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Primo Maggio

Quest’anno è necessario ridefinire e calibrare il senso della giornata del Primo Maggio.
Se già da tempo i mutati scenari occupazionali e sociali imponevano di uscire da una iconografia tipica della metà del secolo scorso, le conseguenze di quanto occorso in quest’ultimo periodo, contraddistinto dell’epidemia, rendono necessario un ripensamento radicale, che sappia restituire a questa festa il valore fondamentale che le compete.
Lo sorso 6 aprile l’ISTAT ha diffuso i dati relativi all’occupazione nel nostro Paese. Credo che le cifre siano elequenti, nella loro cruda drammaticità. Nonostante il blocco dei licenziamenti, a febbraio gli occupati in Italia sono stati 945.000 in meno rispetto allo stesso mese del 2020. In un anno sono crollati i posti a termine (-372mila) e gli autonomi (-355mila). Ma si sono persi anche 218mila dipendenti stabili. La diminuzione è stata più intensa per gli under 35. Il tasso di disoccupazione per i giovani fino ai 24 anni è salito al 31,6%. Sono anche aumentati di 717mila unità gli inattivi, cioè coloro che non sono occupati ma nemmeno cercano un posto.
Non va meglio a livello globale. In questo ambito ci soccorrono i dati forniti dall’ILO, Organizzazione Internazionale de Lavoro, l’agenzia specializzata delle Nazioni Unite sui temi del lavoro e della politica sociale. Secondo questo Ente la crisi economica e del lavoro causata dal COVID-19 potrebbe incrementare la disoccupazione nel mondo per almeno 25 milioni di persone. Queste si sommerebbero ai 188 milioni di disoccupati nel 2019. L’OIL stima che circa 35 milioni di persone in più si troveranno in condizioni di povertà lavorativa in tutto il mondo. Gli effetti della crisi sulle ore lavorate e sul reddito sono imponenti. Nel secondo trimestre del 2020, ad esempio, le stime aggiornate prevedono una riduzione, a livello globale, delle ore lavorate pari al 17,3 per cento: questa riduzione equivale a 495 milioni di posti di lavoro a tempo pieno. Questa crisi potrebbe avere un impatto maggiore su alcuni gruppi di lavoratori e lavoratrici, aumentando le disuguaglianze. Tra questi, le persone che svolgono lavori meno protetti e meno retribuiti, i giovani, i lavoratori anziani e le lavoratrici.
Il rischio è quello di passare rapidamente da una pandemia sanitaria ad una sociale.
Il virus, lungi da rendere migliore la società, ha semmai esasperato diseguaglianze e ingiustizie.
Dall’inizio della pandemia il patrimonio dei primi 10 miliardari del mondo è aumentato di 540 miliardi di dollari complessivi, che sarebbero più che sufficienti a pagare il vaccino per tutti gli abitanti del pianeta e ad assicurare che nessuno cada in povertà a causa del virus. È quello che emerge dal rapporto della confederazione internazionale di organizzazioni no profit, Oxfam, dal titolo “Il virus della disuguaglianza”, secondo cui le mille persone più ricche della terra hanno recuperato in appena nove mesi tutte le perdite causate dall’emergenza della scorsa primavera e anzi hanno iniziato ad accumulare altra ricchezza, mentre i più poveri per riprendersi dalle catastrofiche conseguenze economiche della pandemia potrebbero impiegare più di 10 anni.
Esistono società che ormai, per dimensioni economiche, possono competere con gli Stati sovrani. Il “valore” di Microsoft, oppure di Google, è pari a quello dell’intero Recovery Fund (NextGenerationEU). Quello di Amazon è superiore.
Vi sono settori passati con minori danni dalle misure limitative e contenitive di questi mesi e altre che sono state praticamente annientate.
Molte realtà economiche, soprattutto nell’ambito del commercio, difficilmente potranno avere un futuro, mentre la vendita di beni e servizi cosiddetti “online” ha ricevuto un impulso inarrestabile. Tuttavia questo tipo di commercio non porta indotto territoriale, ma centralizza gli utili, perlopiù in Paesi a tassazione agevolata.
L’immensa massa di denaro che l’Europa ha stanziato con il Recovery Fund, meglio definito come Next generation EU, come lo ha battezzato la Commissione europea, sono una occasione imperdibile, che tuttavia deve essere gestita con intelligenza e lungimiranza, con occhio profetico sul futuro e con la capacità di discernere le tendenze consolidate di sviluppo globale.
Credo che il “Piano nazionale di ripresa e resilienza”, presentato dal Presidente del Consiglio Draghi, abbia in sé molti elementi di questa visione profetica del futuro: l’attenzione ai giovani, le misure a sostegno dell’imprenditorialità femminile, il sistema di certificazione della parità di genere che accompagni e incentivi le imprese ad adottare politiche adeguate a ridurre il gap di genere, le ingenti misure destinate alle infrastrutture, soprattutto nel Sud.
Ma anche in tema di lavoro, argomento sul quale stiamo riflettendo, con i 22 miliardi destinati alle politiche attive del lavoro e della formazione, all’inclusione sociale e alla coesione territoriale.
Le linee guide sono state poste con grande correttezza. Non a caso il britannico Financial Times, non sempre indulgente verso il nostro Paese, ha scritto nei giorni scorsi: “L’Italia è diventata un modello europeo. Neanche tre mesi dopo la nascita del governo di Mario Draghi non solo la voce di Roma viene ascoltata forte e chiara a Parigi e Berlino, ma l’Italia sta sempre di più fissando l’agenda dell’UE dettandone i temi”.
Sempre che a rovinare tutto non ci si mettano, per l’ennesima volta, le forze politiche, partiti, partitini, listarelle e caravanserragli vari, intenti quotidianamente a berciare e a battere i piedi per una manciata di consensi in più da conseguire nello psichedelico mondo dei sondaggi.0
Oggi è il giorno di “rispolverare” il pensiero riassunto nella celebre frase di De Gasperi: “un politico guarda alle prossime elezioni. Uno statista guarda alla prossima generazione”.
Solo con questo spirito potremo guardare al futuro con maggiore serenità.
Solo con questi pensieri possiamo celebrare degnamente il Primo Maggio. Con meno bande, concerti e coreografie novecentesche. Ma con attenzione autentica e programmatica al lavoro, alla sua tutela e alla sua sicurezza. Contro la corruzione, la stupidità, gli interessi costituiti.

