cultura · società

Oggi dobbiamo ricordare: più che mai

Il 27 gennaio 1945, l’Armata Rossa aprì i cancelli di Auschwitz.

Per questo l’ONU, nel 2005, ha stabilito che in questa data venga celebrata la Giornata della Memoria, in ricordo della Shoah.

Il nostro Paese ha anticipato la decisione delle Nazioni Unite, istituendo questa giornata commemorativa nel luglio del 2000, al fine di ricordare le vittime, le leggi razziali e coloro che hanno messo a rischio la propria vita per proteggere i perseguitati ebrei, nonché tutti i deportati militari e politici italiani nella Germania nazista.

Ricordare l’Olocausto è oggi ancora più importante che in passato.

Innanzitutto per l’inesorabile venir meno degli ultimi testimoni in grado di riportarci testimonianze dirette.

Ma anche, e soprattutto, per il progressivo e inquietante risorgere di un pensiero antisemita che sempre più spesso si traduce in atti di intimidazione e di violenza.

Nel corso del 2020, secondo i dati dell’Osservatorio antisemitismo della Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea di Milano, sono stati ben 230 gli episodi di violenza e intimidazione contro il mondo ebraico in Italia. Con un’allarmante crescita rispetto ai 181 episodi del 2018, ai 64 del 2015 e ai 16 del 2012.

A questo dato bisogna aggiungere un permanente clima di sospetto e ostilità.

L’Istituto di ricerca Solomon, in collaborazione con Euromedia Research, ha effettuato uno studio sull’antisemitismo in Italia che ha prodotto dati poco incoraggianti. Il 16 per cento degli italiani si è dichiarata “non favorevole” all’ebraismo (per la cronaca il 14% è anche ostile al cristianesimo). Circa un italiano su dieci ritiene che gli ebrei dispongano di un eccessivo potere economico e finanziario, che non abbiano cura della società in cui vivono ma soltanto della loro cerchia religiosa, che si ritengano superiori agli altri e che siano causa di molti dei conflitti che insanguinano il mondo. E se solo due italiani su cento non credono nell’Olocausto, sono oltre il diciassette per cento quelli che ritengono che il genocidio sia stato ingigantito nelle sue proporzioni dagli storici (ovviamente su pressioni degli ebrei) oppure che dichiarano di non essere certi delle esatte dimensioni. Un’altra ricerca condotta da Vox ha verificato i sentimenti negativi verso gli ebrei nell’ambito degli elettorati dei diversi partiti, con un risultato ancora una volta poco rassicurante. La percezione del pericolo insito nell’antisemitismo è molto bassa in tutta le forze politiche, senza una grandissima distinzione tra elettorato di destra e di centrosinistra.

Le cose non vanno meglio nel mondo.

Negli Stati Uniti l’organizzazione complottista QAnon sta vivendo una fase di caos interno, legato alla mancata realizzazione delle loro “profezie” e alla delusione per la “resa” di Trump, visto ormai come un traditore.

Mentre i fondatori paiono essersi defilati, potrebbe realizzarsi un altro e più pericoloso scenario, prefigurato dal prof. Brian Friedberg, un esperto di tecnologia e discriminazioni dell’università di Harvard.

Friedberg ha spiegato che i suprematisti bianchi e i movimenti neonazisti potrebbero riempire il vuoto lasciato dal fondatore Q – che non ha ancora postato un messaggio dopo l’insediamento di Biden – per indirizzare la rabbia e le credenze dei seguaci di QAnon contro gli ebrei. Travis View, un giornalista che conduce il podcast più seguito sul movimento QAnon, ha fatto notare che ormai i suoi seguaci condividono molte teorie complottiste con l’estrema destra statunitense ed europea, fra cui la credenza che finanzieri ebrei controllino segretamente i governi di tutto il mondo.

Anche per questo dobbiamo celebrare con convinzione questa giornata, rileggendo le testimonianze di quel che accadde.

