vi erano la mitologia greca e romana e la storia dell’arte. Insieme a una grande passione per il cinema. Che, purtroppo, le era precluso nell’alloggio segreto. Non c’erano Netflix e Amazon allora! Scrisse Anna sul suo diario nel Natale del 1943: “Cara Kitty, credimi, quando sei stata rinchiusa per un anno e mezzo, ti capitano dei giorni in cui non ne puoi più. Sarò forse ingiusta e ingrata, ma i sentimenti non si possono reprimere. Vorrei andare in bicicletta, ballare, fischiettare, guardare il mondo, sentirmi giovane, sapere che sono libera, eppure non devo farlo notare perché, pensa un po’, se tutti e otto ci mettessimo a lagnarci e a far la faccia scontenta, dove andremo a finire? A volte mi domando: «Che non ci sia nessuno capace di comprendere che, ebrea o non ebrea, io sono soltanto una ragazzina con un gran bisogno di divertirmi e di stare allegra?»”. Una domanda legittima, che mi ha sempre turbato nella sua ovvietà, come certamente scuoterà i vostri cuori. La cattiveria, tuttavia, era in agguato: un infame, mai identificato, segnalò l’alloggio segreto alla Gestapo. Il 4 agosto 1944 le Schutzstaffel – le famigerate SS – irruppero nei locali, arrestarono le due famiglie e le condussero al campo di smistamento di Westerbork. Il 2 settembre tutti quanti vennero deportati ad Auschwitz. Dopo un mese Anna e la sorella Margot furono trasferite a Bergen-Belsen, un campo di concentramento nella bassa Sassonia. Nel marzo del 1945, neppure conosciamo il giorno preciso, Anna si ammalò di tifo, per le terribili condizioni di vita nel lager, e morì. Aveva 15 anni. Venne gettata in una fossa comune. Pochi giorni dopo le truppe britanniche liberano il campo. Troppo tardi per Anna. Il generale inglese Glyn Hughes, dopo aver visto il campo di sterminio dove è morta Anna, disse in lacrime: “Sono stato medico per trent’anni ed ho visto tutti gli orrori della guerra, ma non ho mai visto nulla di simile”. Alla fine della guerra fu ritrovato, nell’alloggio segreto, il diario di Anna. Su di esso le ultime parole scritte prima dell’arresto e della deportazione: “È un gran miracolo che io non abbia rinunciato a tutte le mie speranze perché esse sembrano assurde e inattuabili. Le conservo ancora, nonostante tutto, perché continuo a credere nell’intima bontà dell’uomo. Mi è impossibile costruire tutto sulla base della morte, della miseria, della confusione. Vedo il mondo mutarsi lentamente in un deserto, odo sempre più forte l’avvicinarsi del rombo che ucciderà noi pure, partecipo al dolore di milioni di uomini, eppure, quando guardo il cielo, penso che tutto volgerà nuovamente al bene, che anche questa spietata durezza cesserà, che ritorneranno l’ordine, la pace e la serenità. Intanto debbo conservare intatti i miei ideali; verrà un tempo in cui forse saranno ancora attuabili”. Credo che ognuno di noi debba rammentare queste parole, per respingere ogni forma di odio. Ogni titubanza e ogni attimo di indifferenza vissuto nella convinzione che tutto ciò non ci riguardi rappresentano cedimenti intollerabili verso la “spietata durezza” di cui ci parlava Anna. L’odio anche oggi è presente: si insinua malignamente nel linguaggio e nella vita quotidiana. Non dobbiamo assuefarci a questa forma di barbarie: sappiate che non è mai innocua. Per questo, anche quest’anno, ricordo il compleanno Anna. Senz’altro lo avete capito: si chiamava Anna Frank.
10 giugno 1981: quarant’anni fa. A Vermicino, vicino a Roma, moriva Alfredino Rampi, 6 anni, caduto in un pozzo artesiano. Per salvarlo venne tentato di tutto. I soccorsi furono fin da subito complicatissimi. Si cercò di calare una tavoletta di legno che però si incastrò a 24 metri. Poi si pensò di scavare due tunnel a fianco, verticale e orizzontale, per raggiungere il punto esatto della trappola infernale. Un vigile del fuoco gli parlò con un megafono per 24 ore mentre il tempo passava inesorabile. Sul posto era arrivato anche l’allora presidente della Repubblica Sandro Pertini. Si fece dare il microfono e provò a incoraggiare il bambino. La Rai seguì il caso con una diretta lunga 18 ore. Il Paese si fermò, gli occhi appiccicati allo schermo, sperando in un lieto fine mai arrivato. Accanto alla tragedia immensa del bimbo questa fu l’altra nota negativa: la spettacolarizzazione del dolore. Nacque quel giorno la televisione che fa del dolore uno spettacolo e della morte un evento mediatico. Da quel giorno la televisione è divenuta meno umana.
Il 23 maggio 1992 ha premuto il pulsante che ha fatto esplodere l’autostrada che collega l’aeroporto di Punta Raisi con Palermo, uccidendo Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Ha strangolato con le sue mani e poi sciolto nell’acido il tredicenne Giuseppe Di Matteo, che aveva visto crescere e con il quale aveva “giocato alla playstation”. Lui stesso non ha saputo quantificare ai magistrati il numero preciso delle sue vittime: “Molte più di 100, ma meno di 200: forse 150”. Si tratta di Giovanni Brusca, boss della mafia corleonese, soprannominato “U verru” (il maiale) o anche “scannacristiani”. Brusca, dopo poco meno di 25 anni di detenzione, è tornato ieri in libertà per fine pena e posto sotto protezione da parte della polizia di stato. Va detto: il rilascio è avvenuto nel rispetto delle norme vigenti. In forza della normativa sui pentiti considerati attendibili, peraltro fortemente voluta, per ironia della sorte, dallo stesso Giovanni Falcone ma approvata solo dopo la sua morte, Brusca è stato condannato a 30 anni. Con la liberazione anticipata che si applica a tutti i detenuti — 45 giorni di sconto ogni sei mesi passati in cella, unico beneficio concesso anche ai mafiosi — sono diventati venticinque. Con un ulteriore premio per buona condotta e per il comportamento corretto tenuto negli oltre 80 permessi premio ottenuti in questi anni, ieri per Brusca si sono aperte definitivamente le porte del penitenziario. E’ vero: la legge è stata rispettata. Tuttavia vi è qualcosa che turba profondamente tutti noi. Nonostante il pentimento giudicato credibile di Brusca, infatti, la stessa strage di Capaci, come abbiamo visto pochi giorni fa, resta densa di misteri e di fatti mai chiariti. Da un punto di vista sostanziale, inoltre, non posso che essere turbato dal fatto che l’autore della strage di Capaci e di un numero tale di omicidi e infanticidi da non riuscire a ricordarne il numero (“Molti più di 100, ma meno di 200: forse 150”) possa essere oggi libero e sotto protezione. Diceva Terenzio: “ius summum saepe summa est malitia”, ossia somma giustizia è spesso somma malizia. E Cicerone, con una frase ancora più celebre, affermava “summum ius, summa iniuria”, con ciò intendendo che l’applicazione rigida di una norma può diventare un’ingiustizia. Oggi è successo questo.
Testo tratto dal libro di Saverio Lodato “Ho ucciso Giovanni Falcone” – Mondadori