Angelo Morbelli – “Per 80 centesimi!”
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Chernobyl: 35 anni dopo

26 aprile 1986. In Ucraina era la notte che precedeva un sabato qualunque. All’una e ventitré gli abitanti della città di Pripjat, dove sorgeva la struttura, videro un bagliore illuminare la notte. Era l’avaria alla centrale di Chernobyl, l’evento più disastroso della storia del nucleare civile. Quello che avrebbe cambiato per sempre la vita di milioni di persone, uccidendone un numero ancora imprecisato. Tutto nacque da un test di sicurezza: evidentemente non riuscito. Quando attorno all’una di notte furono disattivati i sistemi di emergenza per effettuare le prova, un’incredibile catena di errori, disattenzioni e inefficienze, unita alla tecnologia insicura del reattore di derivazione militare, portò al disastro.
A quanto pare il test doveva essere condotto di giorno, da personale appositamente preparato, ma poi, a causa di un parallelo calo nella rete che garantiva l’energia alla vicina Kiev, il via libera per ridurre la potenza del reattore di Chernobyl, senza rischiare deficit di fornitura, venne dato solo di notte, quando era in servizio personale all’oscuro delle procedure di emergenza.
Per una serie di manovre malaccorte la fissione diventò incontrollabile, il reattore raggiunse 120 volte la sua potenza massima ed esplose, scaraventando in aria una piastra da mille tonnellate e un’enorme quantità di materiale radioattivo: polveri, fumi, vapori carichi di radionuclidi. La nube radioattiva si spostò rapidamente da Chernobyl verso gran parte d’Europa. Secondo l’IAEA (Agenzia internazionale per l’energia atomica) l’esplosione portò la contaminazione più elevata in un’area nel raggio di 100 km dalla centrale, con la concentrazione maggiore di isotopi di stronzio, cesio e plutonio. Per giorni l’allora Unione Sovietica tentò di nascondere l’accaduto. I primi dubbi in Europa sorsero il 28 aprile, quando in Svezia venne registrata una radioattività di gran lunga superiore alla norma. In Svezia non si erano però verificati incidenti nelle centrali nucleari, e neanche in Polonia, da dove i tecnici di Stoccolma pensavano che arrivasse l’allarme. Il 28 aprile un satellite americano mostrò le prime fotografie aeree dell’incendio al reattore di Chernobyl.
Nei primi dieci giorni successivi alla catastrofe si tentò con ogni mezzo di fermare la fuga radioattiva: elicotteri militari versarono oltre 1800 tonnellate di sabbia e 2400 di piombo sul reattore, ma solo il 6 maggio la situazione fu sotto controllo. Migliaia le persone che parteciparono alle operazioni, tra militari e civili. Si calcola che i “liquidatori”, operai, pompieri e soldati, reclutati e volontari, siano stati nei mesi seguenti circa 700 mila, provenienti non solo da Ucraina, ma anche da Russia e Bielorussia, repubbliche che all’epoca dell’incidente facevano parte appunto dell’Unione Sovietica. Da Mosca l’ammissione del disastro arrivò solo il 14 maggio da parte dell’allora premier sovietico Mikhail Gorbaciov. I “liquidatori”, ignari della reale portata del disastro, uscivano sul tetto del reattore armati di pale e badili per buttare in basso sabbia, boro, blocchi di grafite sopra il nucleo radioattivo. Ogni sortita durava al massimo 40 secondi e si andava avanti 24 ore su 24. Agli occhi di un pubblico preoccupato per le conseguenze della catastrofe, ma poco informato a riguardo, i liquidatori divennero gli eroi di questa tragedia.
Tornando a Chernobyl. Gli abitanti di Pripyat rimasero esposti alle radiazioni ignari dell’accaduto per 33 ore. Solo il 27 di aprile cinquantamila persone furono fatte salire a bordo di numerosi autobus mandati appositamente. Tutti si sono lasciati alle spalle la vita di tutti i giorni e sono partiti portando con sé solo i documenti e pochi oggetti necessari. L’annuncio del comune parlava di un’evacuazione temporanea ma si raccomandava con i cittadini di chiudere acqua, luce e gas. Quasi nessuno ha mai fatto ritorno nella cittadina. Secondo le stime, attualmente, nella cosiddetta “zona di alienazione” entro 30 km dal reattore vivono infatti circa 200 persone. Quasi tutti anziani, che scelsero di ritornare a casa dopo qualche mese, “per vedere quello stava succedendo” ed oggi vivono mangiando i prodotti che loro stessi coltivano nei terreni contaminati. Pripyat oggi è una città fantasma. Case, ospedali, scuole, strade: tutto è rimasto immobile da allora a raccontare quello che c’era e che non c’è più. Solo il degrado, la rovina e la vegetazione che ingoia tutto rivelano come in realtà siano passati 35 anni.
L’incidente di Chernobyl, sulla scala Ines di gravità degli incidenti atomici, è a livello 7, il massimo. Un disastro mai visto. Il più grave della storia, dieci volte più disastroso di quello avvenuto nella centrale giapponese di Fukushima nel 2011. Superiore decine di volte alle bombe sganciate durante la Seconda guerra mondiale su Hiroshima e Nagasaki.
Recenti dati solo di Russia, Bielorussia e Ucraina (le tre Nazioni più vicine al cuore del disastro) parlano di 200mila morti tra il 1990 e il 2004. Senza contare il totale dei malati di tumore. Solo in Bielorussia tra il ’90 e il 2000 l’incremento dei casi di cancro è stato del 40%, del 52% nella regione al confine con l’Ucraina.
Secondo il lavoro di due studiosi, Moeller e Mousseau (Università Curie di Parigi e University of Southern California), il numero di aborti spontanei è aumentato del 23% dopo l’indicente a Chernobyl, quello delle malformazioni congenite nei neonati dell’80%. Molto più drammatico è l’aumento del cancro alla tiroide.
L’incidenza è salita di otto volte in Ucraina. Mentre in Bielorussia si è arrivati fino a 26 volte di più.
Vi è tuttavia un altro aspetto: l’area intorno al reattore esploso in Ucraina è diventata la terza riserva più grande d’Europa di flora e fauna (lo stesso accade a Fukushima dopo 10 anni). Naturalmente i rischi non sono scomparsi. La resilienza della natura dimostra però che la presenza dell’uomo è più pericolosa di una esplosione nucleare
Dietro la scuola media sulla Sportivnaja, nel paesino fantasma di Pripyat, si vede ancora il pavimento di linoleum della palestra: le radici l’hanno spaccato e alle spalliere s’è avvinta l’edera. Le autorità ucraine previdero il deserto atomico per almeno 300 anni; Greenpeace per 20mila: “Invece quando la gente se n’è andata”, racconta un ingegnere della Chernobyl Exclusion Zone, un raggio di 30 km intorno alla centrale, “è tornata la natura. Le radiazioni sono ovunque, hanno effetti tremendi. Ma sono un fattore meno rilevante dell’assenza dell’uomo. Oggi questa è diventata la terza più grande riserva di piante e animali in Europa. E la rinascita ambientale è l’unica conseguenza positiva di quella catastrofe”.
Consentitemi una curiosità. In molti hanno ricordato, nel corso di questi trent’anni, che uno dei significati del nome Chernobyl, in ucraino, è “assenzio”. L’Apocalisse, al capitolo 8 versetti 10 e 11, recita: “Il terzo angelo suonò la tromba: cadde dal cielo una grande stella, ardente come una fiaccola, e colpì un terzo dei fiumi e le sorgenti delle acque. La stella si chiama Assenzio; un terzo delle acque si mutò in assenzio e molti uomini morirono a causa di quelle acque, che erano divenute amare”.
Una coincidenza, certamente, ma resta il fatto che, quando si tratta del bene comune, gli uomini sanno superare le peggiori profezie.