Dobbiamo riflettere su come sia stato possibile annientare ogni senso di umanità, non solo nei carnefici ma anche nelle vittime. In uno dei racconti del libro “Paesaggio dopo la battaglia”, dello scrittore polacco Tadeusz Borowskj, sopravvissuto ad Auschwitz, si narra che mentre una colonna di donne avanzava agitando le braccia e gridando “aiuto!”, perché condotte alle camere a gas, oltre diecimila uomini osservarono la scena nel più profondo silenzio e nell’inerzia totale. Una indifferenza che segnerà con un senso di colpa il resto della vita dei superstiti.

L’indifferenza e l’ignavia di tanti Paesi furono efficaci complici del genocidio. Ha scritto Georges Bensoussan, nella sua opera “Storia della Shoah”, che nelle alte sfere internazionali l’informazione era diffusa molto più di quanto si sia a lungo creduto. La conoscenza dei massacri di massa della popolazione ebraica è stata quasi concomitante con la loro esecuzione. Gli inglesi, intercettando e decriptando i telegrammi tedeschi, ne furono informati sin dall’inizio. Ma tennero segrete quelle informazioni fondamentali. Un comportamento altrettanto imperdonabile fu tenuto dagli Stati Uniti: il Governo americano disponeva di una conoscenza perfetta del genocidio (nel giugno del 1942, un rapporto ufficiale menzionava che «la Germania non perseguita più gli ebrei. Li stermina sistematicamente»). Tuttavia rifiutò di intraprendere qualsiasi azione concreta al fine di ostacolare la “soluzione finale”, come ad esempio il bombardamento delle linee ferroviarie che portavano ad Auschwitz. Parve a loro più importante, il 20 agosto 1944, il bombardamento una fabbrica situata a meno di 10 chilometri da Birkenau.

L’indifferenza coinvolse anche la popolazione comune, sia prima che – incredibilmente – dopo la liberazione. Racconta Edith Bruck, sopravvissuta a ben sette campi di concentramento nei quali fu successivamente trasferita: “Quando ero nei campi e lottavo tutti i giorni per sopravvivere, pensavo: «se ne uscirai viva il mondo ti chiederà perdono in ginocchio». E invece quando siamo tornati dai campi abbiamo scoperto con profondo dolore che il mondo continuava a tenere gli occhi chiusi, che non ci voleva vedere. Che eravamo soltanto un peso. Con mia sorella ci siamo dette «ma perché siamo sopravvissute, perché abbiamo lottato per la vita?». È stato un momento molto amaro. Eravamo molto sole”.

Hitler non fu un castigo di Dio: si limitò a sfruttare abilmente le gravi condizioni sociali createsi nel primo dopoguerra.

La Germania, infatti, uscì devastata dal conflitto mondiale. I debiti di guerra sommati alla crisi economica mondiale del 1929 minarono profondamente la stabilità dell’economia tedesca, bruciando i risparmi della classe media e provocando una massiccia disoccupazione. L’inquietudine sociale ed economica che ne seguì destabilizzò fortemente la giovane democrazia tedesca e portò alla nascita di molti partiti vicini alla destra radicale e populista. La classe più colpita dalla crisi fu la piccola borghesia, il cosiddetto ceto medio. Forse la vittoria dei nazisti, come sostenne Bloch a posteriori, poteva essere evitata. Ma allora il problema non era tanto la forza della destra, bensì l’incapacità delle forze democratiche di comprendere quanto stesse accadendo nel paese reale. L’errore strategico fu quello di non aver letto e interpretato la domanda di cambiamento della classe media impoverita, consegnandola alla propaganda nazionalsocialista.

Una situazione che, mutatis mutandis, rammenta quella odierna, soprattutto in Italia, con la profonda crisi economica creata dall’epidemia di Covid, la perdita di sicurezza della classe media, la disoccupazione destinata ad esplodere al termine del blocco dei licenziamenti e lo scivolamento verso la povertà di milioni di persone. Una classe politica culturalmente inadeguata e incline alle alchimie di un perverso bizantinismo meramente partitico e bottegaio rischia di lasciare aperta la strada a rigurgiti di violenza e di riflusso antidemocratico, potenzialmente veicolabili in apparati politici populisti tesi alla devastazione della pacifica convivenza civile. Occorre uno slancio alto verso una ricostruzione che sia al tempo stesso economica e morale. E’ necessario un utilizzo intelligente delle ingenti risorse economiche che l’Europa ci ha messo a disposizione, senza che le stesse vengano disperse in numerosi e inutili rivoli destinati a mere soddisfazione clientelari di breve respiro.

