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23 maggio: la memoria da non tradire

23 maggio 1992. Un sabato.
Alle 17 e 56, sull’autostrada che collega l’aeroporto di Punta Raisi con Palermo, un’esplosione aprì un grande cratere: sotto all’asfalto era stata piazzata mezza tonnellata di esplosivo, fatta saltare dal sicario della mafia Giovanni Brusca, acquattato sulla collina sovrastante.
Nello scoppio morirono il magistrato Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro.
Fu l’”Attentatuni”, il più importante della storia di Cosa Nostra.
I primi testimoni descrissero una scena di guerra, con ulivi centenari sradicati da terra e un intero pezzo di autostrada sostituito da una voragine.
Pochi mesi prima, il 30 gennaio 1992, si era concluso il maxiprocesso di Palermo, con numerosi ergastoli comminati a diversi boss mafiosi. Giovanni Falcone sapeva di essere nel mirino: l’assassinio di Giuseppe Montana e Ninni Cassarà, due tra i suoi più stretti collaboratori, era stato un messaggio inequivocabile.
Ancora oggi molti misteri aleggiano su quella strage che segnò profondamente la storia del Paese.
Poniamoci qualche domanda. Perché Falcone non è stato ucciso a Roma, dove spesso camminava senza neppure la scorta? Riina aveva inviato a Roma, non a caso, un commando omicida composto dai più qualificati killer mafiosi, salvo poi richiamare gli uomini a Palermo a seguito di un nuovo progetto. Perché? Secondo il pentito Spatuzza, Riina pronunciò queste parole: “Cambia tutto. Non c’è più solo la mafia”. Chi altro partecipò al progetto? Perché le motivazioni della strage di Capaci – come di quelle che seguirono –erano note solo ai massimi vertici di Cosa Nostra e neppure ai più fidati luogotenenti? Perché l’esplosivo utilizzato, oltre a quello consueto da cava, conteneva tracce di “Semtex” prodotto nella Repubblica Ceca e utilizzato solo in ambito militare? Perché una tecnica di realizzazione così spettacolare ma di difficile esecuzione? Non si è trattato di un’esplosione che ha coinvolto obiettivi fermi, ma auto lanciate ad oltre 170 chilometri orari, con precisione perfetta. Un’operazione alla portata di esperti appartenenti a squadre speciali militari perfettamente addestrate, non di picciotti della mafia!
Colui che avrebbe dovuto premere il telecomando, tale Pietro Rampulla, non partecipò all’attentato adducendo improvvisi motivi familiari. Vi sembra logico che l’esecutore principale possa mancare al più spettacolare attentato mafioso di tutti i tempi prendendosi… un giorno di ferie?
Nei pressi del cratere furono trovati guanti in lattice. Allora non era possibile, ma oggi si sono potute determinare sugli stessi le tracce genetiche, che appartengono a una donna. Una donna sul luogo della strage? Impossibile nello stile di Cosa Nostra. Chi era? Perché era sul posto?
E ancora: chi c’era a bordo dell’aereo misterioso che sorvolava il tratto Palermo-Punta Raisi nel giorno della strage? Testimoni lo raccontano in più fasi processuali. Perché uomini in mimetica si trovavano sul tetto della Mobiluxor, il mobilificio a ridosso dell’autostrada A29? C’è anche questo nei racconti, resi in più fasi processuali, di alcuni testimoni.
Tanti misteri, quindi. Per i quali esigere risposte adeguate.
Basta con l’Italia dei misteri, è necessario pretendere la trasparenza della verità.
La stagione degli attentati è terminata nel 1993, con le bombe a Firenze, Milano e Roma. A essa ha fatto seguito una fase di “inabissamento” voluta da Bernardo Provenzano – al vertice dell’organizzazione criminale siciliana fino al suo arresto nel 2006 – e tuttora in corso. La nuova strategia, caratterizzata dalla rinuncia a clamorosi atti di sangue, lungi dal comportare la scomparsa della mafia, ne ha permesso l’ascesa economica e territoriale anche al di fuori dell’isola originaria. Agli omicidi eccellenti e alle bombe si sono sostituiti incentivi di natura finanziaria: la corruzione di pubblici ufficiali e professionisti, accompagnata da minacce in caso di resistenza. Con l’obiettivo di infiltrare l’economia legale del nostro paese, partecipando a gare d’appalto e a bandi europei.
La mafia è oggi meno potente della ‘ndrangheta, ma conserva un ruolo cruciale nell’economia criminale del nostro paese anche in virtù dei suoi legami internazionali.
Il pericolo delle sue infiltrazioni, in termini di riciclaggio e di acquisizione di realtà economiche, è oggi ancora maggiore a causa della crisi innescata dall’epidemia.
L’Europa (ma in questo gli Stati Uniti non hanno dato una risposta migliore) non ha un piano per fermare il flusso di riciclaggio e usura che la pandemia ha generato. Le mafie approfittano della crisi per movimentare il proprio denaro più velocemente. Perché i controlli si sono abbassati: l’antiriciclaggio – inconfessata verità – può reggere quando ci si trova in una situazione economica positiva e sana ma quando manca liquidità, quando i consumi entrano in una spirale di crisi, il denaro torna ad essere utile a tutti senza sondarne l’origine. Quando manca il pane nessuno chiede da quale forno provenga: antica regola che le mafie conoscono benissimo.
Da anni le organizzazioni criminali sono ben inserite in tutto il tessuto economico europeo e non si stanno lasciando sfuggire l’occasione che la Covid Economy ha creato. Quell’economia, generata dalla pandemia, che porta enorme fortuna per pochissimi e il disastro per tutti gli altri. Per la realtà fatta di negozi, piccole imprese, alberghi, ristoranti, trasportatori, ludoteche, bar. L’Europa intera si deve porre l’obiettivo di difendere la sua economia reale.
Il giro d’affari delle organizzazioni criminali è immenso. Solo quelle italiane (di cui ci sono dati scientifici perché le più studiate) guadagnano cifre immense: la ‘ndrangheta circa 60 miliardi di euro all’anno; la Camorra tra i 20 e i 35 miliardi. Questo significa che la massa di denaro di cui dispongono è così grande che di certo non devono aspettare alcun recovery fund.
Per questo gli aiuti europei vanno monitorati, non dati a pioggia.
Ha giustamente affermato Mario Draghi che i fenomeni corruttivi rappresentano un grave pericolo di ingerenza criminale da parte delle mafie e un fattore disincentivante sul piano economico per gli effetti depressivi sulla competitività e la libera concorrenza.
Ci occorre una classe politica che, per una volta, si mostri all’altezza del momento che stiamo vivendo.
Vi è la necessità che i partiti tutti sappiano innanzitutto fare pulizia al loro interno, anche per non accentuare il distacco tra politica e paese reale. Pensate che, secondo un sondaggio curato da Demos nel novembre 2020, per l’83 per cento dei cittadini sono proprio i politici nazionali ad aver favorito l’espansione delle mafie in Italia, mentre per l’81 per cento i colpevoli sarebbero anche i partiti e i politici locali.
Una autentica mina per la democrazia rappresentativa.
Respingere le mafie, dare risposte concrete e rapide ai cittadini. Ripristinare la fiducia nella politica.
Questo, oggi, è il miglior modo per ricordare Giovanni Falcone.

Foto Rec News

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