Foto RSI CH
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La festa di tutti gli italiani

25 aprile.
Una data fondamentale per il nostro Paese.
Non solo per “qualcuno”, non per “una parte” dell’Italia. Ma una festa di tutti gli italiani, nessuno escluso; qualunque siano le proprie convinzioni.
In questo giorno non si festeggia una vittoria militare: la guerra, in Italia, terminò infatti il 3 maggio. Si festeggia una riscossa civile. Come disse Piero Calamandrei “il carattere che distingue la Resistenza da tutte le altre guerre, anche da quelle fatte da volontari, anche dall’epoca garibaldina, è stato quello di essere più che un movimento militare, un movimento civile”.
Troppo spesso, infatti, rammentiamo la Resistenza armata a scapito di quella “disarmata”, disconoscendo la dignità, la forza, la caparbietà di tanti “civili” – in gran parte donne, vecchi e bambini – che dall’entrata in guerra dell’Italia fino alla Liberazione dovettero convivere con la disoccupazione e la fame mai saziata dai razionamenti. Furono eroiche soprattutto le donne che per tanti mesi lavorarono per un salario di fame, fecero lunghe ed estenuanti code per comprare qualcosa per i propri figli a casa, sempre con la paura del successivo bombardamento notturno e con il pensiero costante al figlio o al marito in qualche lontano fronte di guerra.
Il 25 aprile si ricorda la vittoria della democrazia sull’oppressione, della dignità umana contro la barbarie della guerra, dell’occupazione e dell’odio.
Lasciatemi usare le parole di Norberto Bobbio: “eravamo ridiventati uomini con un volto solo e un’anima sola. Eravamo di nuovo completamente noi stessi. Ci sentivamo di nuovo uomini civili. Da oppressi eravamo ridiventati uomini liberi. Quel giorno, o amici, abbiamo vissuto una tra le esperienze più belle che all’uomo sia dato di provare: il miracolo della libertà”.
La libertà. Ecco il valore prezioso per tutti gli italiani che si festeggia il 25 aprile!
Per questo il significato di questa ricorrenza è oggi così attuale. Perché le vittorie sbiadiscono, i successi militari si appannano. Ma la libertà è il respiro più vero della civiltà.
Non dobbiamo imbalsamare questa Festa riferendola a un preciso momento storico. Guai a cadere nella trappola della memoria fine a se stessa, della retorica scontata.
Dobbiamo fare del 25 aprile un fondamento sul quale costruire una società rinnovata, nella quale i popoli non si debbano mai più chiudere in una belligerante autarchia, ma abbiano in sé il respiro dell’universalità e della ormai inevitabile interconnessione globale. Un mondo nel quale il concetto ottocentesco di “indipendenza” si schiuda al nuovo valore dell’interdipendenza. Questa è la parola nuova in cui, se non si vuole che il domani ripeta e aggravi gli orrori di ieri, si dovrà riassumere il nuovo senso della libertà, quello da cui potrà nascere un avvenire diverso dal passato: una libertà che unisca gli individui e i popoli, che scandisca la loro dipendenza scambievole; che rivendichi una giustizia da difendere prima negli altri che in noi.
Senza giustizia la libertà è mutilata, ma senza libertà la giustizia è vuoto egualitarismo tirannico.
Resistere non è un grido contro qualcuno. È chiedere unità. È ricominciare la speranza.
Se faremo nostro questo pensiero il 25 aprile non sarà più soltanto rievocazione, ma fertile base verso rinnovati orizzonti.
Sarà, come deve essere e come è, la festa di tutti gli italiani. Nessuno escluso.
Buon 25 aprile!