Accanto a questo sforzo è necessario ribadire con forza la adesione di tutti agli irrevocabili valori illuministici ed europei di fratellanza, di eguaglianza e di rifiuto di ogni discriminazione.

Oggi, quindi, è ancora più necessario ricordare il genocidio ebraico.

La Shoah fu una indescrivibile tragedia che deve continuare a interrogarci. Non possiamo scordare, né dobbiamo farlo, le immagini dei campi di sterminio. Dobbiamo inciderci nella mente le testimonianze di tanta disumanità, che non risparmiò neppure i bambini: furono oltre un milione e mezzo quelli che vi trovarono la morte.

Elie Wiesel, scrittore ebraico trasferitosi negli Stati Uniti dopo la fine della guerra, prigioniero ad Auschwitz, Monowitz e Buchenwald fra il 1944 e il 1945, ha raccontato l’impiccagione di un bambino insieme a due adulti: “I due adulti non vivevano più. La lingua pendula, ingrossata, bluastra. Ma la terza corda non era immobile: anche se lievemente, il bambino viveva ancora… Più di una mezz’ora restò così, a lottare fra la vita e la morte, agonizzando sotto i nostri occhi. E noi dovevamo guardarlo bene in faccia. Era ancora vivo quando gli passai davanti. La lingua era ancora rossa, gli occhi non ancora spenti. Dietro di me udii qualcuno domandare: «Dov’è dunque Dio?». E io sentivo in me una voce che gli rispondeva: «Dov’è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca…»”.

Ha scritto Elsa Binder, diciassettenne ebrea che viveva nella Polonia invasa dalla Germania nazista: “Non ridiamo più. Una parola divertente è abbastanza per farci sentire in colpa. Quando mi dimentico di me stessa per un attimo, quando canticchio o fischietto, mi appare immediatamente una processione di amici che non giocheranno o piangeranno più con noi”.

Oggi, ancora una volta e ancora più di prima, dobbiamo ricordare.

Oggi, più ancora di sempre, dobbiamo dire mai più!

politica · società

Le radici della violenza

Ogni qual volta ci troviamo a condannare la violenza sulle donne ribadiamo che fertile humus di questa piaga sono i luoghi comuni e le offese sessiste verso di loro.

Quando queste offese avvengono addirittura sulle reti pubbliche televisive lo sconforto ci dovrebbe sgomentare.

L’ennesimo triste esempio è di pochi giorni fa, allorquando nel corso della trasmissione “Unomattina”, su RAI 1, l’opinionista Alan Friedman, collegato via Skype per commentare l’addio di Trump alla Casa Bianca, aveva definito la moglie Melania come una “escort”.

Affermazione, purtroppo accompagnata da qualche risatina in studio.

Non si possono più tollerare questi atteggiamenti, così come non è accettabile che la differenza di opinioni e di pensiero possa in alcun modo costituire un’attenuante alla volgarità.

Un insulto sessista è una canagliata, che sia diretto a Melania Trump, a Teresa Bellanova, a Laura Boldrini, a Giorgia Meloni o alla cassiera del bar sotto casa!

Concordo pienamente con quanto scritto da Mara Carfagna: “Garbo e rispetto sono, innanzitutto, un obbligo dell’educazione, quella che ci hanno insegnato le nostre madri e le nostre nonne: la cosa più tradizionale e identitaria che io possa immaginare, la più popolare che mi venga in mente. Ma, oggi, il rifiuto interiore del sessismo – quello che dovrebbe impedire di far commenti sulle donne come i vecchi pappagalli a bordo strada – dovrebbe essere anche precondizione di ogni impegno politico e giornalistico”.

Mi aspetto che la RAI, in ossequio al suo ruolo di servizio pubblico, si astenga per un lungo periodo dall’invitare tale presunto opinionista nelle proprie trasmissioni.

Melania Trump non è una “escort”, ma più semplicemente la moglie di Donald Trump.

Così come Friedman non è un opinionista, ma più semplicemente un poveraccio.

cultura · società

Ricordando Paolo Borsellino

Il 19 gennaio 1940 nasceva a Palermo Paolo Borsellino.

Borsellino era nato nella Kalsa, l’antico quartiere di origine araba di Palermo, zona di professori, commercianti ed esponenti della media borghesia.

Ancora ragazzo conobbe Giovanni Falcone, che abitava a poche decine di metri da lui e che gli fu compagno nella magistratura e, purtroppo, nella morte.

Si laureò in giurisprudenza a soli 22 anni, ma – sino al conseguimento della laurea in farmacia della sorella Rita – dovette occuparsi della farmacia del padre, scomparso improvvisamente a soli 52 anni.

Entrò quindi in magistratura, divenendo il più giovane magistrato d’Italia.

Dopo vari incarichi Borsellino, nel 1975, venne trasferito all’Ufficio istruzione del tribunale di Palermo. Fu allora che strinse un rapporto molto stretto con il suo superiore Rocco Chinnici, il quale, prima di essere ucciso nel 1983, istituì il cosiddetto “pool antimafia”, un gruppo di giudici istruttori che, lavorando in gruppo, si sarebbero occupati solo dei reati di stampo mafioso. Borsellino fu confermato nel pool anche dal successore di Chinnici, Antonino Caponnetto. A metà anni 80 Falcone e Borsellino istituirono il maxi-processo di Palermo, basato sulle dichiarazioni del pentito Tommaso Buscetta. Per ragioni di sicurezza furono costretti a trascorrere un periodo all’Asinara, insieme alle rispettive famiglie. Lo storico procedimento nell’aula bunker dell’Ucciardone portò, nel 1987, a 342 condanne.

La sua vita, a seguito delle condanne inflitte nel maxi-processo, divenne ogni giorno più a rischio, così come quella di Giovanni Falcone.

La mafia aveva ormai deciso la loro uccisione.

Anche il clima intorno ai magistrati antimafia cominciò a farsi pesante. Chiacchiere e critiche si insinuarono sempre più insidiose, giungendo anche da lidi insospettabili.

Leoluca Orlando accusò Giovanni Falcone di tenere nei cassetti prove contro i politici mafiosi. Lo stesso Orlando, sindaco di Palermo, nel corso di una puntata della trasmissione Sarmarcanda, condotta da Michele Santoro su Rai Tre, il 24 maggio 1990 lanciò un’accusa gravissima contro Orlando e Borsellino: “il pool ha una serie di omicidi eccellenti a Palermo e li tiene chiusi dentro il cassetto”.

Esasperato dalle insinuazioni, Falcone ebbe così a sfogarsi: “Non si può investire della cultura del sospetto tutto e tutti. La cultura del sospetto non è l’anticamera della verità, la cultura del sospetto è l’anticamera del komeinismo…Io sono in grado di resistere, ma altri colleghi un po’ meno. Io vorrei che vedeste che tipo di atmosfera c’è adesso a Palermo”.

Lo scrittore Leonardo Sciascia, dal canto suo, ebbe a scrivere, con riferimento ad una promozione ricevuta da Borsellino: “I lettori, comunque, prendano atto che nulla vale più, in Sicilia, per far carriera nella magistratura, del prender parte a processi di stampo mafioso”. L’intervento di Sciascia, pubblicato dal quotidiano “Corriere della Sera”, dette origine all’espressione “professionisti dell’antimafia”, che risultava essere il titolo dell’articolo.

Nel suo ultimo discorso pronunciato a Casa Professa, a Palermo, pochi giorni prima di essere ucciso, Borsellino, a proposito di quel testo di Sciascia, disse: “Dal momento in cui fu pubblicato, Giovanni Falcone cominciò a morire”.