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Il Genocidio Armeno

Un oltraggio nei confronti della storia e delle vittime: questo sarebbe oggi non ricordare il Genocidio Armeno, uno scientifico e preordinato sterminio che ebbe inizio il 24 aprile del 1915. L’Armenia è una regione situata tra l’Eufrate e il Caucaso, gravitante intorno ai laghi di Van, Sevan e Urmia. Gli armeni, d’origine indoeuropea, vi giunsero intorno al VII secolo a.C. e il loro nome era già noto allo storico greco Erodoto. Nel 301 d.C., ancora prima dell’editto di tolleranza promulgato da Costantino il Grande, il re Tiridate III adottò il cristianesimo come religione di Stato e costituì così il primo regno cristiano della storia. Con il declino dell’Impero Romano, gli armeni caddero sia sotto l’influenza di Bisanzio, sia sotto quella persiana, infine subirono, dal VII secolo, la dominazione araba, conservando però sempre una forte identità cristiana e costituendo una Chiesa nazionale. Dal XVI secolo in poi, gran parte del loro territorio cadde sotto la dominazione dei Turchi ottomani.
Le prime persecuzioni turche contro gli armeni si verificarono nel 1895 e nel 1896, causando la morte di almeno 50.000 persone, ma fu nel Novecento che la tragedia ebbe il suo epilogo, con l’avvento dei cosiddetti Giovani Turchi alla guida dello stato ottomano.
Il movente fondamentale che ispirò l’azione di governo dei Giovani Turchi fu l’ideologia panturchista, il sogno di un immenso territorio dal Mediterraneo all’altopiano turanico e la determinazione a riformare lo Stato su una base monoetnica, linguisticamente e culturalmente omogenea. Armeni, greci, assiri, ebrei: l’Impero ottomano era costituito di fatto da un mosaico di etnie e religioni. La popolazione armena, la più numerosa, di religione cristiana, che aveva assorbito gli ideali dello stato di diritto di stampo occidentale, con le sue richieste di uguaglianza, costituiva un ostacolo al progetto di omogeneizzazione del regime.
L’obiettivo degli ottomani era la cancellazione della comunità armena come soggetto storico, culturale e soprattutto politico. Non secondaria fu la rapina dei beni e delle terre degli armeni che servì da base economica alla futura repubblica kemalista. La pianificazione avviene tra il dicembre del 1914 e il febbraio del 1915, con l’aiuto di consiglieri tedeschi, data l’alleanza tra Germania e Turchia.
Il Comitato Centrale del Partito Unione e Progresso pianificò il genocidio, realizzato attraverso una struttura paramilitare diretta da due medici, Nazim e Chakir, formata da circa 30.000 criminali liberati dalle carceri.
24 aprile 1915.
A Costantinopoli per tutta la giornata un’aria primaverile proveniente dal Bosforo aveva soffiato sui tetti delle case. Due giorni ancora e sarebbe stata domenica, festa per tutte le famiglie armene cristiane che l’avrebbero celebrata nelle chiese della città. Ma quella stessa notte iniziò la discesa agli inferi. L’odio dei vertici ottomani, che covava sordido sotto la cenere del disprezzo, stava per accendere le fiamme stesse di un umano inferno. Proprio quel venerdì sera gli ordini dei massimi dirigenti turchi furono precisi: cancellare un popolo dalla faccia della terra.
Quella notte furono arrestati gli intellettuali armeni presenti in città. Scomparvero oltre duemilacinquecento persone appartenenti alla classe dirigente, tra cui giornalisti, scrittori, avvocati e persino deputati al Parlamento. Queste persone vennero deportate e chi sopravvisse al duro tragitto venne massacrato una volta giunto a destinazione. Dopo aver eliminato la classe dirigente il governo turco, con un altro decreto emesso nel 1915, ordinò il disarmo di tutti i 350 mila militari armeni arruolatisi per la guerra, che vennero arrestati e massacrati fino all’ultimo.