E la morte di Falcone arrivò, il 23 maggio 1992, in quella che venne chiamata la strage di Capaci, nella quale, oltre al magistrato, persero la vita la moglie Francesca Morvillo e tre uomini della scorta.

Iniziarono, con la morte di Giovanni Falcone quelli che furono chiamati i 57 giorni di Paolo Borsellino, alludendo al periodo che intercorse dall’omicidio di Falcone al suo.

In quei 57 giorni Borsellino fu un “dead man walking”, un morto che cammina, e lo fu pubblicamente, alla luce del sole.

Borsellino sapeva di essere ormai nel mirino”, disse Antonino Caponnetto in un’intervista con Gianni Minà nel 1996, “soprattutto lo seppe negli ultimi giorni prima della sua morte. Il giovedì ebbe la comunicazione indubitabile… la certezza assoluta che il tritolo per lui era già arrivato a Palermo. Per prima cosa si attaccò al telefono, chiamò il suo confessore. Disse: puoi farmi la cortesia di venire subito? E appena quello lo raggiunse nel suo studio, disse: senti, per cortesia, confessami e impartiscimi la comunione”.

Da venti giorni Paolo Borsellino aveva chiesto alla questura la rimozione degli autoveicoli dalla zona antistante l’abitazione della madre. Inutilmente. E proprio una vettura lì posteggiata determinò la sua morte.

Era il 19 luglio 1992. In via d’Amelio, proprio sotto la casa della mamma del magistrato, i killer mafiosi fecero esplodere una Fiat 126 contenente oltre 100 chilogrammi di Tritolo. Nell’attentato persero la vita, oltre a Paolo Borsellino, gli agenti di scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.

A Palermo tutti sapevano che Paolo Borsellino sarebbe stato ucciso. Ha scritto sul quotidiano “La Stampa” Francesco La Licata: “Lo sapevamo noi giornalisti che frequentavamo il “Palazzaccio”, lo sapevano i palermitani che ne parlavano liberamente nei bar e nei salotti (più o meno “buoni”). Lo sapeva anche Paolo Borsellino che ne parlò apertamente, ossessionato dal timore di non riuscire «a fare in tempo»”.

Ricordare Paolo Borsellino, così come Giovanni Falcone, è doveroso.

Per il loro sacrificio, per i loro successi che hanno reso la mafia più debole.

Ma soprattutto per il loro esempio.

A loro e a tutti coloro che ancora oggi sono in prima fila nella lotta alla mafia ben si addicono i versi della poetessa bulgara Blaga Dimitrova: “Nessuna paura che mi calpestino, calpestata l’erba diventa sentiero”.

società

La morte di un pianista

Si chiamava Adriano Urso e aveva 41 anni.
A molti di voi il suo nome dirà poco, ma tra gli amanti del jazz era molto noto.
Non un comune pianista ma, come raccontano gli estimatori, “il” pianista.
Un uomo dolce, di grande cultura, che parlava con una cordialità di altri tempi usando termini della lingua italiana a dir poco in disuso. Così lo descrivono i tanti suoi amici e appassionati di musica.
La crisi provocata dall’epidemia di Covid, con le chiusure dei locali, lo aveva messo in ginocchio, come tanti altri suoi colleghi e operatori dello spettacolo.
Adriano, per campare, si era messo a fare il cosiddetto “rider”: consegnava cene per conto del marchio Just Eat.
L’altra sera Adriano stava effettuando una consegna con la sua auto, una Fiat 750 d’epoca. L’auto si è fermata, forse a causa del freddo, forse a causa degli anni. Il pianista è sceso a spingere la vettura, aiutato da due passanti. Improvvisamente un malore. Adriano si è accasciato ed è morto di infarto.
Una vittima, indiretta, di questa maledetta epidemia. Della crisi economica che sta devastando il nostro Paese.
Un segnale di quanto probabilmente ci attende tra poco, quando cesserà il blocco dei licenziamenti.
Un monito a una classe politica sempre più distante dal Paese reale, dedita a una crisi di governo mentre la gente muore.
Di covid o per la crisi economica dallo stesso causata.