Fece quindi seguito la deportazione dell’intera popolazione armena verso la parte meridionale dell’Anatolia, la Siria e la Mesopotamia. L’assemblea turca del Partito di governo deliberò di aver “deciso di annientare tutti gli armeni viventi in Turchia, senza lasciarne vivo nemmeno uno e a questo riguardo è stato dato al governo ampia libertà d’azione…”. Il Ministro dell’Interno turco Talaat aggiunse, a fugare ogni dubbio: “il luogo di esilio di questa gente sediziosa è l’annientamento”, precisando che “il numero settimanale dei morti durante gli ultimi giorni non è soddisfacente”.
Durante la deportazione la gran parte della popolazione morì per gli stenti e per la fatica. Le donne avevano una possibilità di salvezza: convertirsi all’islam, sposando un turco ed affidando i propri figli allo Stato. Durante la marcia i convogli vennero anche attaccati e depredati, con l’aiuto dei militari di scorta. Il bottino veniva spartito tra lo stato turco, i militari e gli esecutori materiali.
A differenza del genocidio degli ebrei, compiuto da militari del regime nazista, al genocidio degli armeni prese parte attiva la popolazione civile. Nell’esecuzione del piano le autorità dello Stato furono aiutate dalle folle che si impossessavano dei beni degli armeni deportati e trucidati. I sentimenti di antipatia e intolleranza verso la minoranza etnica armena, generalmente più ricca e più colta della popolazione turca, furono sapientemente fomentati e utilizzati dal governo, facilitato anche dalla proclamazione della Jihad islamica, che creò un’atmosfera di “caccia all’armeno”, in cui tutto era permesso: rubare, bruciare, violentare, torturare, mutilare, uccidere…
Gli uomini vennero gettati in caverne e bruciati vivi. Altri furono annegati nel fiume Eufrate. Ma non andò bene neppure ai pochissimi sopravvissuti. Mustafà Kemal “Ataturk”, “Padre della Turchia”, nel frattempo giunto al potere, li fece passare a fil di spada o di arma da fuoco. Oppure, con una modalità inedita, fece riempire vagoni ferroviari di donne e bambini per poi ricoprirli di carbone ed incendiarli.
Molte di queste vicende furono narrate nel romanzo “I Quaranta giorni del MussaDagh” con cui Franz Werfel, scrittore ebreo praghese, volle rendere giustizia a una tragedia che già allora pareva dimenticata dalla memoria collettiva. Werfel ignorava che da lì a pochi anni (il libro è del 1933) la stessa sorte sarebbe toccata al suo popolo. Non a caso, in quanto Hitler era tra i pochi che ben aveva presente il genocidio armeno e proprio questo gli ispirò lo sterminio degli ebrei, certo dell’indifferenza del mondo. Considerando il silenzio sceso sui fatti, il fuhrer chiese soddisfatto ai suoi collaboratori: “chi parla ancora oggi del genocidio degli armeni?”.
Smentiamo Hitler! Parliamone ancora, di questo orrore. Con buona pace di Erdogan, meritatamente apostrofato come dittatore dal nostro Presidente del Consiglio, che oggi strepita e minaccia quale patetico fuhrer in sedicesimo contro chi ricorda questa tragedia.
Lo meritano le vittime ricordate nel racconto di Khostor Frangyan: “Le deportazioni di massa verso i campi di concentramento. La ferocia disumana delle squadracce dell’esercito contro i perseguitati privati di cibo e acqua, spinti dalla disperazione a succhiare dagli abiti a pezzi le gocce della pioggia o del sudore. Le epidemie incontrollabili durante le marce forzate. Gli eccidi brutali di tutta la popolazione maschile in interi villaggi. Decine di migliaia di donne stuprate e poi avviate nei bordelli. Bambini brutalizzati, perfino bloccati, nel corso delle tragiche migrazioni, dai ferri da cavallo che inchiodavano i piedi. Villaggi e chiese bruciate”.
Medz Yeghern: il “Grande Male”. Con questa espressione gli Armeni ricordano lo sterminio.
Antonia Arslan, una scrittrice di origine armena, racconta di aver incontrato lo scorso anno, nel corso di una commemorazione, un uomo molto anziano. Quando si avvicinò per stringere la mano dell’anziano, questi le disse: “Avevo otto anni quando tutto è successo, e mi ricordo tutto. Ogni anno qualche personaggio importante mi dice che bisogna avere pazienza, che non è ancora il momento. Ma qual è il momento per la giustizia?”.
Impegnamoci perché quel momento arrivi.


Medz Yeghern
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Un risparmio importante

La crisi economica sta opprimendo l’intero mondo.
Nel nostro Paese intere categorie sono ormai sull’orlo del collasso e, tra pochi mesi, la conclusione del blocco dei licenziamenti potrebbe determinare un’ondata di disoccupazione difficilmente quantificabile.
Le disuguaglianze economiche, lungi dall’essere appiattite, hanno raggiunto picchi mai raggiunti in precedenza.
Tutto questo, insieme alla sfiducia ormai diffusa verso la classe politica e la stessa forma democratica, potrebbe portare a preoccupanti problemi di ordine pubblico.
In questo contesto gli Stati tutti, nella logica di attutire i problemi, si stanno indebitando come mai in precedenza.
Questo determina, come ovvio, la necessità di tagliare spese pubbliche non necessarie per dirottare risorse verso la ricostruzione delle economie nazionali.
Tra le voci di spesa mai menzionate, anche se ingenti, vi è quella relativa al mantenimento delle testate nucleari.
Alcuni dati significativi sono apparsi sull’edizione odierna di “Specchio” , inserto settimanale del quotidiano “La Stampa” e di quelli del Gruppo editoriale GEDI.
Vediamo qualche dato.
Le testate nucleari nel mondo sono circa 13.400. La più fornita è la Russia, con 6.375, seguita dagli Stati Uniti con circa 5.800.
I Paesi che detengono armi nucleari sono nove: USA, Russia, Cina, Francia, Regno Unito, India, Pakistan, Corea del Nord e Israele.
Alcuni altri Paesi, pur non disponendo di testate nucleari proprie, ospitano sul proprio territorio quelle degli Stati Uniti. Sono Turchia (50 testate), Italia (40), Germania (20), Belgio (20) e Paesi Bassi (20).
Il solo mantenimento di queste armi, al fine di mantenerle operative e gestire i sistemi di sicurezza e puntamento, è estremamente costoso e varia, ovviamente, per ciascun Paese. Si passa dai 36 miliardi di dollari degli Stati Uniti agli 11 della Cina, dai 9 della Russia agli 8 del Regno Unito.
Coinvolgendo anche, come ovvio, i Paesi che si limitano a ospitarle.
Con una spesa complessiva, per tutti gli stati detentori, di circa 73 miliardi di dollari.
Non voglio essere banale: non si tratta di una spesa immensa. Il solo scostamento di bilancio deciso dal nostro governo pochi giorni fa è di 40 miliardi di euro, ossia di 47 miliardi di dollari.
Ma certamente di una spesa di cui si potrebbe fare a meno. Qualcuno ha calcolato che la cifra per il mantenimento delle testate equivale a quello di 300 mila posti letto in terapia intensiva e 250 mila tra medici e inferrnieri.
Ma non si tratta solo di risparmio, ma della sicurezza generale dell’umanità e del nostro pianeta.
Non voglio essere banale, ho detto, ma neppure retorico. Non ipotizzo un disarmo totale. Non è tempo di utopie e di sogni infantili. La crescente insicurezza geopolitica, i sempre più pericolosi regimi autoritari, il sorgere di “dittatori” che paiono talora perdere il senso dell’intelletto e della ragionevolezza, il brontolio costante del terrorismo internazionale rendono indispensabile il mantenimento di un sistema di difesa, meglio ancora se, per quanto riguarda il nostro continente, forte di un coordinamento europeo.
Ma ritengo altresì che un efficiente sistema militare di difesa possa prescindere dalla presenza di 13.400 testate nucleari, le quali costituiscono un permanente pericolo di estinzione di massa del pianeta.
Forse conviene rifletterci.

Foto vladtime.ru Летчики США употребляли ЛСД при охране ядерных ракет Источник
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La Manica di Djuha

La Siria attraversa il periodo più terribile della sua storia.
Rivolgendo il mio pensiero a questa martoriata terra e, naturalmente, ai suoi abitanti mi piace ricordare una breve favola siriana, carina e con una certa morale, come si diceva una volta.
Protagonista è Djuha.
Djuha è un personaggio molto popolare nel folclore arabo sin dal decimo secolo, e le sue avventure si sono diffuse ovunque vi sia stata una presenza culturale araba. E’ conosciuto come Djawha nella Nubia, Djahan a Malta e Giufà in Sicilia.
E’ una figura divertente, sagace, mutevole e coinvolta in tante avventure pittoresche. Ciò che affascina è la sua originalità di pensiero, le beffe ed una certa istintiva scaltrezza, realistica e prosaica, nei riguardi dei suoi interessi.
Eccolo in una brevissima fiaba, nella quale, rivolgendosi alla sua… manica, irride a coloro che danno più importanza all’abito ed alla ricchezza che non al cuore dell’uomo.
Storia, a mio parere, tuttora attualissima.
LA MANICA DI DJUHA
Un giorno Djuha era invitato a pranzo, e arrivò nei suoi soliti stracci, per cui fu squadrato con sospetto sulla porta della casa dell’ospite, e non gli fu permesso di entrare. Dopo aver indossato i suoi abiti più eleganti e aver sellato la sua mula, tornò alla casa dell’ospite con l’aspetto di un uomo ricco e importante. Questa volta il servo lo salutò con rispetto e lo fece sedere accanto agli ospiti d’onore. Mentre stendeva la mano per prendere un pezzo di carne arrosto, la sua manica per caso scivolò nel piatto.
“Rimboccati quella manica”, gli sussurrò l’uomo che sedeva vicino a lui.
“No”, rispose Djuha “questo non lo farò”.
E rivolgendosi alla sua manica, disse: “Mangia, mia cara manica, mangia pure e saziati! Tu hai più diritto di me a questo banchetto, poiché in questa casa hanno più rispetto per te che per me”.
Favola della Siria

Il venditore di tappeti – Jamal Al Bayati
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Ricordando Gianni Rodari

Ha senso, in questi giorni difficili, parlare di cultura? Io credo fermamente di sì. Forse ancor più in questo periodo. Perché, come diceva Aristotele, la cultura è un ornamento nella buona sorte e un rifugio nell’avversa.
Quindi, in questa prospettiva, ricordiamo oggi Gianni Rodari, morto il 14 aprile del 1980.
Lo scrittore, pedagogista e giornalista, il cui vero nome era Giovanni Francesco Rodari, nacque a Omegna, sul lago d’Ortail 23 ottobre 1920.
In questa cittadina Gianni, un bambino con una corporatura minuta e un carattere piuttosto schivo, frequentò le scuole elementari.
All’età di dieci anni, a seguito dell’improvvisa morte del padre, si trasferì in provincia di Varese, zona della quale la mamma era originaria.
Gianni si iscrisse al ginnasio presso il seminario di Seveso, mettendosi in luce per le ottime capacità che lo portarono ad essere il migliore della classe, e conseguì il diploma nelle scuole Magistrali nel 1937, a soli diciassette anni.
Nel frattempo abbinò allo studio un corposo impegno sociale, militando nell’Azione Cattolica dove svolse le funzioni di presidente nell’ambito della sua zona di residenza. A tale attività si aggiunse la passione per la scrittura. Ancora sedicenne pubblicò alcuni racconti sul settimanale cattolico “L’azione giovanile” e iniziò una collaborazione con il periodico “Luce”.
Nel 1941 Rodari, giudicato rivedibile alla visita medica per il servizio militare a causa della sua corporatura eccessivamente minuta, vinse il concorso per maestro e incominciò ad insegnare nei paesi della provincia di Varese.
Gli orrori della guerra e, soprattutto, la morte del fratello Cesare in un campo di concentramento nazista avvicinarono Rodari alla Resistenza e, quindi, al Partito Comunista, a cui si iscrisse nel 1944.
Dopo la Liberazione venne assunto al quotidiano l’Unità. Fu proprio in questo periodo che Rodari incominciò a scrivere racconti per bambini, tra i quali “Il libro delle filastrocche” e “Il Romanzo di Cipollino”. Nella redazione del quotidiano Rodari era visto con una certa sufficienza, per il suo continuo narrare – a detta dei redattori – storie per bambini. Ma le critiche peggiori giunsero dai vertici del PCI. Anche perché Rodari inventò le storie di Cipollino, pubblicate nell’edizione domenicale, in forma di fumetto, con le tavole disegnate da Raul Verdini e i suoi testi. Tuttavia il pensiero del PCI circa i fumetti era stato espresso chiaramente da Nilde Iotti in Parlamento nella seduta del 7 dicembre 1951: “Oggi, nei giornali a fumetti troviamo soprattutto la esaltazione dello spirito di violenza, degli istinti di aggressione in quanto tali, lʼesaltazione dellʼuccisione per il piacere dellʼuccisione stessa, in un modo che non può non preoccupare coloro che sono pensosi della educazione dei nostri giovani; vi è insomma lʼesaltazione dellʼistinto della lotta fra gli uomini. […] Io arriverei perfino ad affermare che il fumetto, così come viene presentato, porta al dissolvimento della personalità del ragazzo che in un tempo successivo può avere delle serie conseguenze nello sviluppo completo della personalità dellʼuomo” (Iotti 1951, 49-51). Posizione identica a quella espressa cinque giorni prima, il 2 dicembre del 1951, da “L’Osservatore Romano” in un articolo ampiamente citato, nel suo intervento, dalla stessa Iotti.
Rodari passò al quotidiano “Paese sera” di Roma, riuscendo a realizzare il suo obiettivo di affiancare al lavoro di scrittore per l’infanzia quello di un giornalismo libero, non più alle dipendenze dirette di un partito.
Nel 1960 incominciò a pubblicare per Einaudi. Il primo libro che uscì con la nuova casa editrice fu “Filastrocche in cielo ed in terra”. Anche in questa prestigiosa casa editrice Rodari incontrò qualche difficoltà. L’Einaudi era il regno di Natalia Ginzburg, di Primo Levi e di altre firme nobili delle lettere italiane. Era presente anche Italo Calvino, il quale pure scriveva (anche) racconti per ragazzi. Ecco quindi, come ci ricorda Dario Ceccarelli su “Il Sole 24 Ore”, che proprio Calvino, temendo forse una invasione di campo, all’inizio tenne verso Rodari un atteggiamento cordiale nella forma ma freddo nella sostanza.
La morte lo colse a soli sessant’anni, a seguito di un intervento chirurgico risultato più complesso del previsto.

Certamente Rodari fu un grande scrittore per l’infanzia. Ma considerare questo autore solamente come creatore di fiabe e filastrocche sarebbe estremamente limitativo.
Dopo tanti studi critici, convegni, saggi e riflessioni sulla sua figura, oggi resta da dire soltanto che si tratta di un vero e proprio protagonista della letteratura, che ha vissuto le inquietudini del suo tempo e che ha lasciato una traccia indelebile nella memoria di tante generazioni di bambini e scolari: quasi ogni testo scolastico o antologia riporta un suo racconto o una filastrocca.
Come ha scritto in un saggio Lodovica Cima, “per un insegnante, un testo di Rodari è una garanzia e un riferimento, come per un legislatore il codice”.
Il suo ruolo nella trasformazione della letteratura per l’infanzia fu assolutamente fondamentale. Nel secondo dopoguerra i libri per ragazzi venivano scritti sulla scia di De Amicis, con obiettivi educativi palesati attraverso descrizioni lacrimose e forzatamente edificanti. Si trattava di pubblicazioni noiose e molto distanti dalla realtà di una nazione in piena rinascita e ricostruzione. In un Paese annientato dalla guerra, pochi si potevano permettere di comprare libri che non fossero testi scolastici e altrettanto pochi erano attenti alle esigenze quotidiane dei bambini. Molti pedagogisti ed educatori teorizzavano i libri come strumenti di crescita, da costruire su obiettivi di istruzione specifica, ma non c’era ancora spazio per la fantasia e il gioco. Fu appunto Rodari che seppe dare la vera svolta alla letteratura italiana per ragazzi, mantenendo un legame con la tradizione educativa ma rinnovandola profondamente e rendendola vera letteratura, libera da intenti pedagogici troppo specifici e condizionanti.
Tutto sembra semplice, in Rodari. Ma in realtà alla base del suo lavoro vi è una grande attività di studio ed elaborazione. La sua opera “Grammatica della fantasia”, nella sua parte conclusiva, contiene una bibliografia di oltre quaranta titoli di opere di linguistica, letteratura, pedagogia e psicologia. Rodari è un autore solo in apparenza facile, ma in realtà è un intellettuale che vive in pieno le contraddizioni e le speranze, la realtà e l’utopia del Novecento. Uno scrittore sempre attento alle nuove forme di comunicazione: abbiamo detto del fumetto, ma apprezzò i cartoni animati (disse di “stare dalla parte di Goldrake”), le nuove forme radiotelevisive e persino la pubblicità, nell’ambito della quale scrisse alcuni testi per la British Petroleum.
Non scordiamo, inoltre, l’influenza del surrealismo, movimento al quale Rodari si era avvicinato da giovane. Alcuni passi della “Grammatica della fantasia” sono ripresi dal primo Manifesto del Surrealismo del 1924 di Andrè Breton: si pensi al cosiddetto “binomio fantastico”, palesemente mutuato dal “sistema del fortuito incontro” di Breton.
E’ stato scritto che le sue invenzioni linguistiche sono state pari a quelle di Raymond Queneau. Che la sua raffinatezza di intellettuale è stata la stessa di Roland Barthes. Che la sua disponibilità al fantastico è stata molto simile a quella di J.M. Barrie, di Lewis Carroll.
Uno scrittore, soprattutto, di grande attualità. Che ha declinato il suo lavoro su due valori portanti: speranza e comunità. Il celebre paradigma gramsciano dell’ottimismo della volontà e del pessimismo della ragione è risolto in modo brillante da Rodari: nei momenti di crisi questa contraddizione ci deve servire per immaginare il futuro. “L’utopia non è meno educativa dello spirito critico. Basta trasferirla dal mondo dell’intelligenza a quello della volontà”.
Sempre, tuttavia, nell’ambito della comunità. Perché quando il momento è difficile occorre appellarsi
allo spirito solidale della comunità. Infatti, afferma Rodari citando una frase di Don Milani, “il problema degli altri è sempre uguale al mio, uscirne da soli è avarizia, uscirne insieme è la politica”. Quella vera, quella nobile. Quella ormai sconosciuta.
Per tutto questo credo sia importante ricordare Gianni Rodari.

Gianni Rodari
politica · società

Il cacciatore di pirati in Africa

“Il cacciatore di pirati in Africa”.
No, non si tratta dell’ultimo romanzo di Wilbur Smith e neppure di un’opera poco conosciuta di Emilio Salgari.
E’ il titolo dell’articolo del “Corriere della Sera” di oggi con cui il quotidiano ci parla del contrammiraglio Luca Pasquale Esposito che, dalla tolda della fregata «Carabiniere», comanda l’operazione europea antipirateria «Atalanta» nei mari africani.
La pirateria non è infatti un fenomeno confinato nei libri di storia o d’avventura, ma – al contrario – è in ascesa e preoccupa gli armatori. Nel 2020, secondo i dati del rapporto sulla pirateria dell’Ufficio marittimo della Camera di commercio internazionale, sono stati 195 gli attacchi subiti dalle imbarcazioni nel mondo contro i 162 dell’anno prima. Del resto le prede possibili sono tante: il 90 per cento del trasporto delle merci avviene via mare. Così i corsari sequestrano petroliere o cargo e ottengono riscatti per milioni di dollari. Rapiscono anche marinai: 135 lo scorso anno.
Per questo, dal 2008, l’Europa ha varato l’operazione antipirateria «Atalanta» che ha ridotto al lumicino gli attacchi. Oggi la missione è comandata dal contrammiraglio Luca Pasquale Esposito. Dalla tolda della fregata «Carabiniere», guida l’equipaggio di 153 uomini e 13 donne della Marina militare.
La pirateria è un crimine e l’obiettivo degli interventi militari è quello di sventarne i tentativi e assicurare alla giustizia i pirati perché subiscano un processo.
Oltre a stroncare la pirateria l’operazione ha contribuito a combattere il traffico di droga e di armi nei mari africani.
Dobbiamo essere grati al contrammiraglio Esposito: per la sua attività e per il prestigio che ancora una volta le nostre Forze Armate donano al nostro Paese.
Con buona pace di qualche scrittrice in cerca di un po’ di visibilità che, con sprezzo del ridicolo, ha assimilato gli uomini in divisa ai dittatori, alludendo al generale Figliuolo, nominato Commissario Straordinario per l’emergenza Covid-19, che – con la sua divisa – incuterebbe paura.
Ci sarebbe da indignarsi, se non fossimo troppo impegnati a ridere.

Foto Marina Militare